lunedì 27 luglio 2020

La peste scarlatta

Di romanzi post-apocalittici ne ho letto qualcuno, negli ultimi anni: il migliore è senza ombra di dubbio “La strada” di Cormac McCarthy.
Molti anni prima però, uno scrittore statunitense che io conoscevo soltanto per le sue storie a tema animali (Zanna Bianca, Il richiamo della foresta) aveva scritto l’antenato dei romanzi che troviamo oggi sugli scaffali delle librerie: La peste scarlatta.



Titolo: La peste scarlatta
Autore: Jack London
Anno della prima edizione: 1912
Titolo originale: The Scarlet Plague
Casa editrice: Adelphi
Traduttore: Ottavio Fatica
Pagine: 81



LA STORIA


Sulla costa Californiana, un anziano racconta a tre giovani chiamati Edwin, Labbro Leporino e Hoo-Hoo come mai nel 2070 la loro società si sia ridotta a pascolare capre, cacciare animali selvaggi, vestire di misere pelli e dormire in rifugi di fortuna. Nel 2013 infatti una malattia capace di uccidere nel giro di poche ore, dopo aver reso scarlatta la pelle (da qui il suo nome, “la peste scarlatta”), aveva decimato l’umanità riducendola a poche decine di individui. 
La civiltà, nipoti miei, la civiltà periva avvolta in un sudario di fiamme e in un alito di morte.


COSA NE PENSO


Jack London non è stato il primo a scrivere un romanzo post-apocalittico: lo avevano già fatto alcuni autori come Mary Shelley (più celebre per il romanzo “Frankenstein”) nel secolo precedente. Tuttavia “La peste scarlatta”, pur risalendo a più di cento anni fa, ricorda moltissimo gli attuali romanzi del genere, dal già citato “La strada” al decisamente più corposo “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, e non ha risentito affatto del passare del tempo.
Quello di Jack London è un racconto orale, trasmesso dall’anziano che viene chiamato Nonno ai più giovani membri della sua tribù. Nelle sue parole, ricche di termini che i ragazzi non conoscono nella loro società primitiva, rivive il mondo com’era prima del 2013, l’anno che ha cambiato tutto: quando le comunicazioni erano facili e i cieli erano solcati dagli aerei.
«Ero solo nella mia grande casa. A quei tempi, come vi ho già detto e ripetuto, potevamo comunicare fra di noi servendoci di fili o attraverso l’etere. Il telefono squillò. Era mio fratello. Mi disse che non sarebbe venuto a casa per paura che gli attaccassi la peste, e che aveva portato le nostre due sorelle a casa del professor Bacon. In attesa di scoprire se avessi preso la peste, mi consigliava di restare dov’ero.

London non ha immaginato internet, non ha immaginato la messaggistica istantanea né la velocità con la quale oggi le notizie sulla diffusione dei virus ci raggiungono costantemente pronte a terrorizzarci (incuranti del fondamento scientifico di tale terrore); però ha immaginato l’isolamento a seguito di una catastrofe, lo smarrimento dell’essere umano, la solitudine degli unici che restano.
Nel cuore della nostra civiltà, nei bassifondi e nei ghetti operai, avevamo allevato una genia di barbari, di selvaggi; ora, nel momento della sventura, da quelle bestie feroci che erano si rivoltavano contro di noi per distruggerci, distruggendo così anche se stessi.

C’è molto poco del viaggio e della lotta per la vita in cui McCarthy ha immerso la sua coppia di padre e figlio; questo nonno e questi tre nipoti, che lo siano di sangue o per scelta, sono invece immobili, il mare attorno a loro, i cavalli selvaggi che scendono alla spiaggia, il ricordo di una San Francisco gremita di villeggianti e cittadini avvolge il vecchio che riporta in luce un mondo che ha smesso di esistere. 
Dev’essere una delle ultime monete coniate, perché la Morte Scarlatta è sopraggiunta nel 2013. Ossignore! Ossignore!... ma ci pensi! Sono passati sessant’anni e io sono l’unico superstite vissuto a quei tempi.

Non mi ha entusiasmato, devo ammetterlo. È evocativo, di certo cattura il lettore con le sue descrizioni ricche di dettagli; tuttavia confesso che mi sarei aspettata qualche avvenimento in più. London ci dice molto del passato, del mondo prima e durante la Peste Scarlatta; ma ciò che sappiamo del dopo sono accenni, riferimenti, perché i tre giovani ascoltatori già lo conoscono quel mondo, è quello in cui vivono. Per il lettore però resta un universo da dedurre, da ricostruire a spizzichi e bocconi, ed anche i tre giovani -spesso spazientiti dalle rimembranze del vecchio- rimangono appena accennati. 

Nonostante questo gli riconosco il fatto di essere una lettura breve e molto scorrevole, di certo imperdibile per gli amanti del genere dato che costituisce una delle basi a partire dalle quali il genere della letteratura post-apocalittica si è sviluppato. Non aspettatevi però un’avventura che vi tenga col fiato sospeso!

lunedì 20 luglio 2020

Vertigo

Siamo ormai abituati a poter scegliere tra una vasta offerta di thriller dalle atmosfere nordiche, ma molto più raramente ne leggiamo ad opera di scrittori che provengono da paesi a Sud del Mar Mediterraneo. Sono riuscita però a scovarne uno, ed è stata una piacevole sorpresa!




Titolo: Vertigo
Autore: Ahmed Mourad
Anno della prima edizione: 2007
Traduttrice: Barbara Teresi
Casa editrice: Marsilio
Pagine: 367




LA STORIA

Ci troviamo nella torrida capitale egiziana, affacciati sul Nilo, e passiamo da un club a uno studio fotografico. Il protagonista del romanzo, Ahmed, è infatti un fotografo che lavora al bar Vertigo: un locale frequentato da uomini ricchi e potenti, che usano il proprio denaro per alcol, prostitute e affari illeciti di vario genere.
Il romanzo di Mourad ha inizio con una strage che ha luogo proprio al bar Vertigo. Ahmed assiste impotente, ma documenta la scena attraverso le sue fotografie -che spera potranno far luce sul crimine una volta inviate alla stampa. Tuttavia le testate giornalistiche non sembrano affatto interessate ad indagare sull'avvenimento...


COSA NE PENSO

Mourad racconta scandali e segreti, facendo accompagnare il suo protagonista da due personaggi comprimari memorabili: il paffuto amico Omar, dalla preziosa conoscenza dei sistemi informatici, e Guda, fotografo più un là con gli anni proprietario di un armadio pieno di rullini dal contenuto scottante.

Dentro di sé, desiderava confonderli, spiazzarli, invertire i ruoli tra lui e loro e insinuare per la prima volta la paura nelle loro vite. Avrebbe voluto farli sentire come si sentiva lui: come chi vive ai margini.
L'Egitto che racconta Mourad ha molto da nascondere: alla luce del giorno la polizia avvicina le coppie di fidanzati che appena si sfiorano sulle panchine, nella notte lascia che nei suoi locali ogni trasgressione sia permessa.
Si tratta di un Egitto che precede le Primavere Arabe del 2011, che precede la rivolta di Piazza Tahrir: i suoi giovani hanno sete di giustizia e di verità, e Mourad dà loro la speranza di poterle conquistare con il loro impegno. Certo, oggi sappiamo che gli sviluppi della rivoluzione non sono stati quelli auspicati...

Guda stava a testa bassa. Non parlava, non gridava, non si difendeva. Come se aspettasse da tempo qualcuno che gli dicesse in faccia la verità: «Sei un bugiardo.» Sapeva di esserlo, così come sapeva di non volerlo sapere. Prima degli altri, ingannava se stesso.
La scrittura di Mourad è ironica e tagliente, spesso capace di far sorridere il lettore
Il giallo è ben costruito, avvincente e originale nel panorama dei thriller contemporanei dominati da serial killer e paesaggi innevati; ve lo consiglio se siete alla ricerca di un'indagine lontana da quelle a cui siamo abituati! 

lunedì 13 luglio 2020

La morte di Murat Idrissi

Mentre leggevo questo romanzo, acquistato principalmente per la potenza del suo titolo e perché come ormai avrete capito leggo spesso storie legate alle migrazioni, ero convinta che l’autore avesse origini marocchine o perlomeno nordafricane. Poi ho scoperto di no, e questo non ha fatto altro che convincermi ancor di più della sua bravura.



Titolo: La morte di Murat Idrissi
Autore: Tommy Wieringa
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: De dood van Murat Idrissi
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Elisabetta Svaluto Moreolo
Pagine: 124



LA STORIA

Durante un’improvvisata vacanza in Marocco, Ilham e Thouraya (due ragazze olandesi di origine marocchine) incontrano un loro conoscente, Saleh, uno di quelli che definiremmo un “trafficone”. È lui a presentare alle ragazze Murat, un giovane berbero che vive in estrema povertà ed è disposto a pagare pur di nascondersi nel loro bagagliaio ed essere portato in Europa. Come tuttavia il titolo ci ha già avvertito, il piano non andrà come previsto…


COSA NE PENSO

“La morte di Murat Idrissi” riesce a narrare due aspetti, e lo fa in modo convincente: una è la forza che spinge a migrare, a rischiare la propria vita per un viaggio che potrebbe avere successo, ma potrebbe anche avere conseguenze tragiche. L’altra è la duplice appartenenza delle seconde generazioni di immigrati in Europa, che non si sentono europei ma nemmeno nel paese di origine dei loro genitori sono considerati degli autoctoni.

Nonostante fossero nel paese dei loro genitori, alloggiassero da parenti e si riconoscessero nella gente del posto, non erano marocchini. Era questo ad accomunarli. L’essere considerati dei turisti. Che pagavano i prezzi dei turisti. Erano figli di due regni, avevano il passaporto verde del Royaume du Maroc e quello color minio del Regno dei Paesi Bassi, ma in entrambi gli stati erano prima di tutto e soprattutto stranieri.
Lo sfondo è il Marocco, quello lontano dalle zone turistiche, quello della sabbia fitta alzata dal vento e delle lunghe strade che attraversano il nulla; il Marocco e poi la Spagna meridionale accompagnano il viaggio on the road di Ilham e di Thouraya, due protagoniste femminili per un’avventura solitamente narrata al maschile o vissuta da folkloristiche famiglie occidentali. Il confine tra le due nazioni, quello Stretto di Gibilterra da attraversare in traghetto, è ciò che divide i mondi a cui le protagoniste appartengono -perché sì, in realtà dentro di loro ci sono entrambe, l’Africa e l’Europa. L’energia della giovinezza però non dà loro il tempo di rendersene conto, di considerare questa duplicità come ricchezza.


Ilham e Thouraya sono due personaggi ben costruiti. Pur essendo amiche non sono una fotocopia l’una dell’altra, anzi in qualche modo si compensano. Ilham tra le due è la “brava ragazza”, quella che ha scelto la strada dell’assimilazione, della formazione e del successo lavorativo per sentirsi riconoscere come olandese a tutti gli effetti. Ha così spostato in secondo piano la propria identità etnica e familiare, e questo la fa sentire fragile, costantemente sul punto di arrendersi ai piani dei suoi genitori.

C’erano giorni in cui non era molto lontana dalla resa – le bastava un cenno d’assenso e la sua vita avrebbe preso forma. Prima ancora di rendersene conto si sarebbe ritrovata con un marocchino-olandese accanto, avrebbe avuto le mani coperte di tatuaggi all’henné e sarebbe diventata un pancione ambulante. E per quanto suo marito avrebbe spergiurato di essere un uomo moderno, non ci sarebbe voluto molto prima che scoppiasse una discussione sull’hijab. Quella sarebbe stata la sua ultima battaglia. Poi avrebbe conosciuto ancora momenti di rabbia e disperazione, ma in generale sarebbe stato meglio così, più tranquillo e senza problemi. Allo stesso modo era andata anche a sua madre e sua nonna, e a tutte le donne prima di loro i cui scheletri erano ormai parte del fondo roccioso del Rif.
Thouraya è la più impulsiva delle due, quella che ha scelto la via della ribellione, della fuga da casa e della realizzazione di se stessa -realizzazione che considera però da un punto di vista prettamente materiale. È Thouraya ad aver improvvisato quel viaggio on the road per il Marocco, per vivere un’avventura; è lei ad accettare in definitiva di nascondere Murat nel bagagliaio, sedotta dal denaro con cui Saleh la inganna. 

È questo che capisci subito quando la guardi, che è fiera di essere una berbera, dura e aspra come le montagne dei suoi antenati. Ma disprezza il padre. Il suo sopportare era quello di un animale che fa ciò che gli viene ordinato e resiste finché non stramazza al suolo.
Wieringa compie una trasformazione nel racconto, e lo fa sul personaggio di Murat. Murat che prima è una persona, un ragazzo magro, dai denti cariati, che sogna di tornare in Europa dopo essere stato rimpatriato dalla Francia. Murat che poi diventa un corpo nel bagagliaio, un corpo martoriato dal tentativo fallito di liberarsi, un corpo che si decompone e che opprime Ilham e Thouraya con il suo odore e la sua presenza, trasformandosi in un loro nemico, in un oggetto del quale liberarsi al più presto. Da morto, Murat assume una consistenza maggiore di quella che ha avuto da vivo: diventa una presenza più ingombrante, diventa il centro dei pensieri di Ilham e Thouraya, che fino a quel momento lo avevano accantonato in un angolo della loro mente. 

Chi lui fosse – un figlio, un fratello, un ragazzo dalle lunghe ciglia e dalle dita sottili – non aveva più alcuna importanza. Ormai era solo un corpo di cui bisognava disfarsi. Un corpo morto che con il suo odore trascinava anche loro per metà nel regno dei morti. Dovevano farlo, dovevano liberarsi di lui perché il suo posto era già là mentre il loro era ancora qui. Era stato l’odore, si rese conto Ilham, che alla fine gliel’aveva reso un estraneo.

Wieringa racconta un aspetto violento e drammatico della migrazione, e per certi versi ricorda il potentissimo “Uomini sotto il sole” di Kanafani. Come Kanafani, che raccontava l’esodo verso il Qatar di un gruppo di migranti palestinesi dall’ottica dell’autotrasportatore che li nascondeva nella cisterna del suo mezzo, anche Wieringa lo fa da un punto di vista insolito: non è dagli occhi di Murat che viviamo la sua asfissia, la sua disperata ricerca di ossigeno in quel bagagliaio, ma dallo sguardo sconvolto di Ilham e di Thouraya che prendono coscienza delle conseguenze del loro superficiale aver ceduto a Saleh -Ilham e Thouraya, che prima di allora non avevano preso in considerazione cosa avrebbe potuto andare storto in quel piano messo in piedi tanto in fretta.

Non ci sono colpi di scena ne “La morte di Murat Idrissi”: avrebbero potuto esserci, ma Wieringa ci rende chiaro sin dal titolo che non è il “cosa” che dovremo scoprire, ma sarà il “come” ad esserci raccontato. Questa singolare scelta è, a lettura conclusa, uno degli aspetti più convincenti del romanzo intero: leggiamo della migrazione senza mai nutrire false speranze, guardando in faccia la più cruda realtà, quella di tanti viaggi che sono andati storti e non hanno avuto alcun lieto fine a concluderli, nessuna umanità nemmeno nella morte
Per questo, e per lo stile di Wieringa che è asciutto e privo di orpelli, vi consiglio assolutamente la lettura di questo romanzo: vi richiederà poco più di un’ora, e sarà memorabile

Io non mi chiamo Miriam

Sullo sterminio nazista nel corso del secondo conflitto mondiale sono stati scritti molti libri, ma di solito si tratta di opere biografiche o di saggistica. Credo che questo sia il primo romanzo di finzione sull'Olocausto che io abbia mai letto: e si tratta di un'opera coraggiosa, di altissima qualità.



Titolo: Io non mi chiamo Miriam
Autrice: Majgull Axelsson
Anno della prima edizione: 2016
Titolo originale: Jag heter inte Miriam
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Laura Cangemi
Pagine: 576



LA STORIA

In una tranquilla località della Svezia, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno Miriam riceve dal suo amatissimo figlio Thomas e dalla nipote Camilla un bracciale d’argento con inciso il suo nome. La reazione della donna lascia però i familiari senza parole: “Io non mi chiamo Miriam”, afferma.
Il passato di Miriam infatti (il cui vero nome era Malika) è un completo mistero per tutti coloro che la circondano; è un segreto che la donna si è portata dentro, ben nascosto, da quando si trovava ancora nel campo di concentramento di Auschwitz dove era stata deportata perché appartenente ad una famiglia rom tedesca.
Scambiata poi la sua uniforme troppo consumata con quella di una prigioniera ebrea ormai deceduta, dopo aver perso tutti i suoi familiari (compreso l’adorato fratellino Didi), Malika diventa per tutti Miriam. Una cicatrice maschera la Z del tatuaggio sul suo braccio, e la sua nuova identità di sopravvissuta di religione ebraica sostituisce quella vecchia nella nuova vita che Miriam si costruisce in Svezia, ospite di Hannah, una donna fredda ma generosa che le insegnerà come inserirsi in una società pacifica e ricominciare.
Anche se Auschwitz, Bergen Belsen e soprattutto il volto di Didi non la abbandoneranno mai, e non se ne andranno mai dai suoi incubi… 




COSA NE PENSO

Miriam è una donna spezzata, una donna la cui vita è stata scandita dai traumi. Una deportazione quando era giovanissima, le tremende condizioni di vita nei campi di concentramento, l’assistere alla morte di Didi (vittima del sadismo del nazista Mengele) sono aspetti che le sono entrati in profondità, lasciando tracce impossibili da cancellare
Vede che anche altri bambini oppongono resistenza, che Raul addenta il guanto di una signora e ottiene in risposta uno schiaffo, che Anuscha cerca di liberarsi a calci con scarsi risultati e che Didi è in braccio a una donna in uniforme e tende disperato le braccia alla Miriam che si chiama ancora Malika. Sa che per amor suo deve ricomporsi e smettere di strillare ma non ci riesce, perché nello stesso tempo sa che niente tornerà più come prima, che l'ultimo secondo della vita che ha vissuto è arrivato e trascorso. E poi sa che il nonno si è sbagliato, ma non glielo direbbe mai, né a lui né a suo padre né a Didi e nemmeno a se stessa.
Nella sua vita in Svezia, Miriam ha sempre fatto attenzione a non farsi notare, a non contravvenire alle regole, ad inserirsi al meglio. Ha cresciuto Thomas, rimasto orfano di madre appena neonato, e poi ne ha sposato il padre: un uomo con il quale ha condiviso l’esistenza senza mai un litigio, e senza mai rivelargli chi fosse davvero.
Olof fa il dentista e nessun dentista di Nässjö guadagna quanto lui, e lei è sul suo bel divano Carl Malmsten a lavorare a maglia quando d'un tratto scompare tutto. La gonna scozzese diventa un vestito a righe da prigioniera, le calze svaniscono e le scarpe scivolano via nel nulla, il parquet sotto i suoi piedi è di colpo cemento grezzo e non resta altro che il grigio crepuscolo invernale fuori dalla finestra e la neve che cade, e per un breve istante è di nuovo a Ravensbrück ed Else fissa il vuoto con gli occhi sbarrati per la febbre e Miriam grida, grida e sente se stessa gridare e si tappa la bocca con le mani per costringersi a tacere.
Miriam è una moglie per Olof, è una madre per Thomas: la maternità emerge spesso in questo romanzo ma non è una maternità biologica, è un istinto materno che si mostra nei più diversi contesti. Sono madri per Miriam Else nel lager, Hannah che in Svezia le insegna come comportarsi; lei lo è per Thomas una volta rimasto orfano, ma fino a quando sarà un uomo adulto neanche lui avrà accesso al segreto di sua madre.
Il segreto è infatti ciò che contraddistingue la vita di Miriam, che le ha fatto nascondere la propria vera identità: nella civile e pacifica Svezia i tattare (un gruppo nomade simile ai rom) vengono spesso maltrattati; con ogni probabilità essere la vera se stessa non le avrebbe reso possibile una vita soddisfacente quanto quella che ha in quanto Miriam, e lei ne è consapevole. Miriam ha scelto di mantenere il suo segreto, ha scelto di vivere
Per un secondo aveva desiderato di poter tornare indietro nel tempo e sussurrare al suo io prigioniero che quel giorno sarebbe arrivato. Un giorno in cui non avrebbe avuto fame, né nausea né mal di testa e al momento di svegliarsi non si sarebbe sentita stanca da morire, un giorno in cui avrebbe aperto gli occhi in una stanza con le rose gialle alle pareti e un pechinese morbido accanto, un giorno in cui avrebbe saputo che in cucina c'erano pane e marmellata e formaggio e uova e che nessuno, non una sola persona, le avrebbe impedito di mangiare. Poi si era trattenuta. Non voleva pensare al suo io prigioniero.
La storia di Miriam e della sua sopravvivenza ruotano attorno al dramma dell'Olocausto: l'autrice sceglie in particolare due elementi sui quali focalizza l'attenzione del lettore. Il primo è lo sterminio sistematico dei rom e la loro rivolta ad Auschwitz, una delle poche che ci siano mai state in un campo di concentramento, che attraverso la resistenza passiva fu in grado di vincere per un giorno sulle SS: un episodio raccontato molto di rado, che meriterebbe di far parte della memoria collettiva e di essere celebrato. Il secondo elemento è l'orrore degli esperimenti di Mengele, crudele e sadico, subdolo al punto da essere chiamato dai bambini rom del lager "il dottore delle caramelle" -il solo soprannome fa accapponare la pelle. Le brutalità messe in pratica da quest'uomo non meritano secondo l'autrice alcun perdono, e devono essere ricordate.

"Io non mi chiamo Miriam" non è però soltanto un romanzo sull'Olocausto, ma anche un romanzo sull'identità e su ciò che significa vivere un'intera esistenza nei panni di qualcun altro, con un segreto impossibile da rivelare finché non si arriva al punto di rottura - nella fattispecie al bracciale ricevuto in dono, a ricordarle la gabbia dorata di menzogne nella quale ha vissuto.
A quel punto sceglie di fidarsi, Miriam, o forse non ha più alternative, ha bisogno di riappropriarsi di ciò che è stata e si fida di Camilla, la sua giovane, indipendente nipote. Tra nonni e nipoti è più facile trovare un terreno comune di quanto non lo sia trovarlo tra figli e genitori, ed infatti attraverso il doloroso racconto condiviso con Camilla Miriam e Malika si fondono in un'unica donna, custode di tante esperienze e tanti dolori, finalmente in pace con se stessa senza alcun segreto da nascondere.
«Guarda, lo so che tu e la tua generazione ritenete molto utile che si parli di tutto, ma per noi non era così. Abbiamo imparato a dimenticare. Lo dicevano tutti, allora: dimentica e guarda avanti! Non stare a rimuginare sul passato…» S'interrompe e s'incurva leggermente, ma appena se ne accorge raddrizza le spalle. «E poi non c'era nessuno che fosse così interessato ad ascoltare quello che avevamo da raccontare. La gente non voleva sentire e basta.»
"Io non mi chiamo Miriam" è un romanzo di rara intensità, che emoziona, indigna, commuove; impossibile non identificarsi con una coraggiosa ragazzina che resiste a tutto, che trova in se stessa una forza inimmaginabile. Questo romanzo è un'originale opera di finzione su un tema completamente vero, ed è un modo non banale per parlarne, del tutto rispettoso dei suoi superstiti e opera di una scrittrice dall'enorme talento
Ho terminato questa lettura mesi fa, e ancora oggi ne conservo un ricordo estremamente vivido; mi ha colpita come non mi sarei aspettata, e di certo si tratta di una delle letture migliori affrontate negli ultimi anni. Cosa aspettate a procurarvene subito una copia?

lunedì 6 luglio 2020

Lessico famigliare

In materia di classici, antichi e moderni, sono molto ignorante. Più facile per me è farmi incuriosire da un romanzo uscito da poco, di cui si parla tanto o che si vede spesso in giro; tuttavia vorrei davvero colmare questa lacuna e variare il mio genere di letture. In questo caso ci sono riuscita, anche se si tratta di un libro che avevo già iniziato diverse volte, senza mai riuscire a terminarlo…




Titolo: Lessico famigliare
Autrice: Natalia Ginzburg
Anno della prima edizione: 1963
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 222




Difficile definire “Lessico famigliare”: Natalia Ginzburg lo definì un romanzo, pur raccontando la sua famiglia e i suoi amici e conoscenti; non è certamente un diario, essendo quasi completamente privo di riferimenti temporali, e non è un’autobiografia, dal momento che è proprio Natalia quella a rimanere più in secondo piano
L’ultimo romanzo che ho scritto è tutto vero. È però un romanzo, perché vi manca l’obbiettività d’una cronaca, e perché non mi sono proposta, scrivendo, di dare un quadro obbiettivo e fedele della realtà, ma semplicemente di far rivivere la realtà a modo mio e come io volevo.

Chi spicca di più sono certamente i genitori: Lidia e Beppino, solare lei quanto autoritario (ma spesso inascoltato) lui, alla testa del clan di figli ognuno con le proprie inclinazioni, le proprie amicizie e soprattutto le loro parole: quei sempiezzi, sbrodeghezzi, quelle robine, quei termini che creano un codice privato, una forma di riconoscimento e di condivisione. 

Lidia Tanzi e Giuseppe Levi
Più che parlare dei legami Natalia ritrae i suoi familiari come se fossero i suoi personaggi, ne rievoca i momenti più importanti, le carriere universitarie, i matrimoni -degno di nota quello della sorella Paola con l’imprenditore Adriano Olivetti, descritto con grande dolcezza tra queste pagine.
Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era cosí familiare, che conoscevo dall’infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto; e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa e paziente. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno.
Adriano Olivetti e Paola Levi
C’è ben poco ebraismo in “Lessico famigliare”, nonostante Natalia sia nata Levi; è un ebraismo secolarizzato, a cui di rado si fa riferimento, se non per qualche commento ironico sulle differenze esteriori tra ashkenaziti e sefarditi, o quando il fascismo fa sentire sempre di più la propria presenza. 
Padre e fratelli Levi vengono infatti arrestati numerose volte per la loro opposizione al regime, così come coloro che gravitano attorno alla famiglia (primo fra tutti Leone Ginzburg, primo marito di Natalia), mentre la guerra sembra ancora una realtà lontana, priva di conseguenze irreversibili.
Ma poi la guerra arriva e Natalia la descrive in poche righe, perché poco spazio è lasciato ai dolori in “Lessico famigliare”: poche righe occupa la morte di Leone Ginzburg, torturato dai fascisti, poche righe i bombardamenti che distruggono l’Italia, e in un numero così limitato di parole trapela un’efficacia rara.
La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l’era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c’era piú uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c’era. In Italia fu cosí la guerra.
Poche righe sono dedicate anche al suicidio di Pavese. Pavese, amico della famiglia Levi, ha condiviso con loro numerose serate torinesi e fa capolino tra queste pagine in paragrafi colmi di dolcezza, in cui traspare un personaggio ironico, poco interessato alla politica, facile alle delusioni d’amore, che ama le ciliegie: questi brevi, fugaci ritratti dello scrittore sono stati i miei brani preferiti dell’intero libro della Ginzburg, perché mi sono sembrati quasi degli scatti rubati in cui intravedere l’uomo dietro l’autore
Continuò tuttavia ad avere paura della guerra, anche dopo che la guerra era da gran tempo finita: come, del resto, noi tutti. Perché questo ci accadde, che appena finita la guerra ricominciammo subito ad aver paura di una nuova guerra, e a pensarci sempre. E lui temeva una nuova guerra piú di tutti noi. E in lui la paura era piú grande che in noi: era in lui, la paura, il vortice dell’imprevisto e dell’inconoscibile, che sembrava orrendo alla lucidità del suo pensiero; acque buie, vorticose e venefiche sulle rive spoglie della sua vita.

Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Augusto Frassinelli (1932)
Impossibile ridurre la lettura di un testo così importante per la letteratura italiana ad un giudizio personale, specialmente parte di chi come me legge per piacere e non per mestiere -quindi con limitatissime capacità critiche. 
"Lessico famigliare" vinse il Premio Strega nel 1963 e riscosse un immenso successo; oggi è considerato un classico della letteratura italiana del Novecento, un libro capace di raccontare un'epoca attraverso la storia di una famiglia. Spesso viene consigliato come lettura scolastica: personalmente credo che pochi adolescenti possano apprezzarlo (io per esempio non ne ero affatto stata capace) e che sarebbe meglio leggerlo da adulti, quando i nomi di Turati, dei fratelli Rosselli, di Pavese per dirne qualcuno avranno acquisito un significato. 
Non l'ho trovata una lettura semplice, ma quando l'ho conclusa mi sono sentita arricchita e soddisfatta per averla portata a termine; vi consiglio di fare lo stesso quando vi sentirete pronti a farlo, di certo arriverà il momento giusto!