lunedì 30 aprile 2018

Le cose che non vogliamo più

Vi ho già parlato di quanto la biblioteca costituisca per me un baule dei tesori personale; non è tuttavia l'unica fonte di ispirazione a cui attingo per la scelta delle mie nuove letture, anzi, sono moltissimi i luoghi virtuali e non dove mi informo su titoli più o meno recenti.
Questo titolo in particolare l'ho scovato nella sezione dedicata ai titoli super scontati di un noto sito di e-commerce dedicato alla lettura, e la sua trama mi ha tentata a tal punto da acquistarlo senza prima averlo letto (cosa che faccio estremamente di rado). Non me ne sono affatto pentita.



Titolo: Le cose che non vogliamo più
Autore: Cynan Jones
Anno della prima edizione: 2010
Titolo originale: Out onto the Water
Traduttrice: Gioia Guerzoni
Casa editrice: Isbn edizioni
Pagine: 172




LA STORIA


Sette sono i protagonisti che animano queste pagine ambientate sulla costa del Galles: Alan, sua moglie Fiona, la sua occasionale amante Suzie; Jason, suo fratello Callum e la ragazza di cui quest'ultimo è innamorato, Jenny. Infine, c'è Ben. Le loro esistenze modeste si avvicendano tra i bar, le strade e i locali di una cittadina senza nome, dove Alan, Callum e Ben sono addetti alla raccolta dei rifiuti, Suzie prepara panini dietro al bancone della sua tavola calda, Fiona dipinge modellini di cottage e Jenny non vede l'ora di andarsene via.
Alan e Fiona affrontano la fine del proprio matrimonio, l'infelicità della loro giovanissima figlia Gemma, sempre più goffa degli altri bambini. Callum e Jason giocano a biliardo tentando di sanare le ferite della propria infanzia, segnata da un padre violento e pericoloso. Ben invece ripara oggetti, perché le vite non sempre si possono salvare; le cose rotte invece, in qualche modo, trovano sempre una seconda esistenza.

Dirty White Trash di Tim Noble e Sue Webster

COSA NE PENSO



Non amo, di solito, i romanzi corali: le troppe voci mi sembrano impoverire la narrazione, quasi fossero un escamotage troppo semplice per la caratterizzazione dei personaggi. Non è il caso però di questo romanzo, poco conosciuto forse a causa del fallimento della casa editrice Isbn, ma che spero sarà portato prima o poi di nuovo all'attenzione che meriterebbe
La caratterizzazione dei personaggi di Jones infatti è, al contrario di quanto mi aspettavo, impeccabile: bastano all'autore pochissime parole per costruire un personaggio tridimensionale, lontano dai cliché, che colpisce il lettore con la propria individualità. Per fare un esempio, scrive di Alan:
Quando era andato in crisi, dopo che suo padre era morto, Fiona l’aveva usato per crescere, aveva tentato di salvarlo, in un certo senso. Forse credeva che diventassi come suo padre, pensa. Non si può avere una relazione basata sul fatto che uno dei due è più debole. Adesso sta bene, da solo, e poi c’era quell’amore eccessivo, che non gli serviva.




Sono infelici, i personaggi di Jones. Infelici, sì, prigionieri delle proprie esistenze che non li soddisfano, a contatto con una realtà che vorrebbero poter cambiare. Il Galles di Jones ricorda l'Irlanda di Joyce, la paralisi dei suoi Dubliners imprigionati nella loro quotidianità.
C'è poesia però nella scrittura di Cynan Jones, e c'è poesia in ognuna delle voci che raccontano questa storia. C'è poesia, soprattutto, negli oggetti che accompagnano la sua narrazione: quelli dimenticati, quelli gettati via ai margini delle strade, nella spazzatura che Alan, Callum e Ben raccolgono con il camion; c'è poesia nel granchio che Alan intrappola in un barattolo trasparente del gelato, e che poi libera. Le descrizioni, precise, travolgenti, sono uno dei punti di forza di questo romanzo: davanti ai nostri occhi si delinea un paesaggio di città, di costa, di aeroporto a seconda delle situazioni, e sembra davvero di essere presenti agli eventi insieme al personaggio che li vive di volta in volta.
In conclusione posso dire che questo romanzo è stato decisamente una sorpresa, anche per via della sua struttura ricca di spazi tra i paragrafi, che contribuiscono a dotare il testo di un ritmo tutto suo, che segue i pensieri e le azioni dei suoi personaggi. È stata una lettura molto coinvolgente, che mi ha anche regalato un piacevole senso di speranza e di apertura verso il futuro nella sua conclusione. Lo consiglio davvero e spero che vivrà un momento di riscoperta nei prossimi anni!

giovedì 26 aprile 2018

La foresta assassina

Il volume precedente di questa serie di thriller scandinavi si intitola "Le bambine dimenticate", l'ho già letto e ve ne ho parlato qui. Il principale problema di quel romanzo era il suo essere in realtà il settimo volume della serie di gialli con una protagonista in comune scritta dall'autrice, e porre quindi il lettore davanti ad una situazione difficilmente comprensibile in medias res. Questa volta ad essere stato pubblicato è l'ottavo volume, dunque almeno tra i due in commercio ad oggi si può riscontrare una continuità; inoltre la storia stessa è a mio parere più riuscita della precedente.




Titolo: La foresta assassina
Autrice: Sara Blaedel
Anno della prima edizione: 2013
Titolo originale: Dødesporet
Casa editrice: Fazi
Traduttore: Alessandro Storti
Pagine: 246




LA STORIA


Sune è un adolescente la cui madre è in fin di vita a causa del cancro ed il cui padre è un uomo duro, un macellaio che sembra non provare mai paura ed approva raramente le scelte del figlio, più timido e riflessivo di quanto lo vorrebbe. La famiglia di Sune aderisce al paganesimo scandinavo, che venera gli dei tradizionali della Scandinavia con sacrifici e riti propiziatori. Proprio la sera in cui Sune dovrebbe essere proclamato ufficialmente un membro adulto della comunità ha inizio il romanzo: a sua insaputa, parte del rito al quale si trova a partecipare consiste in un rapporto sessuale con una prostituta che gli altri uomini hanno attirato per lui nel folto del bosco; Sune però si rifiuta, la ragazza a questo punto vorrebbe andarsene via, ma viene aggredita da tutti gli altri uomini che la stuprano ripetutamente e finiscono per ucciderla. Mentre ne nascondono il cadavere, Sune sconvolto da quanto è avvenuto fugge e si rifugia nel bosco, dove qualche giorno più tardi la polizia comincerà a cercarlo.
Il caso parallelo è un cold case, e si tratta di Klaus, il fidanzato dell'investigatrice Louise che si credeva morto suicida; in realtà voci diverse e sospetti di omicidio si allungano sul caso ormai chiuso da decenni, e Louise è determinata a tutti i costi a scoprire finalmente la verità.

Immagine dal web

COSA NE PENSO

Ho trovato questo thriller molto ben costruito: l'elemento portante è l'intreccio con la mitologia norrena ed i riti pagani, primo tra tutti quello di iniziazione, in vari gradi di fanatismo e talvolta simili ai comportamenti di una setta. Nonostante sia stato il fattore che mi ha interessata di più, credo che avrebbe potuto trovare tra le pagine anche un po' più di spazio: per un lettore non scandinavo infatti questa mitologia risulta non immediatamente comprensibile, per quanto fornisca lo spunto per scoprire di più su Odino e gli altri personaggi.
Un altro punto di forza è senza dubbio Sune, il giovane protagonista, determinato a sottrarsi dalle dinamiche malate del gruppo religioso di cui fa parte suo padre sin dalla giovinezza. Questi uomini nel corso di decenni sono macchiati di numerosi delitti, sempre rimasti impuniti, perché nessuno ha mai avuto come Sune il coraggio di opporsi: insieme a lui, in questo romanzo, trovano la forza di ribellarsi anche altri membri della comunità locale, tra cui l'investigatrice Louise e la sua amica Camilla.
Il ritmo dell'indagine (anzi delle due indagini: quella sulla morte di Klaus e quella sulla scomparsa di Sune) è incalzante e si interseca perfettamente con il paesaggio boschivo e ricco di ombre che circonda le cittadine danesi; l'incontro poi con i toni fiabeschi e misteriosi riservati agli elementi leggendari ("I carri percorrono la Via dei Morti") e a personaggi suggestivi come quello dell'anziana Elinor crea un insieme convincente e che si legge davvero d'un fiato. 

lunedì 23 aprile 2018

Cronaca di un'ultima estate

Questo non è il primo titolo legato all'Egitto che compare su questo blog: di autori egiziani ho già scritto in proposito di "Fame" di Muhammad Al-Busati (la recensione la trovate qui) e del sorprendente "Voci" di Sulayman Fayyad (la recensione la trovate qui).




Titolo: Cronaca di un'ultima estate
Autrice: Yasmine El Rashidi
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Chronicle of a Last Summer
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Traduttrice: Costanza Prinetti Castelletti
Pagine: 150




LA STORIA


La protagonista di questo romanzo è dapprima bambina, poi studentessa universitaria e poi adulta, intenta a girare documentari e a scrivere un romanzo, rimasta per tutta la vita insieme alla madre nella elegante casa di famiglia. 
Attraverso i suoi occhi vediamo l'Egitto ed i suoi cambiamenti nell'arco di trent'anni e di tre estati: quelle del 1984, del 1998 e del 2014. L'Egitto si trasforma in questi trent'anni, passando da un Paese reduce della decolonizzazione ad uno dove si avvicendano le dittature, i grandi progetti, le rivoluzioni e le repressioni. 
Della protagonista non conosceremo mai il nome, così come non conosciamo quello dei suoi genitori ai quali fa riferimento chiamandoli semplicemente Mama e Baba. Quest'ultimo si è arruolato volontario per combattere contro l'esercito israeliano, per non fare più ritorno a casa; Mama invece è una donna legata all'epoca coloniale, che desidera che la figlia frequenti la scuola inglese del Cairo e che considera la religione ed i suoi simboli un fatto da riservare alla sfera privata.
Man mano che cresce, la ragazza coglie sempre di più l'importanza della politica e del risentimento che cova sotto la cenere dell'apparente tranquillità; diventa una studentessa di cinema, lascia che il cugino Dido le spieghi cosa le accade attorno. E ciò che accade sono le rivoluzioni, le torture per mano della polizia, i giovani che spariscono uno dopo l'altro, in una costante ripetizione delle fasi della storia, che sembra incapace di portare in Egitto un vero e proprio cambiamento.

Un'immagine della città del Cairo
dal sito www.intrepidtravel.com
COSA NE PENSO


Yasmine El Rashidi è una giovane autrice egiziana che nel suo romanzo non dà nome alla protagonista perché possa rappresentare una generazione intera, quella che ha animato la rivolta del 2011, quella che si è vista scorrere accanto, Presidente dopo Presidente, sempre la stessa corruzione, gli stessi fallimenti, la stessa propaganda.
Sono molti i silenzi della voce narrante, molti gli elementi che sceglierà di non raccontare mai, prima tra tutti la ragione della prolungata assenza del padre, che definisce spezzato al suo ritorno. Ciò che la protagonista ci racconta è avvolto dalla nostalgia, da un senso di malinconia che pervade l'intero romanzo, privo di qualsiasi slancio di ottimismo o illusione; l'atmosfera che incombe sulla casa della ragazza e di sua madre, segnata dai lutti e dalle perdite, è tutt'altro che accogliente e rasserenante.
L'Egitto emerge prepotente da queste pagine, descritto nei suoi abitanti e nei suoi paesaggi, nello scorrere del Nilo, nelle architetture che si modificano, nelle strade sempre caotiche, nei mezzi pubblici troppo affollati; dalle pagine emerge il profumo del cibo, la dolcezza dei manghi, il pungente delle spezie; emerge un affresco vivido ed immaginifico, in contrasto con l'emotività dei personaggi che rimane in qualche modo sommersa, sempre controllata.
Non si tratta di una lettura semplice e scorrevole: nonostante sia un romanzo breve e suddiviso in capitoli, richiede un certo sforzo da parte del lettore, richiede a mio parere soprattutto un profondo interesse verso la tematica principale, quella della storia dell'Egitto negli ultimi quarant'anni. Gli appassionati di politica dei paesi arabi in particolare saranno conquistati da un ritratto dall'interno di un Paese assai complesso, attraversato da tumulti e schiacciato dalla repressione, nel quale la generazione dei trentenni di oggi si trova ad affrontare la tortura ed il carcere per aver manifestato la propria opinione e nel quale le sparizioni sono purtroppo all'ordine del giorno. Quello che il romanzo dell'autrice ci mostra in profondità come nessun articolo giornalistico potrebbe fare è il senso di perdita e l'acquisizione di consapevolezza che la generazione della protagonista (e della stessa scrittrice) si trova a vivere, ed è a mio parere il punto di forza del suo libro.
L'ho trovato una lettura estremamente interessante, che ha arricchito la mia conoscenza su un'area del mondo che è stata al centro della mia formazione universitaria; tuttavia lo consiglierei soltanto agli amanti degli autori arabi, per il suo stile molto asciutto caratterizzato dai periodi estremamente brevi, e per via della centralità della situazione storico-politica che rende i personaggi simbolici e marginali nella loro individualità. 

giovedì 19 aprile 2018

Carrie

Tra i primi romanzi dell'indiscusso re dell'orrore c'è Carrie: scritto in realtà dopo altri tre titoli (Ossessione, La lunga marcia e L'uomo in fuga) che però vennero pubblicati più tardi e probabilmente grazie al successo che ebbe questo breve, folgorante romanzo. Estremamente diverso per struttura e lunghezza dal corposo e complesso It (di cui ho già scritto qui), è rimasto tuttavia fino ad oggi una tra le mie letture preferite. 





Titolo: Carrie
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1974
Casa editrice: Bompiani
Traduttrice: Brunella Gasperini
Pagine: 224



LA STORIA


Carrie White frequenta il liceo di Chamberlain, una cittadina del Maine. Sua madre è una fanatica religiosa, ossessionata da ciò che ritiene sia peccaminoso ed osceno, al punto da condannare come diabolica la pubertà (peraltro tardiva) della figlia sedicenne. Con i suoi abiti fuori moda, il suo aspetto trascurato ed il suo essere del tutto estranea alla quotidianità dei suoi coetanei, Carrie è il bersaglio perfetto dei bulli della scuola; la sua aria apatica ed inoffensiva sembra tirar fuori il peggio anche da ragazze dalle quali non ce lo si aspetterebbe mai, ed addirittura da alcuni insegnanti. Carrie però è molto più di una strana ragazzina vittima di una madre con gravi disturbi: Carrie ha un potere, la telecinesi, che non riesce quasi mai a tenere sotto controllo ma si scatena nei momenti di maggiore stress per la ragazza. Goccia dopo goccia, umiliazione dopo umiliazione, il vaso della pazienza di Carrie trabocca al ballo della scuola, evento cruciale attorno al quale ruota l'intero libro, durante il quale la vera natura di Carrie non potrà evitare di manifestarsi e ribellarsi a tutti coloro che l'hanno derisa e vessata per tanto tempo.

Piper Laurie e Sissy Spacek in una scena del film
"Carrie - Lo sguardo di Satana" di B. De Palma (1976)
COSA NE PENSO

L'ispirazione per questo romanzo venne a Stephen King anni prima di scriverlo, come racconta nel suo testo "On writing", dalla lettura di un articolo sulla telecinesi e da un episodio immaginato nello spogliatoio delle ragazze all'università che suo fratello frequentava. Qui, mentre lui ed il fratello erano intenti a pulire macchie di ruggine  nelle docce per il loro lavoro estivo, immaginò una scena di ragazze in un ambiente simile privo di privacy, ed il menarca di una ragazza del tutto inconsapevole di quanto le stesse accadendo, ragazza a quel punto aggredita dalle coetanee che la deridevano lanciandole addosso assorbenti interni ed esterni. Non vi è dubbio che chiunque abbia letto Carrie troverà questa scena alquanto familiare...
Stephen King però non credette subito in questo romanzo. Di diversa opinione fu per fortuna sua moglie, che lo convinse a riconsiderare la sua posizione ed insistere nella stesura di quello che sarebbe diventato il primo di una lunga serie di successi. Nel periodo in cui iniziò a scriverlo, nel 1973, aveva un impiego come insegnate e quando gli venne alla mente la figura di Carrie questa non riuscì a coinvolgerlo sul piano emotivo, anzi provò nei suoi confronti una certa antipatia, in quanto passiva e perfetta nel ruolo della vittima di bullismo. Nonostante ciò, o anzi proprio per questo, King scrive che nessuno dei suoi personaggi è mai stato in grado di insegnargli tanto quanto Carrie White: Carrie lo spinse infatti ad indagare nelle sue memorie di liceale, per riportare alla mente due tra le compagne più isolate e prese di mira che avesse mai avuto. Ripercorrendo le loro infelici adolescenze, la crudeltà dei compagni e la spietatezza di cui il destino sa essere capace, Carrie diventò almeno in parte comprensibile ed un personaggio per cui King poteva provare compassione


Sissy Spacek e William Katt in una scena del film
"Carrie - Lo sguardo di Satana" di B. De Palma (1976)
Carrie è a mio parere IL romanzo sul bullismo. Dei tanti che ho letto negli anni, nessuno ha saputo essere incisivo quanto questo, nessuna vittima ha saputo essere convincente quanto Carrie White, nessun altro autore ha saputo come King descrivere le dinamiche interne ai gruppi di adolescenti, di cui fanno parte sì i bulli, ma anche un'ampia maggioranza complice, spesso silenziosa, talvolta parte attiva nelle vessazioni (Susan Snell ne è un esempio perfetto).
Chiunque sia stato vittima di bullismo sa di cosa parla Carrie: chiunque ricordi quel portone che si spalancava sull'abisso di un'altra interminabile giornata scolastica, i gradini da salire un giorno dopo l'altro fino all'aula dove il tempo sembrava non passare mai. Siamo stati Carrie, oppure siamo stati Susan Snell, oppure ancora siamo stati Chris, spietati ed assetati di vendetta, e non ci siamo mai sentiti colpevoli. Il più positivo dei personaggi di Carrie è Tommy Ross: le dinamiche femminili sono lontane dal suo modo di sentire, i suoi interessi sono più semplici, lo soddisfa un fugace rapporto sessuale sui sedili posteriori di un'auto, vorrebbe portare Susan al ballo. Eppure quando ne asseconda la volontà, e vi si reca invece con Carrie (Carrie, che quella sera sembra, per un attimo, avere un'occasione di riscatto -e naturalmente il lettore s'illude con lei) non è frustrato, anzi ne coglie aspetti che nessuno prima di lui era mai riuscito a far emergere in lei. 
Potrei scriverne ancora per ore, per quanto amo Carrie, per quanto queste poche pagine mi abbiano folgorata sin dalla prima volta e per tutte le occasioni in cui ho riletto, sempre volentieri, questo piccolo capolavoro. L'escalation di energia repressa che King riesce a rappresentare, unendo il racconto alle testimonianze dei superstiti, ad articoli di giornale creati ad hoc e alla ricostruzione della storia della famiglia White, è ineguagliabile e lo rende perfettamente riuscito, impossibile da abbandonare prima della conclusione. Il lettore sa che non ci sarà un lieto fine per Carrie, che il brutto anatroccolo non avrà il tempo di trasformarsi in un cigno; eppure alzi la mano chi, anche solo per un attimo, non abbia sperato che il corso degli eventi potesse cambiare. 

lunedì 16 aprile 2018

E tu splendi

Di Giuseppe Catozzella ho letto i due romanzi più famosi, "Non dirmi che hai paura" e "Il grande futuro". Questi due titoli sono molto diversi tra loro: il primo (quello che ho preferito) è la narrazione romanzata della purtroppo breve esistenza di Samiya Yusuf Omar, atleta somala che partecipò anche alle Olimpiadi di Londra, per poi perdere la vita nel Mediterraneo tomba d'Europa. Il secondo invece è un romanzo di formazione il cui protagonista, Amal, cerca di colmare i propri vuoti attraverso un'educazione religiosa molto pericolosa. Li ho apprezzati entrambi, e così il nuovo romanzo dell'autore mi ha subito attratta.




Titolo: E tu splendi
Autore: Giuseppe Catozzella
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 233




LA STORIA

Pietro ha undici anni e vive a Milano in un palazzo popolare dove risiedono solo meridionali o stranieri insieme a suo padre, disoccupato, ed alla sorella minore Nina. La madre è morta qualche tempo prima, lasciando Pietro con un grande dolore, un frammento di fotografia che porta sempre con sé ed una domanda in sospeso. 
La storia contenuta in questo romanzo si svolge nell'arco di un'estate, che Pietro trascorre in Basilicata a casa dei nonni. Qui le leggende locali che spaventano i bambini si intrecciano ad una concretissima guerra per il territorio che ha portato all'avvelenamento di una grossa parte dei terreni perché un solo individuo potesse beneficiare dell'agricoltura locale: ed è qui, nel piccolo paese di Arigliana, che si rifugia una famiglia di immigrati dei quali non sapremo mai la località e che viene accolta dalla comunità in modo tutt'altro che positivo.

Paesaggio lucano (foto dal web)

COSA NE PENSO

Il romanzo di Catozzella, il cui titolo nasce da un'errata trascrizione di una frase di Pasolini, è ricco di sapori del Sud: sa di agrumi, di olive, profuma di terra scaldata da sole. Ci ricorda però anche il lato oscuro delle campagne del Meridione, le dinamiche mafiose e corrotte dove non ci si può fidare di nessuno, tantomeno di coloro che dovrebbero garantire il rispetto della legge, il tutto visto dagli occhi di un ragazzino ancora colmi di innocenza
Il narratore in prima persona è infatti lo stesso protagonista undicenne, Pietro, che con l'ingenuità dei suoi anni e con i morsi di Canuzzo (il nome che ha dato, raffigurandolo in un cane immaginario, al dolore che prova per la perdita della mamma) cerca di orientarsi in una comunità chiusa, diffidente ed addirittura ostile nei confronti della famiglia di stranieri che lui stesso scopre nascosta in un vecchio edificio abbandonato. 
L'atmosfera che pervade questo romanzo è opprimente, sin dalla scoperta di Pietro ho provato un senso di angoscia, di ineluttabilità: gli abitanti di Arigliana, come troppo spesso accade, teme il diverso e non vede l'ora per di più di sfruttarlo come capro espiatorio.
Questo ritmo incalzante, che talvolta lascia intravedere un barlume di speranza, tiene il lettore col fiato sospeso; detto questo però, nel complesso è tra le mie letture di Catozzella quella che senz'altro mi ha convinta di meno. Il suo protagonista è tenero, è anche credibile come preadolescente, ma la vicenda narrata dal suo punto di vista mi ha stancata in breve tempo. La tematica della migrazione è a dir poco marginale, mentre la storia si concentra sul tema delle reazioni che l'altro è in grado di suscitare in una comunità già attraversata da lotte intestine. Mi sarebbe interessato inoltre approfondire personaggi come il padre ed i nonni di Pietro, il loro punto di vista sulla Basilicata dilaniata ed inaridita da loschi individui; purtroppo restano invece figure accennate, di sfondo, così come gli stranieri (per i quali tuttavia è più comprensibile, dal momento che divengono in questo modo i simboli di una condizione piuttosto che personaggi veri e propri). 
Nel complesso si tratta di una lettura che non ho trovato del tutto soddisfacente, nella quale non ho colto l'aspetto dello splendore citato nel titolo nel vissuto del protagonista, e consiglierei piuttosto le opere precedenti di Catozzella per chi volesse avvicinarsi all'autore. 

giovedì 12 aprile 2018

Come le mosche d'autunno

Una scrittrice che mi incuriosisce da molto tempo, grazie alla popolarità acquisita negli ultimi anni (purtroppo ad oltre sessanta dalla sua morte ad Auschwitz), e che finalmente sono riuscita ad incontrare con un racconto lungo o romanzo breve che dir si voglia.



Titolo: Come le mosche d'autunno
Autrice: Irène Némirovsky
Anno della prima edizione: 1931
Titolo originale: Les Mouches d'automne
Casa editrice: Garzanti
Traduttore: Lanfranco Binni
Pagine: 92



LA STORIA

Tatjana Ivanovna è una anziana nutrice che ha dedicato gli ultimi cinquantuno anni della propria vita a prendersi cura della famiglia Karin. Ha cresciuto Nikolaj Aleksandrovič, ne ha visto morire il padre nella guerra di Turchia nel 1877 ed al tempo in cui il racconto inizia ne vede partire gli amatissimi figli, Jurij e Kirill, per un'altra guerra: la prima guerra mondiale. 
Da qui in poi il tempo passa e la per la famiglia Kirin gli anni felici nella loro bella residenza di Karinova finiscono per sempre: costretti a spostarsi dapprima ad Odessa, poi ad imbarcarsi su un bastimento francese fino a Marsiglia, ed infine a Parigi. 
Tatjana rimane dapprima il più a lungo possibile a Karinova, incapace di separarsi dalla residenza che conserva i suoi tanti ricordi. Vede tornare Jurij, sfuggito ai combattimenti, ma lo vede morire davanti ai suoi occhi ed allora poco dopo raggiunge i Kirin e si sposta con loro, nonostante nessuno dei luoghi in cui si trovi le possa sembrare una casa, nonostante i suoi punti di riferimento siano andati persi e così vada perso, gradualmente, il senso stesso della sua esistenza.

Battaglia a palle di neve, Russia, 1900
(foto dal web)

COSA NE PENSO

Per comprendere appieno il significato di questo testo è necessario conoscere la biografia di Irène Nemirowsky, ma nonostante ciò come mi è già capitato (con "Uomini sotto il sole" di cui vi parlavo qui) mi trovo a mettervi in guardia dal leggere la prefazione prima della storia vera e propria, poiché ve ne svelerà il finale e vi guasterà quindi in qualche modo la lettura.
Il personaggio di Tatjana è ispirato ad una donna realmente esistita, che segnò profondamente dell'autrice poiché fu l'unica a rappresentare per lei una vera figura materna: Zézelle, governante di lingua francese, che mise fine alla propria vita in modo tragico. 
Un altro parallelismo è quello della fuga dalla Russia sovietica, che affrontano i Karin ma che anche l'autrice dovette vivere nel 1918, e che anche nel suo caso ebbe come tappa finale la Francia (dove tuttavia venne arrestata in quanto ebrea nel corso del secondo conflitto mondiale, e deportata ad Auschwitz Birkenau dove morì poco dopo).

Mentre leggevo questo libro mi sono sentita trasportata in una dimensione lontana, provando una sensazione simile a quella che mi aveva dato Tolstoj nelle descrizioni in Anna Karenina. La Russia dove vive Tatjana è innevata, fredda, ma al tempo stesso c'è calore, quello che prova verso i bambini Karin che cresce di generazione in generazione, che le spezzano il cuore ad ogni partenza. 
La Francia è invece estranea, inospitale, così diversa dalla residenza russa a cui era abituata, così diversi i costumi, così decaduta la famiglia Karin per via dell'emigrazione, al punto da divenire insopportabile. 
Nonostante la sua brevità, l'efficacia a quest'opera non manca affatto, ed è quanto mai rara la capacità dell'autrice di farci affezionare alla sua protagonista nel giro di una manciata di pagine. Tatjana infatti emoziona da subito i lettori, rappresenta il rimpianto, la perdita dei luoghi amati ed in qualche modo della propria identità, divenendo via via inutile il suo ruolo di nutrice. Le mosche invece, disorientate ed intente ad ignorare il proprio passato, sono i Karin: in una Francia dove non si sentono a casa, dove non hanno punti di riferimento e neanche i ricordi di chi sono stati sembrano avere più alcun significato. 
Difficile in un'opera così breve essere così incisivi e coinvolgenti, eppure la scrittrice ci riesce alla perfezione, alternando descrizioni ai pensieri ed ai dialoghi in uno spaccato dell'Europa nella prima metà del Novecento che non lascia certamente indifferenti i lettori di oggi. 


lunedì 9 aprile 2018

Lincoln nel Bardo

In un triste giorno del 1862, nel pieno della guerra di secessione americana, il piccolo Willie Lincoln morì. Com'è facile intuire dal suo cognome, Willie non era un bambino qualunque: era il figlio del Presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, padre che lo aveva amato, viziato e riempito di attenzioni quanto più aveva potuto.




Titolo: Lincoln nel Bardo
Autore: George Saunders
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: Lincoln in the Bardo
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Cristiana Mennella
Pagine: 347




Da questo tragico episodio prende il via il romanzo di Saunders. Willie infatti muore, ma non se ne rende immediatamente conto, e rimane così nel Bardo, un luogo sospeso oltre la vita ma non ancora completamente slegato da essa, in attesa che l'amatissimo padre torni a prenderlo. Willie non è da solo nel Bardo, che anzi è colmo di anime, ognuna con il proprio passato e la propria personalità, ognuna nella speranzosa attesa che qualcuno dei loro cari ancora in vita possa raggiungerli. Ad eccezione di un reverendo, consapevole della propria condizione e sfuggito al giudizio divino senza nemmeno sapere come vi sia riuscito, tutti gli altri personaggi che popolano il Bardo non sono consapevoli di essere deceduti (parlano infatti, in modo generico, di "malattia"); quando ne prendono coscienza svaniscono, trapassano in una luce abbagliante. Chi resta invece, spesso aggrappandosi al Bardo con tutte le proprie forze, interagisce ed osserva: e l'arrivo di Willie è un evento strabiliante per loro, poiché il padre, distrutto dal senso di colpa, incapace di allontanarsi dalla tomba del piccolo, si spinge fino ad abbracciarne la salma -ed un simile contatto fisico tra il mondo reale ed il Bardo non era mai avvenuto prima di allora.


William Wallace "Willie" Lincoln (1850 - 1862)
immagine dal web
Non siamo davanti ad un romanzo dall'impostazione tradizionale: lo svolgimento è infatti articolato come una sorta di dialogo tra le anime, nel quale ognuno degli interventi è seguito dal nome di chi lo ha pronunciato. Saunders si è ispirato per questa struttura all'impostazione delle vecchie chat di Aol, ed ha mescolato ricordi, pensieri ed osservazioni dei personaggi che popolano il Bardo a numerose fonti storiche sul presidente Lincoln e sulla guerra civile americana, aspetto che gli ha richiesto un immenso lavoro di documentazione protrattosi per diversi anni.
L'aneddoto riguardante la visita del Presidente Lincoln alla cripta dove giaceva il figlioletto ha fornito all'autore l'elemento attorno al quale tutto il romanzo ruota, con la sua struttura corale, dove Willie e suo padre sono in effetti protagonisti ma affiancati da personaggi che prendono la parola più spesso di loro. Il romanzo è infatti un collage di voci e di storie, di personaggi giovani e meno giovani, madri e mariti, vittime di tragici incidenti o suicidi, di ogni ceto sociale, neri e bianchi. Talvolta ironici e divertenti, spesso dissacranti, alcuni di loro anche osceni; i personaggi che popolano il Bardo sono eterogenei e credibili, alcuni più memorabili di altri, e raccontando brevemente le proprie storie ci parlano di svariati temi, dall'omosessualità alla schiavitù (questione cruciale, quest'ultima, per la presidenza Lincoln). 

Si tratta di un romanzo che ha riscosso molto successo, è stato best seller del New York Times ed anche eletto vincitore del Man's Booker Prize per l'anno 2017; questo si deve certamente al suo carattere sperimentale per quanto riguarda la forma data alla storia, ma a mio parere anche alla capacità di Saunders di trattare il tema dell'elaborazione del lutto con grande umanità e senza pietismi di sorta. Lincoln infatti è tormentato dai sensi di colpa per aver lasciato (involontariamente, certo) che Willie corresse il rischio di ammalarsi, è svuotato dalla mancanza che sente già del bambino, perseguitato dai ricordi della felicità passata; eppure prende coscienza, un po' alla volta, della necessità di andare avanti, proseguire nella sua carriera e nella sua vita familiare, senza lasciare che il lutto lo annienti. Allo stesso modo Willie, dapprima ostinato nella sua attesa del ritorno nel padre, aggrappato alla zona grigia del Bardo, si avvede via via della propria reale condizione di defunto e di quanto sia inevitabile per lui passare oltre, lasciarsi alle spalle la vita terrena. I protagonisti insomma, e non solo loro, elaborano il lutto a modo proprio e ci comunicano in questo un senso di serenità che ho trovato uno dei punti forti del romanzo di Saunders.
Nel complesso è stata una lettura che mi ha richiesto tempo e riflessioni, che spesso mi ha disorientata, talvolta mi ha portata a sorridere ed in altri momenti mi ha profondamente commossa; non lo definirei un romanzo immediatamente accessibile, credo richieda al lettore un certo sforzo, ma forse proprio per questo si rivela poi davvero poetico e convincente. 


giovedì 5 aprile 2018

Max

Di romanzo contemporaneo che ripercorre il periodo nazista in Germania ho già letto quest'anno "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino, che mi ha sorpresa e del quale vi ho parlato qui. In quel caso le protagoniste erano donne incaricate di assaggiare il cibo destinato ad Hitler evitando così potenziali attentati alla sua vita; il romanzo di oggi invece tratta del progetto Lebensborn, finalizzato all'espansione della razza ariana in Europa, e mi incuriosiva da molto.




Titolo: Max
Autrice: Sarah Cohen-Scali
Anno della prima edizione: 2012
Casa editrice: L'ippocampo
Pagine: 445






LA STORIA



Il protagonista di questo romanzo è dapprima un feto, poi un neonato, poi un bambino. Concepito all'interno del progetto Lebensborn negli anni Trenta del Novecento, figlio di un ignoto tedesco e di una donna che ha scelto (più o meno consapevolmente) di offrire al partito il suo primo bambino, lui corrisponde agli standard che il Führer desidera: capelli chiarissimi, occhi azzurri, un corpo promettente dalle misure perfette. Nasce e cresce per i suoi primi anni in un Heim destinato al progetto, che si riempie sempre più di nuovi neonati; la donna che lo ha messo al mondo e si è occupata di lui per i primi mesi di vita viene poi allontanata di colpo, perché il compito di tutte quelle volenterose donne naziste non è quello di fare le madri, ma soltanto quello di partorire
L'infanzia di Max (nome scelto per lui dalla sua madre biologica, ma in realtà sostituito poi da quello ufficiale di Konrad) è diversa da quella dei piccoli nati nello stesso Heim: non viene infatti adottato come la maggior parte di loro, né destinato ad esperimenti come quelli rivelatisi non conformi. Sin dalla più tenera età viene strumentalizzato per svolgere compiti per il partito nazista, ad esempio viene trasferito in Polonia con il ruolo di adescare bambini polacchi dai tratti ariani perché vengano strappati alle loro famiglie e tedeschizzati per ingrossare le fila del progetto Lebensborn. Una volta cresciuto la sua destinazione è una prestigiosa Napola, dove bambini ed adolescenti ariani vengono educati al diventare perfetti soldati nazisti attraverso l'educazione fisica e l'indottrinamento; ma gli anni passano, e per il regime nazionalsocialista il vento sta cambiando. Qualcosa cambia profondamente anche in Max alla Napola, luogo che condivide con Lukas, un ragazzo polacco il cui vero nome è Lucjan, che grazie alla sua perfezione fisica secondo i canoni nazisti ha passato la selezione e viene addestrato con i tedeschi: in Max, che non ha mai provato affetto o attaccamento nei confronti di nessuno, Lukas risveglia un'emotività prima sconosciuta.

Stanza dei giochi in una residenza del progetto Lebensborn a Godthaab, Norvegia.
Fotografo sconosciuto, Riksarkivet Norwegen.

CHE COSA NE PENSO

I punti di forza di questo romanzo non sono pochi. Innanzitutto la nascita e la crescita di Max (al quale, sarà per via del titolo, mi è parso impossibile riferire i pensieri sotto il nome di Konrad) ripercorrono l'ascesa ed il declino del Reich nazionalsocialista in modo estremamente convincente: Max nasce lo stesso giorno del Führer, è neonato e poi bambino durante l'espansione del regime che si impossessa delle terre circostanti e progetta l'unione dei popoli ariani per il dominio di quelli considerati inferiori. Poi l'avanzata si ferma, e le notizie sulle disfatte militari filtrano a poco a poco anche nel romanzo, soprattutto per bocca di Lucjan-Lukas, oppositore dall'inizio e per sempre poiché polacco, ebreo, figlio di una madre deportata ai campi di sterminio e mai più rivista.
Molto interessanti sono le informazioni sul poco noto progetto Lebensborn, e le nozioni sul sistema educativo che si prefiggeva di tedeschizzare gli ariani di altre nazionalità e crescerli secondo le aspirazioni del regime. Mentre Max rappresenta il più entusiasta dei giovani, intrepido e volenteroso, indottrinato sin dal grembo materno, vi sono anche punti di vista alternativi: naturalmente quello di Lucjan, determinato a contribuire al fallimento del progetto, ma anche quello di ragazzini come Manfred, timido ed indifeso, sostanzialmente inadatto a ricoprire il ruolo di valoroso Superuomo come il partito si aspetterebbe da lui e dagli altri.
Nonostante il fatto che si stia parlando di un romanzo per lo più convincente e molto coinvolgente, anche se dal ritmo non sempre ugualmente incalzante, non posso definirlo privo di difetti. Innanzitutto la narrazione, svolta interamente dal punto di vista di Max-Konrad, inizia in utero (come nel celebre "Nel guscio" di McEwan, che tuttavia vi rimane) per poi proseguire durante il parto e negli anni successivi; il linguaggio di Max mi è parso se devo essere sincera spesso inutilmente sboccato. Forse l'obiettivo è rendere l'idea di Max che sin da subito desidera porsi come un essere forte, più grande della sua età, ma resta comunque un linguaggio mai in linea con quello di un bambino e quindi a mio parere stonato, specialmente quando si tratta di sessualità.
Altre ingenuità le ho ritrovate in avvenimenti della trama, ma le elencherò al di sotto dell' immagine al termine di questo paragrafo, perché contengono spoiler che potrebbero in qualche modo rovinare la lettura a chi dovesse ancora intraprenderla.
Nel complesso comunque questo romanzo mi è piaciuto, perché è stato in grado di unire un'avventurosa storia di amicizia (adatta ad un pubblico di lettori più giovani) a numerosi elementi storici relativi alla Seconda Guerra Mondiale, spesso anche poco noti e quindi molto interessanti per lettori curiosi di tutte le età. 

Bambini giudicati ariani in una residenza del progetto Lebensborn, 1939
Foto dall'archivio Gamma-Keystone
!ATTENZIONE SPOILER!
Tra i diversi elementi non molto credibili, tre sono quelli che ho ritenuto più eclatanti. In ordine cronologico, il momento della selezione in cui Lucjan viene graziato nonostante il proprio comportamento ribelle solo perché Max interviene chiedendo che sia risparmiato in quanto desidera un fratello: nonostante sia indiscutibile il ruolo privilegiato di cui Max ha sempre goduto, mi è parso poco realistico pensare che ad un soggetto così insubordinato sarebbe stata evitata l'esecuzione in un sistema così rigido e punitivo.
In secondo luogo c'è la fuga stessa di Lucjan (e Max) dalla Napola, proprio quando viste le sue azioni si è deciso di eliminarlo. Mi è parso molto improbabile che i due ragazzini sarebbero potuti davvero fuggire fino a raggiungere la città di Berlino, ma di certo è funzionale alla trama così come lo è stato il salvataggio di cui sopra, senza il quale nulla sarebbe potuto avvenire.
L'ultima ingenuità è anche quella che mi è sembrata meno necessaria: l'incontro, nella cantina, tra Max e la "signora bionda" che conserva ancora la sua fotografia perché guarda caso è proprio la donna che lo aveva partorito. Nonostante questo incontro prima, e la morte di Lucjan per mano di un sovietico poi, inneschino in Max il meccanismo di presa di coscienza di quanto gli è capitato, credo che non sia stato un elemento così decisivo e di certo si tratta del più impossibile tra i tanti che si sarebbero potuti inserire nella trama.



lunedì 2 aprile 2018

Un anno senza te

Più di tutto di questa graphic novel mi ha attirata l'ambientazione: si svolge infatti a Bologna, che è la mia città, e ne regala scorci diversi dai più inflazionati.






Titolo: Un anno senza te
Autori: Giopota e Luca Vanzella
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Bao
Pagine: 224






Il protagonista di questa storia è Antonio, un giovane studente universitario col cuore spezzato: il suo amato Tancredi infatti lo ha lasciato dopo alcuni mesi che erano bastati per farlo innamorare dell'intraprendente ed attraente dj. Tancredi era l'opposto di Antonio, che è timido, un po' goffo, molto sfortunato in amore; Tancredi gli ha fatto vivere momenti magici ed indimenticabili, lo ha fatto uscire dal guscio per un po', e la separazione è per Antonio difficilissima da assorbire. Non importa infatti quanti nuovi ragazzi conosca, quando cerchino gli amici di trascinarlo fuori di casa, di fargli rielaborare la relazione con Tancredi evidenziandone le problematiche: Antonio pensa a lui in continuazione, e gli sembra di vederlo ovunque. 


La narrazione è suddivisa in capitoli, ognuno dedicato ad un mese dell'anno -i dodici mesi necessari ad Antonio per guarire, lentamente, giorno dopo giorno, dalle ferite del cuore.
Inutile fingere di non accorgersi del fatto che la storia d'amore al centro di quest'opera sia tra due ragazzi gay: impossibile non notarlo, vista la rarità dell'evento, ed un punto a favore nella direzione della parità vera e propria che non ci indurrà più a gridolini deliziati definendo "che dolciii" tutte le coppie gay. Quella di Antonio è l'elaborazione della fine di un amore, identica a quelle che abbiamo vissuto tutti, gay o etero: la tentazione di inviare un messaggio che sappiamo di non dover inviare, la fisionomia di qualcuno in mezzo alla folla che ci ricorda proprio quella persona, le canzoni sulla riproduzione casuale che ci colpiscono come una coltellata.


Oltre alla tematica, nella quale è impossibile non riconoscersi, quest'opera è visivamente davvero ben riuscita. Ha colori vivi, un lettering adattissimo, e come dicevo nell'introduzione a questo post ha il valore aggiunto di mostrare scorci della mia bellissima città. Come se ciò non bastasse, la graphic novel è arricchita da elementi di fantasia che rendono la storia un po' più speciale, aggiungendo dettagli originali: la neve che cade sotto forma di morbidi conigli bianchi, alcuni aspetti rielaborati di Bologna (ad esempio il faro di San Luca, che non esiste), e l'applicazione che mi riempirebbe di terrore se esistesse davvero, Recollection, attraverso la quale rivedere ogni particolare del proprio passato.


Le mie aspettative prima della lettura erano piuttosto alte, e mi fa davvero piacere poter affermare in tutta sincerità che questa volta non sono rimasta delusa!