giovedì 31 maggio 2018

Erano solo ragazzi in cammino

Questo romanzo biografico nasce dall'incontro di Dave Eggers (l'autore de Il Cerchio, che avevo apprezzato molto e di cui avevo scritto qui) e Valentino Achak Deng, uno dei Ragazzi Perduti fuggiti dalla guerra in Sudan negli anni Novanta ed emigrato negli Stati Uniti. Nella prefazione scopriamo che non tutti gli eventi narrati in questo romanzo sono davvero accaduti così come sono stati raccontati; confesso che non ho apprezzato particolarmente questa scoperta.


Titolo: Erano solo ragazzi in cammino - Autobiografia di Valentino Achak Deng
Autore: Dave Eggers
Anno della prima edizione: 2006
Titolo originale: What is the What: the Autobiography of Valentino Achak Deng
Casa editrice: Mondadori
Traduttore: Giuseppe Strazzeri
Pagine: 598




LA STORIA


Achak nasce nel Sudan meridionale poco prima che scoppi la guerra civile del 1983. Nel piccolo villaggio di Marial Bai conduce una vita tranquilla, figlio di un uomo che ha sei mogli, con i suoi molti fratelli e sorelle e gli amici con cui trascorrere le giornate. Quando però i ribelli e l'esercito governativo cominciano a scontrarsi, a saccheggiare i villaggi, ad incendiare le case, ad uccidere gli uomini e rapire donne e bambini, la vita in Sudan diventa impossibile e Achack si mette in marcia, come altre centinaia di bambini, sperando di raggiungere l'Etiopia. Il viaggio è pieno di pericoli e di sofferenze, moltissime le giovani vittime; ed una volta giunti in Etiopia nemmeno qui la situazione è idilliaca, al punto che seguirà una migrazione successiva verso il Kenya. Qui il protagonista vivrà per dieci anni, all'interno di un campo profughi che ha assunto le dimensioni di un paese, prima di partire poi per gli Stati Uniti.


L'espediente narrativo che consente al protagonista di raccontare la sua storia è una rapina: infatti, quando vive già ad Atlanta da diverso tempo, un uomo e una donna si introducono in casa sua approfittando della sua buona fede, lo immobilizzano e lo derubano di tutti i suoi averi di qualche valore. Per trasportare il televisore però serve loro aiuto, e così lasciano a guardia di Achack un bambino che ha l'età che Achack aveva quando si mise in cammino verso l'Etiopia. È a questo bambino che, nella sua mente, Achak comincia a raccontare la propria storia; ed una volta andato via il bambino insieme ai genitori e alla refurtiva, immagina di raccontarla agli altri abitanti del palazzo, mentre, ancora legato, cerca di attirare la loro attenzione prendendo a calci la porta. 

Valentino Achak Deng e Dave Eggers

COSA NE PENSO


Voglio premettere che per me abbandonare un libro è un evento rarissimo, e di solito scelgo di interrompere le letture dopo poche pagine, quando mi rendo conto che proprio non riuscirò a sopportarle in quel determinato momento. Non ho provato questo fastidio all'inizio di "Erano solo ragazzi in cammino", anzi ne ero molto incuriosita, tuttavia con il passare del tempo ho esercitato il diritto del lettore di "saltare le pagine", o perlomeno di operare su di esse una lettura molto veloce per capire sommariamente quando si verificasse qualche avvenimento.
Questo è capitato perché nel libro in questione non tutta la narrazione è ugualmente incisiva. Le pagine infatti dove il protagonista ripercorre i suoi anni trascorsi negli Stati Uniti non mi hanno particolarmente appassionata, mentre invece sono cariche di tensione le sue memorie legate al difficile viaggio dal Sudan all'Etiopia, la vita nei campi profughi e le inimmaginabili sofferenze vissute da Achak ed i suoi compagni. 
Il difetto principale di questo romanzo biografico è a mio parere la lunghezza -e dico questo nonostante io apprezzi molto i libri lunghi, quando le pagine hanno un motivo di esistere (lo dimostra la mia rilettura di It di cui scrivevo qui). Nonostante sia suddiviso in tre libri ed alterni sapientemente le memorie americane e quelle africane, i ricordi raccontati sono davvero moltissimi, dettagliati e protratti per numerose pagine, al punto che ho finito per perdere interesse strada facendo. 
Nonostante ci sia molto da imparare da questo libro per quanto riguarda la storia dell'Africa orientale ed i conflitti che vi si sono svolti, ed ogni testimonianza sia preziosa per la memoria dell'umanità, avrei apprezzato questa narrazione molto di più se fosse stata ridotta ad una sua parte. Lo consiglio insomma solo a lettori motivati e molto pazienti!

lunedì 28 maggio 2018

Abbiamo sempre vissuto nel castello

Già dal titolo questo romanzo ha creato in me un'aspettativa altissima, anche supportata dal fatto che sia un libro di cui si parla molto e quasi sempre in termini entusiasti. Tra gli estimatori dell'orrore e dei romanzi colmi di inquietudine, in grado di spaventare il lettore, il parere è unanime: ed anche io mi trovo d'accordo.


Titolo: Abbiamo sempre vissuto nel castello
Autrice: Shirley Jackson
Anno della prima edizione: 1962
Titolo originale: We Have Always Lived in the Castle
Casa editrice: Adelphi
Traduttrice: Monica Pareschi
Pagine: 182




LA STORIA

Mary Katherine, detta Merricat, e Constance Blackwood sono le uniche superstiti illese di un avvelenamento da arsenico che ha sterminato i loro parenti nell'elegante villa di famiglia. Da quel giorno le sorelle vivono isolate dalla comunità del paese insieme allo zio Julian, la cui salute è stata gravemente danneggiata dalla cena avvelenata alla quale anche lui aveva partecipato. Anche se il sospetto e lo scherno degli abitanti della zona si riversano sulle Blackwood ogni volta che se ne presenta l'occasione, la quotidianità delle ragazze è tranquilla, fatta di piccole cose. Merricat si affida ad un personale pensiero magico che crede possa proteggere lei e la sorella da tutti e da tutti, e che pare funzionare almeno fino al giorno in cui il cugino Charles fa la sua comparsa e sconvolge per sempre l'equilibrio che avvolgeva la casa dei Blackwell. 

Immagine di copertina nell'edizione Penguin Classics


COSA NE PENSO

Questo romanzo è l'ultimo della produzione di Shirley Jackson, autrice inglese  che soffrì di disturbi dell'ansia e fu in grado di trasferirli anche nelle protagoniste dei propri scritti.
Questo titolo incarna perfettamente l'immenso potere del non detto, di ciò che viene sottinteso, di ciò che si sospetta e non si dice. Nonostante i sospetti per quanto riguarda la colpevolezza della morte dei Blackwell si siano infatti sempre concentrati su Constance, alla sera incriminata le sorelle fanno molto raramente riferimento, e quando accade non è certo nei termini che un lettore potrebbe aspettarsi. 
Sin dal folgorante incipit, di un'incisività davvero rara, il romanzo della Jackson cattura ed appassiona:
Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.
Le sorelle Blackwood, raccontate dal narratore interno in prima persona (Mary Katherine), vengono caratterizzate pagina dopo pagina ed emergono nelle loro differenze: mentre Constance, che appare inizialmente la più impaurita, quella che non si allontana mai dalla dimora, all'arrivo di Charles sembra pronta ad un cambiamento nello stile di vita, Mary Katherine si mostra in breve la più legata all'universo esclusivo che condivide con la sorella e l'amato gatto Jonas. 
La comparsa di Charles è senz'altro il punto di svolta del romanzo, che da quel momento in poi racconta un susseguirsi di eventi ricchi di tensione, avvolti da un'atmosfera cupa che non fa presagire nulla di buono -ma che comunque andrà a concludersi in modo sorprendente per il lettore, o almeno per me il finale di questo libro è stato molto diverso da quanto avrei potuto aspettarmi. 
Un moderno romanzo gotico sia per l'ambientazione (una lugubre villa in decadenza, semiabbandonata prima ed addirittura in rovina poi) sia per l'ingombrante presenza della morte che aleggia sui membri della famiglia Blackwell, si tratta senza dubbio di un titolo che non ha perso attualità nel corso degli anni, capace com'è di raccontare una storia nera senza tempo che non può far altro che affascinare i lettori ed incollarli alle pagine. 

giovedì 24 maggio 2018

Mio assoluto amore

Un caso editoriale, un esordio osannato, una copertina sulla quale nientemeno che Stephen King lo definisce "un capolavoro". Insomma gli elementi per sospettare c'erano tutti! Eppure ci sono cascata.



Titolo: Mio assoluto amore
Autore: Gabriel Tallent
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: My absolute darling
Casa editrice: Rizzoli
Traduttore: Alberto Cristofori
Pagine: 413



LA STORIA

Julie odia il proprio nome e si fa chiamare Turtle. Ha quattordici anni, è alta per la sua età, è orfana di madre e vive nel folto di un bosco californiano insieme a suo padre, Martin. Lui è un uomo attraente, forte, crede a teorie catastrofiche sul riscaldamento globale e legge libri di filosofia, riempie il seminterrato di scatolame e la casa di armi pronte all'uso. Turtle sa sparare, sa scuoiare i conigli e mangiare la coda degli scorpioni; sembra che non abbia paura di nulla, eppure a scuola non ha amici e non si fida di coetanei e insegnanti. Turtle sa che tutti, compreso il nonno a cui vuole tanto bene, rappresentano una minaccia per la vita isolata che conduce, indottrinata dalla mente malata del padre, dal suo concetto distorto di amore e dalle violenze a cui in nome di quell'amore assoluto la sottopone. 

Foto Alamy - Mendocino Coast


COSA NE PENSO

Iniziamo col dire che sì, questo libro disturba, e sì, questo libro racconta un incesto. Le pagine dedicate a questo argomento sono nauseanti, anzi personalmente ho trovato nauseante in pratica ogni pagina dove comparisse il personaggio di Martin, con il suo carico di perversione. 
Ci sono pagine violente, crude, sanguinose: violenze perpetrate da un carnefice che si dichiara convinto di farlo per amore ma, pagina dopo pagina, si mostra sempre di più per quello che è: un pedofilo disgustoso, capace di lasciare sola la propria figlia per tre mesi alla prima difficoltà e sostituirla con un'altra bambina, più o meno rapita, che dovrà vedersela con la stessa folle violenza se non con una peggiore (la povera Cayenne è infatti protagonista della scena più cruenta di tutto il romanzo, l'amputazione di una parte di un dito, che mostra molto bene la personalità di Martin e quando una vittima di abuso da parte di un genitore sia soggiogata dal suo carnefice). 
Un grande pregio del romanzo è proprio questo: saper raccontare la dinamica malata di un rapporto tra padre abusante e figlia vittima, che arriva a detestarsi, ad odiare le donne, a rifiutare ogni forma di debolezza, e prova per il padre un amore contorto e profondo che infastidisce persino lei stessa, ma al quale non sa rinunciare fino al vero e proprio punto di rottura.
Il problema principale di questo libro però è che ci sono molti elementi aggiuntivi: è stracolmo di descrizioni della flora californiana, per prima cosa, che diventano via via un po' eccessive sebbene arricchiscano la narrazione. L'altro elemento in più nell'universo di Turtle e Martin sono i coetanei della ragazzina, Brett e Jacob soprattutto, i due con cui fa amicizia in un modo piuttosto bizzarro; per Jacob proverà poi una vera e propria infatuazione che scatenerà l'inevitabile reazione del padre-mostro. L'elemento dei ragazzi è importante per la storia; non lo è altrettanto però l'improbabile avventura sull'isola dove Turtle e Jacob rischiano la vita per pagine e pagine, lei riporta fratture e ferite a dir poco non necessarie (l'autore forse ci teneva ad aggiungere un tocco di splatter anche a quelle...). Certo, in quell'occasione emerge in modo evidente quanto Turtle abbia interiorizzato gli atteggiamenti paterni; ma visto che in seguito trascorrono mesi in cui la ragazzina si lega alla famiglia di Jacob e a quella di Brett, che poi spariranno di colpo al ritorno di Martin, questa parte del romanzo mi è sembrata piuttosto tirata per le lunghe.
Verso la fine poi ammetto di aver provato una vera e propria insofferenza durante la lettura, quando da un romanzo sostanzialmente psicologico la narrazione si trasforma in quella di un thriller ad alta tensione, in una rissa dal ritmo incalzante ed arricchita da un'intensa sparatoria... Nonostante mi avesse disturbato di più la parte precedente, l'avevo anche trovata più riuscita.
Turtle e Martin sono i veri punti di forza del romanzo: due personaggi indubbiamente d'impatto, imprigionati in un rapporto di potere dove il padre sente diminuire il proprio ed aumentare quello della figlia, che si sente al sicuro solo quando è sola, quando è libera. Se alleggerita di una buona quantità di pagine, credo che avrei apprezzato la loro storia molto di più; ora mi sento di consigliarla soltanto a coloro che vogliano mettersi alla prova con una lettura ricca di dettagli ai quali si fatica a dare importanza, alla ricerca come si è delle risposte, della soluzione che sbrogli la rete in cui Turtle e Martin sono intrappolati. 

lunedì 21 maggio 2018

La vegetariana

I libri di cui si sente spesso parlare mi incuriosiscono quasi sempre, ad un certo punto. Mentre all'inizio, quando esplode l'attenzione nei loro confronti, provo una certa repulsione per i titoli in cime alle classifiche, alla fine quasi sempre mi lascio tentare e li leggo. È successo esattamente questo con "La vegetariana", libro piuttosto discusso e vincitore del Man International Booker Prize nel 2016.



Titolo: La vegetariana
Autrice: Han Kang
Anno della prima edizione: 2007
Titolo originale: Chaesikjuuija
Casa editrice: Adelphi
Traduttrice: Milena Zemira Ciccimarra
Pagine: 177



LA STORIA

Yeong-hye è una donna sudcoreana sposata con il signor Cheong. Il loro non è certo un grande amore: lui ha scelto infatti una moglie che non gli creasse problemi, che fosse tranquilla e prevedibile, con la quale condividere una quotidianità priva di sorprese. Tuttavia la loro routine familiare viene interrotta da un sogno di Yeong-hye che sconvolge la donna profondamente, al punto da farle provare un'insopprimibile repulsione per tutto ciò che è di origine animale. Dall'improvvisa conversione all'alimentazione vegana, che già da sé non viene affatto accettata dalla sua famiglia ed anzi riporta in luce le dinamiche violente che vi si svolgevano quando Yeong-hye era bambina, le condizioni della protagonista di questo romanzo vanno via via sempre peggiorando. La dieta che aveva escluso inizialmente ogni prodotto di origine animale arriva ad escludere qualsiasi alimento, acqua a parte, finché non resta alla sorella (unica persona rimasta a preoccuparsi per lei) altra opzione che farla ricoverare in una struttura psichiatrica.



COSA NE PENSO

Il romanzo di Han Kang è suddiviso in tre parti, narrate da altrettanti punti di vista. Solo il primo, quello del marito di Yeong-hye, ha un narratore in prima persona; gli altri due invece hanno un narratore esterno, nella seconda parte il cognato e nella terza la sorella.
"La vegetariana" (il cui titolo è a mio parere fuorviante) è un romanzo che racconta un corpo e la sua lotta: Yeong-hye combatte contro la violenza del mondo, contro gli abusi subiti nell'infanzia dal padre, veterano del Vietnam con le mani pesanti, e contro le scene sanguinarie alle quali ha assistito nei confronti degli animali.
In un processo che sembra iniziare come una purificazione, i demoni nella sua testa prendono il sopravvento fino ad illudere la protagonista di potersi tramutare in un albero, nutrito attraverso la fotosintesi, che di null'altro ha bisogno se non di acqua e di sole. In questo percorso autodistruttivo viene abbandonata dal marito, aggredita e poi abbandonata anche dai propri genitori; anche la sorella, che nonostante tutte le difficoltà le rimane accanto, è costretta a rinunciare al proprio matrimonio dopo che il suo marito artista ha sedotto proprio Yeong-hye approfittando della sua estrema fragilità psichica. 
Innegabile è il fatto che Han Kang susciti la curiosità del lettore, e lo immerga in una realtà (quella della Corea del Sud) dove le scelte alimentari che escludono la carne ed i prodotti animali sembrano meno accettate rispetto a quanto lo sono in Europa. Ho apprezzato l'atmosfera di incomunicabilità che l'autrice crea attorno alla sua protagonista, ma questo personaggio non è comunque riuscito a convincermi in profondità perché le sue motivazioni non vengono mai veramente espresse. Può darsi di certo che questo alone di mistero fosse voluto, e che sia stata io a non apprezzare il modo in cui l'emotività è veicolata ed espressa in questo romanzo, molto lontano dalla mia sensibilità.
Sono rimasta insomma un po' delusa da questa lettura, ma ho intenzione in futuro di leggere "Atti umani", altro romanzo di Han Kang già edito in Italia, che dovrebbe essere di tutt'altro genere e probabilmente più adatto ai miei gusti. 

giovedì 17 maggio 2018

Io non ho paura

Uno dei miei propositi per questo 2018, come vi raccontavo qui, è rileggere. Creare l'occasione per riscoprire titoli letti da anni e parzialmente dimenticati, rivalutandoli alla luce del tempo trascorso. L'ultima volta che avevo aperto le pagine di questo libro ero ancora all'inizio del liceo: oggi vi ho ritrovato gli appunti presi a matita in una grafia che non sembra più la mia, le atmosfere che ricordavo ma anche più tensione di quella che avevo provato anni fa.




Titolo: Io non ho paura
Autore: Niccolò Ammaniti
Anno della prima edizione:
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 219




LA STORIA

Nell'estate del 1978, Michele ha nove anni, una sorellina di cinque, una mamma molto attraente che si occupa a tempo pieno dei figli e della casa ed un padre camionista, spesso assente. Vivono ad Acqua Traverse, un paesino nella campagna pugliese, composto da quattro case di numero; il mondo di Michele sono quelle case, i campi di grano, le avventure e le penitenze nei giochi con gli amici, le salite in bicicletta. La tranquilla quotidianità dell'infanzia si interrompe il giorno in cui durante l'esplorazione di una casa abbandonata Michele scopre una buca profonda nel terreno, coperta da un telone, ed al suo interno un bambino: dapprima Michele lo crede morto, ma nel corso di una visita successiva scopre che per quanto deperito e confuso Filippo, questo il suo nome, è ancora vivo. Inizia così un'amicizia singolare, nella quale Michele però mette l'anima, impegnandosi al massimo delle sue possibilità di bambino per procurare a Filippo un po' di cibo in più. La scoperta più sconvolgente per Michele però arriva dalla televisione: nel corso di un'intervista, una donna di Pavia chiede ai sequestratori di lasciar andare suo figlio Filippo senza fargli del male. La reazione del padre di Michele e degli uomini che gli gravitano attorno non lascia spazio ad equivoci: sono tutti coinvolti nel rapimento del bambino, e per Michele è ormai chiaro che a Filippo non resta molto da vivere, a meno che non sia lui a riuscire a salvargli la vita...


Mattia Di Pierro e Giuseppe Cristiano in una scena del film
"Io non ho paura" di G. Salvatores (2003)

COSA NE PENSO

Si tratta senza dubbio di uno dei romanzi più noti di Ammaniti, caratterizzato a differenza di una grossa parte della sua produzione da un completo realismo. Ci racconta il periodo dei sequestri di persona tra gli anni Settanta ed Ottanta infatti, quando la criminalità organizzata del Sud Italia puntava sui rapimenti per infiltrarsi al Nord, ben prima di avviare attività economiche di vario genere. Ci racconta i sequestri dal punto di vista di coloro che meno possono capirne le motivazioni, i bambini: gli occhi di Michele sono infatti colmi d'innocenza, di fiducia nei confronti del padre che mai potrebbe pensare coinvolto in un simile crimine finché le prove non diventano troppe per potersi convincere che sia estraneo ai fatti. 
In un romanzo di formazione racchiuso nell'arco di pochi giorni, Michele scopre il tradimento: quello del padre di cui si fidava, ma anche quello del suo migliore amico che non mantiene i suoi segreti. Michele però scopre anche il coraggio di andare contro l'intera comunità del paesino dove vive, dove tutti sono coinvolti a vario titolo nel sequestro, per fare la scelta che sente come l'unica giusta possibile: salvare Filippo, anche se il prezzo potrebbe essere la sua stessa vita.
Nonostante la brevità di questo romanzo, raccontato con un linguaggio semplice e molto diretto, la profondità dei temi non manca ed anche l'ambientazione è convincente, capace di trasportare in un contesto lontano che sembra di toccare con mano. Rileggendolo a distanza di anni penso di aver compreso meglio questo libro, e mi sento di consigliarlo anche perché non venga dimenticato o eclissato da romanzi che prendono da esso ispirazione senza riuscire tuttavia a replicarne l'efficacia (mi riferisco, nello specifico, a "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella, del quale ho scritto qui). 

lunedì 14 maggio 2018

Hugo e Rose

Tratta in inganno dalla copertina gradevole e dalla sinossi che mi aveva in qualche modo ricordato l'intenso e commovente "La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo" di Audrey Niffenegger, mi sono lasciata tentare... E questa volta ho proprio sbagliato!



Titolo: Hugo e Rose
Autrice: Bridget Foley
Anno della prima edizione: 2015
Casa editrice: E/O
Traduttore: Nello Giugliano
Pagine: 335




LA STORIA

Quando aveva sei anni, Rose cadde dalla bicicletta. Rimase incosciente per diversi giorni, e quando si risvegliò non riuscì a smettere di piangere per un giorno intero: ma non era stata la paura la causa di quelle lacrime. Nel suo lungo sonno infatti Rose aveva incontrato Hugo: un bambino dagli occhi color cioccolato, con il quale aveva vissuto un'avventura strepitosa su un'isola dove erano loro gli unici esseri umani, potevano mangiare conchiglie al sapore di caramello, combattere ragni pericolosissimi, sfuggire a branchi di cervi composti soltanto da animali maschi, e tentare di accedere a Città Castello. Il mondo dei sogni era parso a Rose preferibile a quello quotidiano della sua infanzia, ed enorme fu la sua gioia nell'accorgersi che poteva farvi ritorno ogni notte non appena si riaddormentava, e vivere interminabili altre avventure con Hugo. 
Trent'anni dopo, Rose è madre di tre bambini (Isaac, Adam e la piccola Penny), moglie di Josh, chirurgo sempre impegnato, ma è ancora la Rose che ogni notte incontra Hugo nei sogni: Hugo che è cresciuto con lei ed ora è un uomo, e le fa dimenticare ogni notte la monotonia della sua vita di madre casalinga, spesso frustrata dalla propria situazione. Questo apparente equilibrio però si spezza in un giorno come tanti: entrata con i figli in un fast-food, Rose scorge dietro il bancone un uomo incredibilmente simile a Hugo, e ciò che è ancora più incredibile è il fatto che l'uomo la riconosca a sua volta e si riveli essere proprio quel Hugo che popola, da trent'anni, i sogni di Rose, la quale è da trent'anni ogni notte nei sogni di lui.



COSA NE PENSO

Hugo e Rose è un romanzo che definirei sbilanciato. Nella prima metà infatti siamo davanti ad un romanzo rosa dalle tinte fantasiose: una protagonista come tante, una vita familiare che non ha nulla di straordinario, ed un rapporto relegato al mondo dei sogni con un personaggio per lei indispensabile, Hugo. La fantasia è per Rose assai meglio della realtà, e rendiamo merito all'autrice per aver creato un universo onirico che i lettori immaginano con facilità (sabbie rosa, città inespugnabili, creature pericolose e rifugi in legno che si lasciano cullare dalle onde).
Dopo l'incontro con Hugo in carne ed ossa però il tono del romanzo cambia completamente, assumendo tinte cupe proprie di una narrazione tragica: il matrimonio sembra entrare in crisi, i bambini sono sempre più spesso trascurati, Hugo stesso non è limpido ed ideale come Rose lo aveva sognato. Nella conclusione poi la vicenda cambia nuovamente forma, tramutandosi in una sorta di thriller carico di tensione e di imprevedibilità, sia nel mondo onirico sia nel più concreto Colorado.
Anche i punti di vista dei personaggi sono a mio parere non sempre equilibrati: senza dubbio quella che riveste un ruolo di primo piano è Rose, tuttavia ogni tanto compare Adam, il secondo figlio: l'autrice dà a questo bambino un rilievo particolare rispetto agli altri componenti della famiglia e descrive Adam in modo più generoso rispetto alla descrizione di Isaac. Adam infatti non è prepotente come il fratello maggiore, anzi ne è alla costante ricerca di attenzione nonostante questi lo maltratti in presenza degli amici; viene descritto come un bambino dolce e sensibile, ed infatti è lui ad entrare in contatto direttamente con Hugo (elemento a mio parere superfluo all'interno della trama). Il punto di vista di Adam talvolta è quello attorno al quale si sviluppano intere pagine, per poi scomparire rapidamente non appena Rose ritorna al ruolo di protagonista, creando così un'alternanza tra i punti di vista decisamente sbilanciata.
Un'ultima nota negativa sento di doverla dedicare ai termini usati nel romanzo, che renderebbero felici la maestra colpevole dell'aver fatto riconoscere persino all'Accademia della Crusca il termine "petaloso": qui infatti abbondano parole come "biciclettosità" ed altri orrori vari, che per il mio gusto personale sono veramente inaccettabili.
Nel complesso, penso si sia già capito, questo romanzo non mi ha convinta; nonostante si tratti di un romanzo di intrattenimento semplice e scorrevole, il rovesciamento del tono spensierato e romantico che speravo di trovarvi mi ha delusa e lasciata in conclusione piuttosto delusa ed insoddisfatta

giovedì 10 maggio 2018

Canto di nozze

Un altro titolo dall'Egitto trova spazio su queste pagine virtuali, e questa volta il suo autore è considerato uno dei più importanti autori del Paese, l'unico ad essere stato insignito del Nobel alla letteratura (precisamente nel 1988): Nagib Mahfuz.
Nonostante Mahfuz sia piuttosto famoso a livello internazionale, il romanzo che ho letto è un altro titolo purtroppo poco noto di una letteratura che ritengo sia davvero da scoprire, e parlarne qui è pur sempre un modo per dare il mio contributo in tal senso.



Titolo: Canto di nozze
Autore: Nagib Mahfuz
Anno della prima edizione: 1981
Titolo originale: Afrah al-qubba
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Valentina Colombo
Pagine: 131



LA STORIA

Abbas Yunis è un autore di teatro. I suoi genitori, Karam e Halima, sono stati attori per tutta la vita, ed il mondo dello spettacolo li ha resi distanti e corrotti, organizzatori di bische clandestine condite con alcool e oppio nel proprio salotto di casa. Abbas è stato testimone del loro abbrutimento, dell'acuirsi della distanza tra loro, ed è diventato in età adulta un autore di successo, mentre i suoi genitori perdevano ogni prestigio sociale venendo arrestati per via delle loro attività illecite.
Un interrogativo pervade il libro: l'opera nell'opera, quella scritta da Abbas e interpretata dall'attore che esagera con l'alcol ed è perseguitato dai rimpianti Tariq Ramadan, sarà vera? Sarà vero che la bella Tahyya, corrotta dal mondo del teatro e dai suoi tanti uomini, quella che ha sposato Abbas nonostante fosse di molto più vecchia di lui e ha dato alla luce suo figlio, è stata uccisa? E Abbas ha davvero intenzione di suicidarsi come scritto nel biglietto che Tariq rinviene nella casa che trova vuota?





COSA NE PENSO 

Abbas è senza dubbio il personaggio di cui più dubitiamo, ma alla fine è l'unico al quale Mahfuz concede un'integrità morale. Deluso dai genitori, indubbiamente perseguitato dalla sfortuna alla morte (per malattia) di moglie e figlioletto, riesce comunque a raggiungere il successo sul piano professionale, e il suicidio è una fugace idea che presto gli si allontana dalla mente.
L'Egitto di Mahfuz è torbido, un mondo di dissolutezza e infelicità si cela dietro i palcoscenici, i quartieri del Cairo sono sporchi, l'impianto fognario malfunzionante. Il romanzo risale agli anni '80 del Novecento, e l'Egitto che Mahfuz ci racconta è molto distante dall'integralismo islamico di perbenismo e rigidità, ed infatti le accuse di blasfemia e la censura nei confronti delle sue opere non sono mancate (ad esempio nei confronti de “Il rione dei ragazzi”), al punto di renderlo vittima di un attentato da parte di fondamentalisti nel 1994, al quale tuttavia sopravvisse.
Mahfuz costruisce un racconto a quattro voci, quattro capitoli dedicati ai personaggi principali (tratteggiati in maniera approfondita e realistica) dove sono loro i narratori, ognuno col suo stile personale, chi più narrativo chi più dialogico. Il testo ha una struttura adattissima per il teatro o per il cinema, ed infatti di recente è stata prodotta una trasposizione sotto forma di serie TV in occasione del mese di Ramadan 2016 che mi piacerebbe molto vedere, ma in streaming in inglese non sembra ad oggi reperibile. Magari in futuro, chissà, se questo libro acquistasse una maggiore popolarità...!

lunedì 7 maggio 2018

Piazza dell'Unità

Questo romanzo racconta la mia città, ed è stato il titolo ad attrarmi istintivamente. Vicino a Piazza dell'Unità ho lavorato per qualche anno, a contatto con tutte le differenti provenienze nazionali e culturali che abitano e rendono vivo il quartiere: impossibile quindi non esserne incuriosita.



Titolo: Piazza dell'Unità
Autore: Maurizio Matrone
Anno della prima edizione: 2011
Casa editrice: Marcos y Marcos
Pagine: 256





LA STORIA

Matrone racconta dunque Bologna. Racconta Bologna, ed in particolare le seconde generazioni di immigrati. Bologna, o meglio la Bolognina, il quartiere multietnico per eccellenza che ruota attorno al fulcro di Piazza dell'Unità, il suo campo da basket, gli ortofrutta e la Pam, gli studenti delle Aldini e quelli che a scuola proprio non ci vanno.
Sono ragazzi marocchini, cinesi, rumeni, albanesi e rom. Sono ragazzi che hanno avuto molto ma vogliono di più, come Mohammed e Schen Li, figli di lavoratori che fanno del loro meglio per dare loro opportunità e futuro. Sono ragazzi soli come Roman, che fa i cartongessi e sogna l'amore, come Nikolaj ed Elena che sono rom, danno via il proprio corpo e non hanno nessuno. Sono bambini come il piccolo cinese senza nome che vive in un seminterrato adibito a fabbrica, con solo una grata che dà sull'esterno, da oltre un anno senza mai uscire, ad incollare tacchi insieme alla sua mamma.



COSA NE PENSO

Scrive un noir metropolitano, Matrone, di corpi venduti ed usati, di sesso senza sentimenti come quello che fa Mohammed che lo riprende col telefonino, di amori spietati come quello di Schen Li che organizza una violenta vendetta insieme alla sadica sorella quando scopre i tradimenti del bell'arabo. Scrive un collage di solitudini, di membra e nazionalità che si mescolano, una Bologna crudele e meticcia in cui è agrodolce riconoscersi, un'adolescenza che più che mai coincide con la guerra (cit.) quando l'appartenenza alla città oscilla tra cocaina da sniffare, cinquemila euro guadagnati da un africano (che non mente mai, perché gli uomini del Burkina Faso sono integri e non dicono mai bugie) prostituendosi, che passano di mano in mano, neonazisti vigliacchi che chissà dove si nascondono alla luce del giorno.
Il romanzo di Matrone descrive una Bologna sommersa che io stento a credere esista, nonostante certe avvisaglie nei miei allievi, negli occasionali incontri lungo le strade. Maurizio Matrone è stato poliziotto alla Questura di Bologna per una decina di anni, e quindi di storie ne avrà sentite e viste tante -ciò rende il suo punto di vista di autore più interno, più credibile.
I suoi personaggi tuttavia, seppure talvolta stereotipati, non cadono nella facile trappola di sembrare un invito alla cieca xenofobia che ci allontani dai luoghi di aggregazione, primo tra tutti proprio Piazza dell'Unità; ci lasciano invece la curiosità verso la storia di ognuno, verso il vissuto che ha portato tutti i giovani che popolano queste pagine fino alle strade che ruotano attorno a questa piazza, cuore pulsante della Bolognina, dove è sempre un piacere incontrarsi.

giovedì 3 maggio 2018

Addio a Sidonie

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare.
 L'attribuzione di questa poesia è incerta, il testo stesso è oggetto di controversie; ma quel che è sicuro è che si adatta perfettamente al libro di Erich Hackl.




Titolo: Addio a Sidonie
Autore: Erich Hackl
Anno della prima edizione: 1989
Titolo originale: Abschied von Sidonie
Casa editrice: Marcos y Marcos
Traduttore: Emilio Picco
Pagine: 156





LA STORIA

Gli anni Trenta in una cittadina dell'Austria sono un periodo difficoltà per Hans e Josefa Breirather, coppia di sposi comunisti di estrazione sociale modesta, ma lo sono ancora di più per la piccola Sidonie, abbandonata dinanzi ad un ospedale a poche ore dalla nascita. La pelle di Sidonie è scura, la piccola è di certo stata partorita da una donna appartenente alle popolazioni nomadi della zona: è una piccola zingara che nessuno vuole prendere in affidamento, finché non lo fa Josefa. Josefa ha già un bambino, Manfred, ma accoglie Sidonie come una figlia e lo stesso fa Hans; nella loro umile famiglia, alle prese anche con le persecuzione dei comunisti da parte del partito nazionalsocialista in ascesa, viene accolta poi anche Hilde, coetanea di Sidonie. Mentre gli anni passano, le bambine vanno a scuola, Hans è attivo come può nella Resistenza, gradualmente gli zingari spariscono dall'Austria: ed il 13 marzo 1943 i Breirather ricevono una lettera che impone loro di riconsegnare Sidonie alla sua madre naturale, rintracciata chissà come. Se la destinazione sia davvero la sua famiglia biologica, o quella prevista per tutti i rom ed i sinti dal partito nazista -i campi di sterminio, nessuno può saperlo...

Una delle piccole vittime della deportazione Nazista

COSA NE PENSO

Forse Sidonie non è realmente esistita; come lei però sono esistite molte altre bambine di etnia rom e sinti, deportate nei campi di sterminio, uccise nel pieno della loro innocenza. Come loro, migliaia di bambine ebree nel corso della Seconda Guerra Mondiale, ed oggi ancora un destino tragico colpisce altre migliaia di piccole vite nei focolai della guerra in Medioriente o in Africa subsahariana. E in tutti i casi, milioni di complici silenziosi assistono alle atrocità e alle ingiustizie senza proferire parola: perché non siamo noi Sidonie, non siamo noi la bambina rom, ebrea o siriana di turno.
Hackl ci pone faccia a faccia con la nostra vigliaccheria, con il quieto vivere in nome del quale sacrifichiamo gli ideali troppo prontamente. Ci ricorda l'alternativa che abbiamo, ogni giorno: quella che a Sidonie avrebbe salvato la vita, quella che ha salvato la vita di Margit -e ci lascia, in ultima pagina, con un accenno appena di speranza
Non solo Sidonie però e al centro del romanzo di Hackl: i veri protagonisti sono i suoi genitori adottivi, i coniugi Breirather, comunisti obbligati dal Reich al matrimonio in chiesa, sempre pronti ad aiutare il prossimo, ad aprire la porta di casa per ospitare o per nascondere. Brave persone, i Breirather, coraggiosi almeno loro, anime della Resistenza austriaca seppure in modi diversi: la resistenza politica ed armata spetta ad Hans, quella dell'accoglienza e dell'amore incondizionato a Josefa, madre a cui non importa nulla del DNA. Hans mi ha ricordato Otto Quangel, protagonista con la moglie di un'altra Resistenza al Nazismo, quella narrata dalla penna di Hans Fallada nel memorabile romanzo "Ognuno muore solo" (di cui scrivevo qui). 
Nel corso di qualche ricerca online mi sono accorta del fatto che questo romanzo è poco conosciuto, addirittura difficile da reperire in commercio: vi consiglio comunque di procurarvelo se ci riuscite, perché in poche centinaia di pagine ci racconta una storia che è la storia del 1943 come la storia di oggi, e ci ricorda di quanto sia importante far sentire la propria voce per salvare le Margit e le Sidonie di ogni tempo ed ogni luogo del mondo.