lunedì 30 luglio 2018

La lunga marcia

Un romanzo di Stephen King ogni tanto ci vuole proprio, e l'enorme quantità di opere già pubblicate tra cui scegliere fa sì che, nell'indecisione di una nuova lettura da cominciare, la mia decisione ricada piuttosto spesso su una di queste. Diverse recensioni di romanzi dell'autore sono già presenti sul blog, le trovate in questo post dedicato che le raccoglie tutte.




Titolo: La lunga marcia
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1979
Titolo originale: The Long Walk
Casa editrice: Sperling & Kupfer
Traduttrice: Beata Della Frattina
Pagine: 304




LA STORIA


Raymond Garraty, detto Ray, è un adolescente del Maine che partecipa all'annuale Lunga Marcia, che attraversa gli Stati Uniti ed è l'evento dell'anno in un mondo distopico e dittatoriale dove le Squadre si occupano di far sparire tutti coloro che siano in disaccordo con il regime del Maggiore, autorità acclamata dalle masse. Per partecipare alla marcia vengono scelti ogni anno, tra migliaia di ragazzi che presentano la propria candidatura, solo cento marciatori; questi non dovranno mai fermarsi, né rallentare al di sotto del ritmo di 6 chilometri orari, altrimenti riceveranno un'ammonizione. Raggiunta la quota di tre ammonizioni (ogni ora senza riceverne una però, la precedente sarà annullata), il marciatore verrà "congedato": parola in codice per esprimere in modo meno cruento il fatto che i soldati schierati ai lati della strada spareranno sul marciatore ponendo fine alla sua esistenza. La marcia procede così per giorni e notti, senza pause, finché un unico superstite sarà proclamato il vincitore. 
Ray, dunque, marcia con altri novantanove ragazzi, sotto il sole cocente di maggio e sotto le piogge e le grandinate improvvise. Affronta i crampi alle gambe, i dolori, le necessità fisiologiche impellenti, i crolli nervosi di chi lo circonda ed anche le istintive amicizie e solidarietà che nascono in un contesto tanto estremo, insieme alle tardive domande sulle motivazioni che li hanno spinti a partecipare; nel frattempo, uno dopo l'altro, attorno a lui i congedi si fanno sempre più frequenti… 




COSA NE PENSO


Quello che King pubblicò nel lontano 1979 con lo pseudonimo di Richard Bachmann (la sua produzione era infatti così prolifica che, per evitare di saturare il mercato pubblicando più di un libro all'anno con il suo vero nome, King scelse di ricorrere ad uno pseudonimo) è un romanzo distopico che non racconta molto della società in cui è ambientato. Senza dubbio si tratta di una dittatura impostasi negli Stati Uniti, e la narrazione non si svolge in un futuro lontano, piuttosto in una sorta di presente alternativo: non vi sono infatti invenzioni tecnologiche o progressi strabilianti di alcun tipo, e le dinamiche familiari e sociali raccontate sono quelle della fine degli anni Settanta
Ancora una volta ci si accorge di quanto King sia capace di caratterizzare i propri personaggi: seppure impegnati unicamente a marciare, intrappolati dall''insensata crudeltà di un evento che ha l'unico fine di intrattenere gli spettatori, le individualità dei marciatori emergono una dopo l'altra dalla voce di un narratore esterno ed onnisciente: Garraty che sente nostalgia della propria fidanzata, McVries che contro ogni logica compie ripetuti gesti d'altruismo, l'imperturbabile Stebbins, il coraggioso e ingenuo Scramm -l'unico sposato del gruppo, i due fratelli nativi americani che danno l'andatura… Nonostante le loro storie non abbiano alcuno sviluppo nel corso del romanzo, e la loro pressoché unica occupazione sia quella di mettere un piede dopo l'altro e cercare di resistere alla fatica, ci pare di conoscerli uno ad uno e ad ogni congedo proviamo dolore.
I fucili spararono ancora una volta prima che le ultime tracce della notte fossero svanite, ma Garraty udì appena gli spari. Il primo arco rosso del sole stava facendo capolino sull'orizzonte, offuscato da un banco di nuvole, per poi ricomparire in tutto il suo fulgore. Sarebbe stata una giornata splendida, e Garraty si ritrovò a pensare quasi senza accorgersene: Grazie a Dio potrò morire alla luce.
L'istinto di sopravvivenza emerge prepotente dalle pagine di questo romanzo, ed insieme ad esso compare la solidarietà, il cameratismo che sboccia tra i marciatori pur essendo loro consapevoli che uno solo potrà sopravvivere; nascono anche le domande sul senso di quella marcia, che più in generale sembrano al lettore domande sul senso stesso dell'esistenza, sul significato da attribuirle giorno dopo giorno.
Nonostante non vi siano gli elementi fantastici e propri dell'horror che gli appassionati di King sono abituati a ritrovare nelle sue opere, questo romanzo lascia comunque senza fiato: il ritmo del racconto infatti non dà tregua, così come la Marcia non dà tregua alcuna ai suoi partecipanti, ed è impossibile distaccarsi dalle pagine prima di aver raggiunto la conclusione. Questo è senza dubbio il punto di forza dell'intero libro, opera piuttosto cupa ed angosciante, che comunque ho molto apprezzato e mi sento di consigliare ai lettori non troppo impressionabili. 

giovedì 26 luglio 2018

Vivere

Di questi tempi, l'accoglienza e gli sbarchi di migranti sulle nostre coste sono un tema più che mai sulla bocca di tutti. La mia impressione è che si sia persa di vista l'umanità, mentre sulla stampa compaiono immagini di bambini morti annegati nei naufragi dei gommoni e c'è chi grida al fake, mentre continua ad osannare la chiusura dei porti. Troppe persone hanno dimenticato cosa sia l'empatia, e che solo per un colpo di fortuna sono nate da una parte del mare piuttosto che dall'altra; voglio credere che la cultura sia ancora un modo per aprire gli occhi, e nel mio piccolo spero di contribuire proponendovi letture che vi ricordino quanto siamo tutti parte di un'unica specie, indipendentemente dalla nazionalità, dal credo religioso e dal colore della nostra pelle.




Titolo: Vivere
Autore: Ugo Bertotti
Anno della prima edizione: 2016
Casa editrice: Coconino Press
Pagine: 152




LA STORIA


Questa è una storia vera, che un chirurgo, Bruno Gridelli, ha deciso di raccontare ad un fumettista per farla conoscere al di fuori dell'ospedale dove ha lavorato per tanti anni. È una storia di vita e di morte, una storia di corpi e di anime: inizia con Selma, che si imbarca con la sua famiglia dalla Siria per salvarsi dalla guerra e raggiungere in Svezia il figlio maggiore, che è riuscito a fuggire due anni prima; Selma però riporta nella traversata un grave trauma cranico per cui ne sarà decretata la morte cerebrale pochi giorni dopo lo sbarco in Italia.
Qui la vita e la morte di Selma si intrecciano ad altre tre vite in bilico, che rischiano quotidianamente di morire mentre attendono un trapianto, perché il marito di Selma acconsente alla donazione degli organi e così un prete, un ex militare ed una madre scrittrice ritorneranno a vivere davvero grazie al dono di una donna arrivata da molto lontano, forse proprio per salvare loro.


COSA NE PENSO


La graphic novel di Bertotti è divisa in quattro capitoli, uno dedicato ad ogni protagonista -il cui vero nome, per ovvie ragioni di privacy, è stato modificato. Il capitolo più appassionante è senza dubbio quello dedicato a Selma, che ripercorre la storia della sua famiglia, originaria della Palestina e costretta nel campo profughi di Yarmouk in seguito alla Nakba; qui ci viene raccontata la nostalgia dell'anziano padre per la sua patria, ma anche la difficoltà della traversata, la paura, la comprensione da parte del medico palestinese incontrato nell'ospedale dove Selma viene accolta. 
Il bianco e nero dove il colore scuro prevale sul chiaro, come già fa intuire la copertina, è molto efficace nel raccontare storie dove la morte ha un peso prepotente, ma allo stesso tempo racconta altrettanto bene la rinascita. Anche la comparsa del fratello di Selma che ne cura la tomba sull'isola di Cipro lascia un profondo senso di pace e di speranza, ed è una delle parti del romanzo che ho preferito.
Nel complesso ho apprezzato molto la graphic novel di Bertotti e la ritengo un'opera estremamente interessante, perché di rado le questioni mediche vengono affrontate in modo così approfondito in opere simili. La donazione di organi è infatti l'inevitabile perno attorno al quale ruotano queste quattro storie, che diventano così uno spunto per riflettere sulla generosità e sull'importanza di tale pratica -necessità che Gridelli, ispiratore di quest'opera, ribadisce alla fine:
Spero che questo libro aiuti a capire di più che, come penso, vogliamo tutti vivere più a lungo, vivere meglio e dare un senso alla nostra vita. I trapianti hanno di straordinario il fatto che mettono insieme in modo complesso e intenso queste tre aspirazioni, dove le differenze di esperienze, di cultura, di religione si diluiscono e si mescolano nella grande aspirazione di vivere e, quando ciò non è più possibile, di dare la possibilità ad altri di continuare a farlo. E così unirsi nel dare un po' più di senso alle nostre vite. 

lunedì 23 luglio 2018

La bastarda di Istanbul

Ci sono romanzi che mi attendono da anni, pazienti, sugli scaffali. A volte cambio il loro posto, a volte il mio sguardo indugia su di loro e poi si rivolge altrove; nel frattempo nella libreria trovano spazio decine di nuovi volumi, che vengono spesso letti prima di loro, oppure diventano compagni nell'aspettare. Prima o poi però, secondo una logica che è del tutto oscura a me per prima, il loro momento arriva ed il loro richiamo si fa irresistibile: è allora che mi decido a leggerli.




Titolo: La bastarda di Istanbul
Autrice: Elif Shafak
Anno della prima edizione: 2007
Titolo originale: The Bastard of Istanbul
Casa editrice: Rizzoli
Traduttrice: Laura Prandino
Pagine: 385



LA STORIA


"La bastarda di Istanbul" che dà il titolo al romanzo è Asya: ha diciannove anni, la stessa età che aveva sua madre Zeliha (che da lei si è sempre fatta chiamare zia, proprio come tutte le sue sorelle che zie di Asya lo sono davvero) quando finì quasi per abortire in un ambulatorio di Istanbul, cambiando idea all'ultimo momento. Diciannove anni sono anche l'età di Amy, o meglio Armanoush, che cresce negli Stati Uniti con la sua mamma americana ed il suo patrigno turco, mentre trascorre metà del tempo con suo padre e la grande quantità di suoi parenti, emigrati armeni sopravvissuti.
Ciò che lega Amy ed Asya è Moustafa Kazanci, patrigno di Amy e zio di Asya, emigrato giovanissimo dalla Turchia per sottrarsi alla maledizione che sembra colpire gli uomini della famiglia Kazanci condannandoli ad una morte prematura. Amy si sente divisa a metà tra la propria appartenenza armena e quella americana, e così decide (all'insaputa di entrambi i genitori) di chiedere ospitalità alla famiglia di Mustafa e partire per Istanbul alla ricerca della propria identità e delle proprie radici armene. Qui tra Armanoush ed Asya nasce un'amicizia istintiva e profonda che metterà in discussione entrambe, e metterà l'intera famiglia Kazanci davanti al passato del popolo armeno e al genocidio del 1915, oltre alla scoperta di legami imprevisti e segreti mantenuti per decenni.




COSA NE PENSO


Quello di Elif Shafak è un romanzo familiare estremamente riuscito. Sin dalle prime pagine è riuscito a catturarmi con uno stile semplice e coinvolgente, grazie soprattutto ai personaggi femminili che sono caratterizzati alla perfezione: tra tutti vorrei citare zia Banu, la più religiosa della famiglia Kazanci, sulle cui spalle dimorano due jinn (la signora Dolce e il signor Amaro) che, interrogati, le rivelano visioni del passato attraverso cui viene a conoscenza di scomode verità. È grazie ai jinn infatti che zia Banu è venuta a conoscenza (unica oltre a Zeliha) dell'identità del padre di Asya, e sono i jinn a mostrarle lo sterminio degli armeni su cui il popolo turco pare aver posto un velo per non ricordare.
Metà della famiglia era composta da leali kemaliste laiche, l'altra metà da musulmane praticanti. Mentre le due fazioni erano in costante conflitto (ma avevano trovato il modo di coesistere sotto lo stesso tetto), il paranormale, trasversale alle contrapposizioni ideologiche, era considerato normale quanto il consumo quotidiano di pane e acqua. 
Il romanzo di Elif Shafak inoltre mi ha fatto venire un'incredibile voglia di fare le valigie e partire al più presto per Istanbul: descrive infatti la città turca in modo tale da affascinare dal primo momento, e per il lettore è impossibile non immaginarsi gli scenari delle stradine, dei caffè sul Bosforo, delle cupole delle moschee e desiderare di vederli con i propri occhi.
È quasi l'alba, a Istanbul. La città è appena a un passo da quella soglia misteriosa che separa la notte dal giorno. È l'unico momento in cui è ancora possibile trovare conforto nei sogni ma troppo tardi per costruirne di nuovi. […] A Colui che sta nel cielo la città deve apparire come uno schema sfavillante, cosparso di bagliori che luccicano come fuochi d'artificio nel buio fitto. In questo istante lo scheletro urbano risplende dei toni dell'arancio, del rossiccio e dell'ocra. È una costellazione di scintille, e ogni punto luminoso è la luce di qualcuno che ha già lasciato il reame del sonno. 
Nel complesso sono stata completamente conquistata dalla scrittura di Elif Shafak e dalla sua capacità di intrecciare le vicende dei personaggi alla Storia della Turchia, inserendo gli antenati di coloro che popolano Istanbul al tempo del racconto senza mai appesantire la narrazione, anzi rendendola più appassionante e completa. In particolare ho apprezzato la vicenda di Levon …, la cui spilla di rubini a forma di melograno sarà la prova di un legame che non mi sarei mai aspettata all'inizio del libro, che quindi è stato anche in grado di sorprendermi con i suoi sviluppi. In conclusione, che dire… romanzo assolutamente consigliato, e scrittrice da approfondire in futuro!

giovedì 19 luglio 2018

Una gatta in fuga

Forse non ha ancora trovato spazio su questo blog la mia grande passione per i gatti: sì, è vero, pare un cliché, un'altra lettrice gattara. Ebbene sì, è proprio così, inutile negarlo; anche se la gatta di casa è una sola, mentre i libri sono centinaia. 
Proprio dall'amore per i gatti, unito al mio interesse per le storie sul Medioriente, nasce la motivazione per la lettura di oggi.




Titolo: Una gatta in fuga
Autrice: Vanna Cercenà
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Giunti
Pagine: 94






LA STORIA


Nel corso del conflitto siriano, nella città di Damasco, un bombardamento separa una gattina dalla sua mamma e dal resto della cucciolata. È Alya a trovarla, come lei spaventata e persa: Alya è solo una bambina, ma non resiste e porta la gattina con sé una volta ritornata la calma, e le dà il nome di Jamyla (che significa "bella"). La famiglia di Alya però sta cercando un modo per sfuggire alla guerra, e l'unica alternativa che papà Ziad, mamma Nura, Alya e il suo fratellino Ferid hanno è partire: arrivare all'Egitto e da là imbarcarsi verso l'Italia, sperando di sopravvivere e di poter raggiungere in Francia uno zio già emigrato. Lasciare i nonni, lasciare Damasco, i suo amici e la sua casa spaventa Alya, che non ha nulla a cui aggrapparsi nella partenza; e così nasconde Jamyla nel suo zaino, senza dirlo a nessuno… e la loro avventura verso l'Europa comincia.

COSA NE PENSO


Questa è una lettura pensata per bambini: è infatti breve, suddivisa in capitoli ed arricchita da numerose illustrazioni -della bravissima Giulia Dragone. 
Si tratta di un libro che sa parlare dei viaggi dei profughi, del conflitto siriano e di cosa significhi abbandonare tutto nel tentativo di sopravvivere, avvicinando al tema lettori giovanissimi senza turbarli troppo ma al tempo stesso senza indorare troppo la pillola -nonostante il lieto fine.
Nella sua semplicità "Una gatta in fuga" arriva dritto al cuore, grazie alla narrazione in prima persona dal punto di vista della gattina Jamyla che vive l'esperienza dei campi profughi, della traversata del Mediterraneo, della quarantena senza comprendere completamente cosa le capiti attorno -proprio come per la sua umana bambina, Alya, e per tutti i bambini profughi realmente esistenti è impossibile comprendere le ragioni di una guerra e di una partenza che è l'unico modo per salvarsi la vita. 
"Che cos'è la guerra?" domanda un gattino piuttosto spelacchiato con un occhio chiuso. "È una cosa terribile che fanno gli uomini per far morire tutti, anche i gatti" rispondo.
In conclusione, anche se ho una ventina d'anni in più del pubblico per il quale questa storia è stata scritta, l'ho apprezzata molto e ne sono rimasta commossa. Ve la consiglio per trascorrere una mezz'ora che vi farà guardare il mondo con altri occhi, più innocenti dei nostri di adulti, e vi strapperà una lacrima insieme a un sorriso.  




lunedì 16 luglio 2018

L'impronta della volpe

Dopo una lettura impegnativa, sento sempre il bisogno di un romanzo breve e scorrevole, che mi distragga e rilassi senza richiedere una grande concentrazione. Adattissimi a tale scopo sono i thriller, noir, gialli e simili; questa volta la mia scelta è ricaduta su un noir.




Titolo: L'impronta della volpe
Autore: Moussa Konaté
Anno della prima edizione: 2006
Titolo originale: L'empreinte du renard
Casa editrice: Del Vecchio
Traduttrice: Ondina Granato
Pagine: 200




LA STORIA


Il poliziotto Habib dalla città di Bamako, capitale del Mali, viene mandato nella terra dei Dogon, a sud del fiume Niger, per risolvere il caso di diversi giovani ritrovati morti, misteriosamente illesi ma dai corpi gonfi. Non è semplice condurre un'indagine in una comunità ristretta ed assai chiusa, dove il codice d'onore spinge i suoi membri ad uccidersi l'un l'altro per riparare ad un oltraggio, gli indovini interpretano le tracce lasciate dalle volpi passate su bastoncini di legno e il volere del dio Amma condiziona, a detta degli anziani, il destino di tutti.

Il villaggio Dogon sulla falesia di Bandiaraga

COSA NE PENSO


Quella narrata da Konaté è una storia dalla struttura tradizionale: diversi cadaveri, una causa del decesso comune ma da chiarire, una coppia di investigatore e assistente che crea spesso situazioni divertenti nonostante la serietà del loro lavoro. Non si tratta di un romanzo sorprendente o particolarmente originale, ma il suo tratto distintivo è senza dubbio l'ambientazione: una comunità molto antica sulla falesia di Bandiaraga, in Mali che stimola facilmente l'immaginazione. Nella mente del lettore compare il Gatto, che si arrampica agilmente sulla roccia con la sua inseparabile bisaccia; compaiono i ragazzi che sulla falesia lottano, rischiando la propria vita, le capanne di fango sotto il sole, le donne che portano otri d'acqua in equilibrio sul capo e a volte non sanno scegliere tra il proprio promesso sposo ed il suo più caro amico. 
"L'impronta della volpe" è un noir che mette in luce la necessità di comprendere le culture differenti dalla propria e le loro motivazioni profonde, anche se non razionali nel senso occidentale del termine; si tratta di un romanzo appassionante e molto scorrevole, che si legge in breve tempo e la cui trama è convincente. 
Il commissario Habib ed il suo aiutante Sosso sono una coppia che funziona, anche se non è particolarmente originale. La loro caratterizzazione non è molto approfondita, ma dal momento che Konaté è autore di diversi romanzi che affrontano il tema dei miti tribali africani e che condividono il commissario Habib come protagonista, probabilmente il personaggio risulterà più sfaccettato leggendo anche le altre avventure
I romanzi di questo autore maliano non sono di facilissima reperibilità ma non escludo di avere voglia, in futuro, di leggerne altri. Nel frattempo vi consiglio questo titolo, anche se è il secondo in ordine cronologico di pubblicazione; è senz'altro un'opera che si può leggere anche indipendentemente dalla precedente. 

giovedì 12 luglio 2018

L'arabo del futuro 1 e 2

Mentre talvolta le biografie ed i romanzi storici possono risultare letture piuttosto pesanti, questo non accade con le graphic novels: ecco perché apprezzo particolarmente quelle che, oltre al raccontare una vicenda, riescono ad illustrare la Storia e ad insegnarmi qualcosa. Tra le letture più recenti è stato il caso di "L'inverno d'Italia" di cui ho scritto qui: un romanzo grafico sulla deportazione dei cittadini sloveni e croati per mano del Fascismo. Anche l'opera di cui vi parlo oggi, in due volumi, ha molto da raccontare oltre ad essere la biografia dell'autore: in questo caso parliamo di Storia del Medioriente.


Titolo: L'arabo del futuro, volumi 1 e 2
Autore: Riad Sattouf
Anno della prima edizione: 2014 e 2015
Titolo originale: L'Arabe du futur
Casa editrice: Rizzoli
Traduttore: Giovanni Zucca
Pagine: 160 e 157






LA STORIA


Il padre di Riad è un emigrato siriano in Francia, che studia Storia alla Sorbona e qui conosce la futura madre dei suoi figli. Con lei si sposta in Libia, dove insegna all'università per qualche anno; qui cresce il piccolo Riad, finché sotto il governo di Gheddafi non diventa difficile procurarsi il cibo ed il clima si fa sempre più teso. Nel 1982 la famiglia trascorre allora qualche tempo in Francia, dove nasce il fratellino di Riad; da qui però la carriera da insegnante del padre prosegue in Siria, dove fa ritorno dopo quasi vent'anni. Qui non è semplice ambientarsi per Riad, che non parla arabo ma francese, che non conosce il Corano, viene preso in giro da molti dei coetanei per il suo accento e per i suoi capelli biondi per cui lo chiamano "ebreo" ed è stupito dalla povertà che lo circonda. Non è semplice nemmeno per sua madre, che trascorre gran parte del tempo chiusa in casa finché la vita nella campagna siriana non diviene per lei intollerabile e decide di tornare in Francia… Anche se per il marito è chiaro che si tratta solo di una breve parentesi, ed infatti il secondo volume si svolge interamente in Siria, dove Riad frequenta la scuola locale, impara la prima sura del Corano e le lettere arabe, mentre le promesse del padre sulla costruzione di una villa dove vivere "come in Francia" vengono disattese giorno dopo giorno. 



COSA NE PENSO


La prima questione da tenere presente è che per ora in italiano sono stati pubblicati soltanto i primi due volumi de "L'arabo del futuro", opera che in realtà ne prevede altri successivi -almeno altri due basandomi sulla pubblicazione francese. Non vi è perciò una tavola conclusiva nell'ultima pagina del volume secondo, che infatti termina con la parola "continua", lasciando la vicenda in sospeso.
Dal punto di vista grafico, i personaggi rappresentati da Sattouf mi hanno ricordato molto il famoso cartoon Titeuf: grandi nasi, capelli voluminosi, visi prominenti, espressivi. Le tavole ci raccontano sugli sfondi la Siria prima della guerra civile, nel primo volume troviamo anche scorci della Libia durante la dittatura di Gheddafi, vediamo edifici incompleti, crepe sui muri, campagne brulle dove l'infanzia non è innocente come potremmo pensare -pronta a torturare animali indifesi, ad aggredire i coetanei al grido di "ebreo", abituata alle punizioni corporali a casa e a scuola.
La maggiore empatia ammetto di averla provata nei confronti del personaggio materno: una donna francese che non parla arabo accetta per amore del marito di trasferirsi con i figli in un Paese molto lontano dalle comodità alle quali era abituata, ed accetta per di più un maschilismo davvero fastidioso da parte del consorte millantatore, che ogni giorno le promette successi e fasti che non arrivano mai. Confesso di aver trascorso diverse pagine a chiedermi come mai questa donna non abbia scelto di tornare in Francia con i propri figli almeno nel corso di questi sette anni che ci vengono raccontati. 
I ricordi dell'autore sono dettagliati ed insieme alla storia familiare ci raccontano la storia del suo Paese; della sua vita da adulto sappiamo che da decenni vive in Francia, dove per dieci anni ha pubblicato una striscia settimanale sulla rivista Charlie Hebdo. L'ambizioso progetto "L'arabo del futuro" ha riscosso da subito un enorme successo di pubblico e di critica. 
Personalmente sono molto curiosa di leggere il seguito, di scoprire quando ed in quali circostanze Riad abbia lasciato la Siria; perciò non vedo l'ora che il terzo volume venga pubblicato in Italia!

lunedì 9 luglio 2018

La crociata dei bambini

Ogni tanto ci sono libri che mi fanno faticare, che mi richiedono più tempo di quello che abitualmente dedico ad un libro -mi ritengo infatti una lettrice piuttosto veloce, anche se non sempre credo che questo sia un pregio.
Questo romanzo rientra a pieno titolo nella categoria "libri letti con lentezza", libri non propriamente immediati, che per essere terminati mi hanno richiesto un certo impegno.



Titolo: La crociata dei bambini
Autrice: Florina Ilis
Anno della prima edizione: 2005
Titolo originale: Cruciada copiilor
Casa editrice: Isbn editore
Traduttore: Mauro Barindi
Pagine: 831



LA STORIA

Un treno attraversa la Romania, da Cluj diretto verso il mare. A bordo viaggiano allievi di numerose scuole elementari e medie del Paese, diretti in vacanza insieme ai loro insegnanti. Sullo stesso treno viaggia senza biglietto un ragazzino dell'età dei villeggianti, Calman, che però è uno zingaro (utilizzo il termine zingaro, invece di rom o sinti, perché ad averlo utilizzato è l'autrice, senza alcun intento dispregiativo) che ha ereditato i poteri della nonna Angelica, famosa cartomante e fattucchiera che sa interferire col destino, a Ferentari.
Il viaggio è lungo, e nella mente avventurosa di Calman si fa largo un'idea: impadronirsi del treno, e trasformarlo in un treno dove soltanto i ragazzi abbiano il potere. Convincere i coetanei non è difficile, e mentre gli adulti in Romania sospettano il terrorismo arabo, la mafia e criminali di ogni sorta responsabili del rapimento, la verità è che proprio dalle creature più innocenti ha preso vita una situazione difficile da controllare
L'affresco di una Romania del dopo Ceausescu è quello che ci regala questo romanzo, un misto di innocenza e di degrado, di mafia e di inchieste giornalistiche, dove basta un treno a rovesciare l'ordine costituito e dare vita ad una nuova società dove gli adulti sono presenti, ma relegati al ruolo di spettatori. 

Fotografia di Jacopo Naddeo
"Vivere nel sottosuolo: i ragazzi delle fogne di Bucarest"

COSA NE PENSO

La caratteristica più evidente di questo lungo romanzo è la particolarità del suo stile: l'uso della punteggiatura dell'autrice è infatti limitata all'uso di virgole e punti esclamativi, mentre non vi è alcun punto fermo ad interrompere la narrazione. Essa acquista quindi un ritmo molto rapido, talvolta quasi frenetico, che non sempre corrisponde alla quantità di avvenimenti -piuttosto rari, in effetti, nella prima metà del testo.
I personaggi sono davvero numerosi e variegati, tra adulti e bambini. Al di fuori del treno infatti l'autrice racconta i punti di vista di giornalisti, politici, membri delle forze armate, ma anche trafficanti di armi e di uomini; dà una personalità propria ad ogni insegnante, dalla conservatrice professoressa di rumeno, profondamente legata alla cultura nazionale, fino alla giovane insegnante che raccoglie le rivendicazioni dei suoi allievi che con lei sentono di potersi esprimere. Tra i bambini ci sono quelli delle famiglie di classe media, diretti in vacanza, che amano Harry Potter, ascoltano musica nei walkman, desiderano un computer e sognano l'America; poi ci sono i bambini di strada, quelli che vivono nelle fogne di Bucarest, che vendono il proprio corpo alla pedopornografia per qualche spicciolo, come Calman, come la sorella che il ragazzino sogna di poter proteggere da tutte le ingiustizie.
Zia Angelica gli aveva detto una volta una cosa che Calman impresse bene nella mente nonostante la tenera età, Di due cose ti devi guardare nella vita, lo aveva consigliato la fattucchiera, Dalla bellezza più di tutto, perché la bellezza porta amore e desiderio, e il desiderio porta debolezza e la debolezza distrugge nell'uomo il vigore senza che te ne accorgi, non solo dalla bellezza femminile, ma anche da quella della musica, del ballo, delle canzoni o dalla bellezza dei momenti effimeri che ti rapiscono tanto che tu non sei più padrone di te stesso, ma facile preda degli spiriti che vogliono condurti alla perdizione! 
Nel complesso si tratta di un'opera articolata, ben costruita, ma per i miei gusti davvero poco essenziale: molte delle figure a cui la scrittrice dà vita non sono state memorabili quanto avrei voluto, non tutti i fili intrecciati che costituiscono la vicenda arrivano ad uno sviluppo soddisfacente alla fine dell'opera (mi sarei ad esempio aspettata qualche avvenimento in più per la fattucchiera Angelica) e solo una parte di essi è riuscita a catturare davvero la mia attenzione. Questi periodici cali di interesse hanno comportato che il romanzo risultasse per me, data la sua lunghezza, piuttosto pesante; lo consiglierei solo a lettori molto motivati, specialmente a quelli interessati alla cultura rumena contemporanea di cui senza ombra di dubbio Florina Ilis riesce a rendere uno scorcio esauriente. 

giovedì 5 luglio 2018

L'inverno d'Italia

Tra il 1942 ed il 1943, i fascisti deportarono decine di migliaia di cittadini croati e sloveni in campi di concentramento sul territorio italiano. Questi luoghi erano privi di forni crematori e camere a gas, ma la situazione era drammatica per gli internati, costretti alla fame, a condizioni igieniche disastrose, soggetti a malattie e maltrattamenti che spesso conducevano alla morte. Si tratta di una pagina della storia italiana di cui si parla (colpevolmente) molto poco, e che non ha mai trovato spazio nei miei libri di storia. Per fortuna non si finisce davvero mai di imparare, ed esistono opere come questa in grado di avvicinarci a temi scomodi da riscoprire e possibilmente approfondire in futuro; vi lascio anche il link un articolo dell'ANPI disponibile online che affronta l'argomento relativamente al territorio sloveno.



Titolo: L'inverno d'Italia
Autore: Davide Toffolo
Anno della prima edizione: 2010
Casa editrice: Coconino Press
Pagine: 145 





LA STORIA

Drago e Giudita si incontrano nel campo di concentramento di Gonars, nella provincia di Udine. Lui viene da un paese di campagna, dove i fascisti hanno dato alle fiamme la sua casa ed ucciso suo padre; solo le mucche sono fuggite nel bosco. Giudita invece viene dalla città, da Lubjana; sua madre è morta a Gonars, per la dissenteria, e lei indossa l'abito di una piccola prigioniera a cui è toccata la stessa sorte. Drago e Giudita sono solo bambini, bambini che fanno amicizia in condizioni drammatiche; attorno a sé gli italiani, che li odiano senza che loro possano capirne il perché, e minuscole creature (un millepiedi, un grillo...), minuscole quanto si sentono loro, che si rigirano tra le mani. 




COSA NE PENSO

Conoscevo già Davide Toffolo perché, nella mia adolescenza, ho assistito a numerosi concerti della sua band "Tre allegri ragazzi morti" e ho amato molto anche il suo fumetto "Cinque allegri ragazzi morti", che acquistai nello stesso periodo. Il tratto di Toffolo è estremamente riconoscibile: personaggi dalle grandi teste, simili a teschi, molto espressivi. Queste caratteristiche le ritroviamo in Drago e Giudita, tratteggiati con linee semplici, in bianco e nero, quasi sempre privi di sfondo, in mezzo ad una pagina bianca che sembra enfatizzare la loro piccolezza davanti alle atrocità della storia ed il loro spaesamento di bambini sottoposti a tanta sofferenza.




Drago e Giudita sono i nomi di due bambini che sono davvero stati internati nel campo di concentramento di Gonars, e da quei nomi scritti in un elenco Toffolo ha tratto ispirazione per raccontarci in pagine semplici, spoglie, un'amicizia nascente nelle difficoltà. C'è spazio anche per gli incubi, materia su cui l'autore è ferrato, nelle rare tavole più piene che illustrano ciò che Drago sogna quando si addormenta.
Si tratta di una lettura brevissima, composta interamente dal dialogo tra i due protagonisti, ma non per questo meno efficace: bastano le loro sagome di spalle, davanti ad un filo spinato, per colpire il lettore in profondità. Il punto di forza di quest'opera è senza dubbio la capacità di ricordare un crimine commesso dal Fascismo di cui troppo raramente si parla, e sul quale di certo avremmo bisogno di scoprire di più: questo romanzo grafico è soltanto un punto di partenza, anche grazie alle pagine in fondo al volume che approfondiscono il periodo storico ed il fenomeno degli internamenti, arricchendo la storia raccontata da Toffolo ed i suoi personaggi. 

lunedì 2 luglio 2018

Dal tuo terrazzo si vede casa mia

Una delle prime raccolte di racconti a cui mi avvicino negli ultimi anni ha fatto parte della dozzina di candidati al Premio Strega 2018. La mia curiosità è stata suscitata principalmente dal mio interesse per gli autori migranti che scrivono in italiano -qui vi avevo già parlato di Elvira Dones e del suo romanzo "La vergine giurata". In comune con la Dones, Malaj ha la provenienza dall'Albania (dalla quale è immigrato in Italia all'età di quindici anni) e la presenza costante delle proprie origini in ciò che scrive; qui un'interessante intervista, a mio parere necessaria per comprendere l'influenza del passato sull'opera di cui stiamo per parlare.
Questa raccolta di racconti è il suo esordio.




Titolo: Dal tuo terrazzo si vede casa mia
Autore: Elvis Malaj
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Racconti edizioni
Pagine: 164




I protagonisti di questi dodici racconti sono spesso giovani uomini di origine albanese che si trovano a vivere in una città del Nord Italia: in questo caso l'elemento autobiografico è palese. C'è chi si rifiuta di credere al razzismo che lo circonda ("Vorrei essere albanese"), chi si integra senza difficoltà finché uno scherzo manesco di un compagno di classe non risveglia traumi sopiti nella coscienza ("La nuova classe"), chi invece discute di filosofia e letteratura su un autobus ("Il lupo della steppa").

Saranno stati dieci anni fa, quando andavo ancora a scuola ed ero appena arrivato in Italia, quando ero quello diverso, quello spaesato che non parlava bene l'italiano e usava la parola "cazzo" per esprimere tutti gli stati emotivi. Quando ero quello che cercava di adattarsi e faceva finta di capire anche quando non capiva, e rideva alle battute anche quando non c'era niente da ridere. Ero veramente irritante. [da "Vorrei essere albanese"]

La lingua dell'autore è colorita, vivace, fa largo uso di parolacce e di parole o intere frasi in lingua albanese. Nei dodici racconti trova moltissimo spazio la fisicità dei personaggi, la loro sessualità, talvolta al limite della volgarità. A tempo stesso però Malaj cita Alda Merini, Dostoevskij, Herman Hesse; riesce a mettere al centro di un racconto ("Il televisore") una vecchia TV a tubo catodico abbandonata davanti ad un cassonetto che diventa il pretesto per mettere in luce il comportamento di immigrati di provenienza diversa davanti ad un oggetto buttato via, e non manca la poesia in questo.
Bashkim si avvicinò; era un modello vecchio, di quelli con lo schermo bombato, senza telecomando e con le manopole al posto dei tasti. "Ma se l'hanno buttato come fa a essere buono?" chiese Bashkim. "Non è detto che è rotto, può essere che l'hanno buttato perché ne hanno comprato un altro. Fanno così gli italiani, non sono come noi che prima telefoniamo a tutti i parenti, ai conoscenti, ai conoscenti dei parenti, per vedere se qualcuno lo vuole. Gli italiani lo buttano e basta." "Ma non hai detto che erano rumeni?" [da "Il televisore"]

Le donne in questi racconti sono meno riuscite dei protagonisti maschili, va detto. Sono spesso ragazze volubili, pronte ad allontanare il proprio fidanzato per motivi futili, restano personaggi piuttosto superficiali, privi di un'identità significativa -ciò vale per la protagonista di "La vergine Maria", per Maddalena ne "Il televisore", per Selvi ne "L'incidente", Mrika nel racconto omonimo. Anche i due personaggi femminili che rivestono ruoli più rilevanti (Silvia nel racconto "A pritni miq?" e Veronica in "Morte di un personaggio") non sono riusciti a comunicarmi granché.

In Albania l'autore ambienta "Scarpe" (che al suo Paese è anche dedicato) e "La carriola". Entrambi descrivono un lato piuttosto povero della nazione, protagonisti smarriti nelle proprie esistenze; nel primo caso un uomo dedito al tradire la moglie, sperperare il proprio denaro in scommesse e perdere la pazienza, nel secondo un bambino che non parla più dopo la morte della madre e desidera i giocattoli altrui. Da questi due racconti ho ricavato un senso di incompiutezza, come se non fossi riuscita a comprendere appieno cosa avrebbero voluto comunicare.



Diversi sono, ad essere sincera, i racconti che mi sono sembrati piuttosto vuoti, privi di un contenuto convincente e di uno sviluppo che potesse chiamarsi tale. I più eclatanti in tal senso mi sono parsi "La vergine Maria", "L'incidente", "L'uomo con la cravatta con un motivo a fiori" e "Mrika".
I miei preferiti della raccolta sono stati invece senza dubbio "Il televisore", nel quale ho trovato una grande capacità di raccontare la società contemporanea prendendo spunto da un elemento concreto e quotidiano come un rifiuto, poi "A pritni miq?" e "Morte di un personaggio".
Al centro di "A pritni miq?" (il cui titolo è una frase della lingua albanese con la quale si domanda ospitalità ad un connazionale) c'è una storia d'amore randagia come quelle che piacciono a me: una ragazza italiana che abbandona la propria vita tranquilla e la propria famiglia per seguire il suo innamorato albanese senza soldi, senza documenti, senza lavoro e senza una casa. Avrei preferito una conclusione un po' meno carnale, ma l'ho comunque apprezzato molto.
I suoi avevano cercato di convincerla: che futuro poteva darle? Era ignorante, bugiardo, scansafatiche e approfittatore. Non avrebbe combinato niente nella vita, era interessato a lei solo per i soldi. Altro che amore. Per dimostrarglielo, il padre l'aveva chiamato nel suo studio. Aveva lasciato la porta socchiusa così che Silvia potesse sentire. Non aveva sprecato tempo in chiacchiere, aveva poggiato sul tavolo una busta piena di soldi e aveva chiesto ad Agron di sparire per sempre. Senza rispondere Agron aveva contato i soldi -cinquemila euro-, s'era intascato la busta e si era alzato per andarsene. Quando aveva aperto la porta si era trovato davanti gli occhi tristi di Silvia, le aveva dato un bacio sulla bocca e se n'era andato. Qualche giorno dopo era tornato a prendersela. Era il 9 maggio di, esattamente, dodici anni prima. Era cominciata così. [da "A pritni miq?"]

"Morte di un personaggio" invece ha per protagonista Kastriot, un giovane scrittore albanese il cui percorso di studi è identico a quello dell'autore; un pomeriggio d'estate trova ispirazione nei fiori secchi sul balcone della vicina (da quel balcone prende il titolo la raccolta di racconti) che la madre lo spedisce ad innaffiare, nonostante per questo sia necessaria un'effrazione. Nell'appartamento incontra Veronica, la figlia della donna che di solito vi abita, e tra i due inizia una bizzarra amicizia che incide sulle vicende del personaggio al centro della produzione di Kastriot, che era previsto morisse ma sovvertirà numerose volte i pronostici. 
Dall'apparecchio si sentiva un bisbiglio stizzito, poi si spense anche quello. Veronica era rimasta muta. "Ma che cavolo dici?" chiese. Nei momenti di panico a Kastriot venivano in mente le poesie. Veronica si muoveva a casaccio nel salotto rivolgendo domande a qualcuno che non era Kastriot. "Questo dovrebbe convincermi a non chiamare la polizia?... non capisco." Si fermò. "Be', sono belle le poesie" rispose Kastriot. "E poi ha funzionato, no?" "Guarda, penso che se sei così scemo da metterti a recitare una poesia per convincermi a non denunciarti sarai di certo così scemo anche da commettere un reato per innaffiare dei fiori." [da "Morte di un personaggio"]

Nel complesso trovo molto difficile valutare una raccolta di racconti, genere al quale come scrivevo sopra non sono affatto abituata -ma che è stato molto più agevole da leggere di quanto mi aspettassi, ed è riuscito a coinvolgermi nonostante la brevità delle storie narrate, quindi credo che d'ora in poi mi avvicinerò a questo tipo di letteratura con un atteggiamento più fiducioso.
Basando il mio giudizio sui racconti che ho preferito, credo che Malaj sia un autore promettente, ricco di idee e di elementi che, essendo questo il suo libro d'esordio, potrà di certo sviluppare in futuro. È mia intenzione tenerlo d'occhio!