lunedì 30 novembre 2020

Le ricette della signora Tokue

Tempo fa sono stata attratta dalla locandina di un film sulla piattaforma di Amazon: fiori di ciliegio, personaggi assorti in un panorama giapponese che non mi è familiare ma di certo è suggestivo. È così che ho guardato “Le ricette della signora Toku”, che ho scoperto essere tratto da un romanzo al quale poi non ho certo potuto resistere!


Titolo: Le ricette della signora Tokue
Autore: Durian Sukegawa
Anno della prima edizione: 2013
Titolo originale: An
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Laura Testaverde
Pagine: 173


LA STORIA

Sentaro lavora in un negozio che vende dorayaki per ripagare un debito contratto anni prima, una volta uscito di prigione. Non ama il proprio mestiere, che vive anzi come un’imposizione ed esercita controvoglia; non è certo un uomo soddisfatto, Sentaro, ma tutto cambierà il giorno in cui l’anziana signora Tokue metterà piede nel suo esercizio commerciale e si proporrà come aiutante. E da scoprire sulla signora Tokue c’è molto di più della ricetta per il suo straordinario an


COSA NE PENSO

“Le ricette della signora Tokue” è un libro di quelli che fanno bene all’anima. Innanzitutto perché la sua protagonista femminile è una grande fonte di ispirazione: nonostante un passato di reclusione, Tokue è in armonia con gli elementi naturali e con il mondo, sa apprezzare le sfumature delle stagioni, le foglie in boccio, l’apparire della luna, il canto dei canarini.

Secondo me si può prestare ascolto a tutto, ai passanti sulla strada, ovviamente, ma anche a tutti gli esseri viventi, e persino ai raggi del sole e al vento. Forse per lei ero solo una vecchia chiacchierona ma, malgrado tutte le mie parole, mi è rimasto il rimpianto di non essere riuscita a trasmetterle l’essenziale.

Tokue porta con sé un passato di cui non sapevo nulla: il morbo di Hansen in Giappone (comunemente noto come lebbra) che dai primi decenni del Novecento costrinse centinaia di persone all’isolamento forzato all’interno di sanatori da cui non sarebbero usciti fino agli anni Ottanta, all’abolizione della legge. In questi luoghi le persone dovettero inventarsi una nuova vita, fare del proprio meglio per lottare al tempo stesso contro la malattia e contro l’ostracismo da parte della società, famiglie comprese. Questo risvolto storico arricchisce il romanzo rendendolo più stratificato, ma senza togliere nulla alla sua delicatezza.

Per sopravvivere dovevamo unire le forze: non avevamo scelta. La ragazza che quando aveva contratto la malattia faceva la geisha cuciva a mano i kimono e dava lezioni di poesia e canto. Gli ex insegnanti organizzavano dei corsi per i bambini. Le ex parrucchiere tagliavano i capelli. Ecco come abbiamo tentato di vivere tutti insieme. Avevamo un circolo di cucito in stile occidentale e un altro in stile giapponese, uno di giardinaggio e anche una brigata dei pompieri.


“Le ricette della signora Tokue” è un romanzo ricco di colori e di sapori: il glossario è fondamentale per orientarci tra la vasta gamma di dolci che la signora Tokue sa preparare, e che ho spesso cercato online gustandoli con gli occhi. Li accompagnano i petali di ciliegio, gli alberi in fiore che fanno da contorno ai passi di Tokue e di Sentaro, e da sfondo alle riflessioni di lei nel parco che circonda la sua residenza. I paesaggi del Giappone e la sua cucina sono l’elemento che più fa viaggiare il lettore, che lo trasporta in un altro continente seguendo i dialoghi tra i protagonisti ed immaginando i contesti dove si trovano.

Se non avesse raccolto il testimone di Tokue al piú presto, tutta quella sapienza in materia di pasticceria sarebbe scomparsa da questo mondo. E quella sapienza era anche la testimonianza del passaggio sulla terra di una donna chiamata Yoshii Tokue.


Dal romanzo di Sukegawa, breve ma decisamente intenso, abbiamo tutti da imparare. Non solo Sentaro, che ha molte delusioni da cui riprendersi e molto da perdonare a se stesso, ma anche tutti coloro che impareranno a conoscere la signora Tokue e potranno ispirarsi ai suoi preziosi consigli. Perché non è mai tardi per realizzare i desideri di una vita, per fare pace col passato e vivere finalmente l’esistenza che ci meritiamo. 

Fa bene a restare all’ascolto, magari non sente ancora niente, ma la prego, non si arrenda, continui a impegnarsi. Perché io credo che qualsiasi siano i nostri sogni, prima o poi troveremo per forza ciò che cerchiamo, grazie alla voce che ci guida. La vita di un essere umano non è mai uniforme: ci sono momenti in cui il colore cambia di colpo.


“Le ricette della signora Tokue”, vi dicevo, è un libro che fa bene. Uno di quelli al termine del quale, voltata l’ultima pagina, ci sentiamo arricchiti e rigenerati, in pace con l’universo e con noi stessi. È dunque un libro che vi consiglio di cuore (abbinato, se volete, alla visione del film), soprattutto se vi trovate in un momento di difficoltà: potrebbe essere davvero quello che ci vuole per superare un ostacolo

lunedì 23 novembre 2020

L'usignolo dei Linke

Di Helga Schneider ho letto, negli anni, diversi libri: tra romanzi e testi autobiografici (di “Lasciami andare, madre” avevo scritto qui), l’autrice tedesca naturalizzata italiana non mi ha mai delusa, e così ho acquistato a scatola chiusa questo titolo che fa parte della produzione volta a narrare la vita della scrittrice.




Titolo: L'usignolo dei Linke
Autrice: Helga Schneider
Anno della prima edizione: 2004
Casa editrice: Adelphi
Pagine: 154





LA STORIA

Kurt Linke ha tredici anni nel 1949, quando sulle rive del lago di Attersee, in Austria, trascorre l’estate con Helga, suo fratello Peter e gli amatissimi nonni della ragazzina, all’epoca dodicenne. Kurt è taciturno, scontroso, pieno di incubi e di fantasmi che tornano a perseguitarlo: insieme alla mamma Ludwika infatti è scampato all’avanzata dell’armata sovietica nei territori prussiani dell’Europa dell’Est, dove in una spietata vendetta contro il nazismo tanti innocenti hanno perso la vita. 


COSA NE PENSO

Della pagina di storia che Helga Schneider racconta attraverso la biografia di Kurt non sapevo nulla: i territori dell’Europa dell’Est dove tanti cittadini tedeschi si erano trasferiti con l’espansione nazista vennero riconquistati dall’Armata Rossa negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, e i soldati sovietici non ebbero pietà per nessuno, accecati dall’odio per ciò che i nazisti avevano fatto subire loro. 
Nella loro avanzata verso occidente, i soldati sovietici avevano attraversato città e villaggi distrutti, avevano visto forche innalzate dai tedeschi e le fosse comuni di russi uccisi dai tedeschi. Avevano incontrato, in Polonia, i primi campi di sterminio. Avevano visto centinaia di migliaia di compagni cadere in battaglia, spesso così giovani da poter essere considerati ancora dei ragazzi. E avevano sentito storie raccapriccianti di vecchi inermi torturati a morte, di bambini prima terrorizzati e poi costretti a prendere le armi, e di un numero spaventoso di donne e ragazzine violentate. Per anni era stato inculcato in loro l'odio per tutto quanto fosse tedesco. Ai loro occhi i tedeschi non erano creature umane, ma solo bestie meritevoli di essere abbattute.
Kurt Linke è uno di quei bambini prussiani nel gennaio del 1945, quando lui, il suo amatissimo nonno, la mamma e il fratellino Nikolas di pochi mesi si mettono in viaggio con una carovana di profughi a bordo di carri trainati dai cavalli, costretti ad abbandonare le loro case, le fattorie, gli animali. La destinazione sono le coste del Baltico da cui si imbarcheranno per la Germania, ma arrivarci è tutt’altro che semplice a causa dei freddi gelidi, degli attacchi da parte dei soldati, delle malattie e delle provviste che scarseggiano. 
Centinaia di migliaia di tedeschi delle regioni orientali non morivano infatti esclusivamente per i massacri dell'Armata Rossa, ma anche perché i generali dell'esercito tedesco eseguivano rigorosamente ogni ordine del Führer. Non solo la popolazione civile non venne evacuata a tempo debito, ma alle colonne dei profughi furono sbarrate le strade principali per mandarle su quelle laterali spesso sterrate, dissestate e impraticabili. E la Wehrmacht non si limitò a riservare a usi militari solo le strade asfaltate. Sequestrò anche le ferrovie.

La mamma di Kurt è fragile, terrorizzata; il nonno è un uomo dal carattere forte, amorevole e determinato, ma anziano; e il piccolo Nikolas come potrà sopravvivere a simili condizioni? Per Kurt Linke quella migrazione forzata è un trauma indelebile, che lo espone a perdite e dolori insostenibili per un bambino di soli nove anni costretto a crescere all’improvviso.
"Non ho fame" risponde brusco il ragazzo. [...] "Piuttosto, Nikolas ha preso il latte?". "Tre volte" mente la donna. "Bene" fa Kurt. Sapendo che lei mente. 
Helga e Kurt, nell’estate del 1949, faticano a legare a causa di quel trauma: ma poi, in seguito all’ennesima lite, Kurt finalmente scoperchia il vaso di Pandora dei suoi incubi e racconta ad Helga l’esperienza che lei una volta adulta riporterà in questo libro. “L’usignolo dei Linke” così è un testo dolorosissimo, nel corso del quale è impossibile per il lettore non immedesimarsi in Kurt e nelle sue indicibili sofferenze di bambino, che ci frantumano il cuore in minuscoli pezzettini.
A Kurt rimarrà per sempre impressa nella memoria quella pietra miliare imbiancata a calce che era servita da lapide a nonno Linke. "Dobbiamo andare" sussurra la madre. Kurt trasale, posa un ultimo bacio sulla fronte del nonno, si rialza di scatto e, guardando la madre con un'espressione dura che lei non gli ha mai visto, afferma seccamente: "Dio non esiste, mamma. Altrimenti non ci avrebbe tolto il nonno. Dio non ascolta le nostre preghiere. Non ne dirò mai più una per il resto della mia vita". E si avvia verso il carro senza più voltarsi indietro. 

“L’usignolo dei Linke” è una lettura intensa ed emotivamente impegnativa, che non vi consiglio se state attraversando un periodo difficile delle vostre vite. Se però siete interessati ad una pagina di storia del Novecento che non ci raccontano spesso, questo libro è un ottimo modo per venirne a conoscenza, ed è anche uno di quei titoli che mi sento di suggerirvi se state cercando una lettura che sappia toccarvi in profondità

lunedì 16 novembre 2020

Vengo a prenderti

Non mi accade quasi mai di attendere il giorno d’uscita di un romanzo per precipitarmi in libreria ad acquistarlo in quella stessa data: l’ultimo ricordo che conservavo di un simile evento si riferiva all’epoca Harry Potter, in cui i sette volumi della saga non erano ancora stati pubblicati e l’arrivo in libreria di un nuovo capitolo si trasformava in un evento. 

Con l’atipica trilogia di Paola Barbato mi è capitato lo stesso.




Titolo: Vengo a prenderti
Autrice: Paola Barbato
Anno della prima edizione: 2020
Casa editrice: Piemme
Pagine: 464



Premessa necessaria: io ho letto, tra i precedenti volumi, per primo “Zoo” che in ordine cronologico sarebbe il secondo. In realtà questi libri non hanno un ordine obbligatorio in cui essere letti, e ci sono lettori che hanno deciso addirittura di cominciare con l’ultimo -soluzione che però non vi sento di consigliarvi se volete godervi il mistero, ancora molto fitto negli altri due romanzi.

Difficile scrivere di “Vengo a prenderti” evitando di rovinare la lettura a chi ancora non l’abbia affrontata. I personaggi di “Io so chi sei” e di “Zooritornano, e la matassa viene finalmente sbrogliata, ogni tassello va al suo posto: scopriamo cosa si celava dietro ai ricatti via sms che riceveva Lena, scopriamo chi e perché ha rinchiuso i prigionieri nelle gabbie del capannone, chi è responsabile dei delitti dei quali siamo già stati spettatori.


Non si riduce però tutto a una soluzione, perché un nuovo mistero si presenta all’interno di “Vengo a prenderti”: i superstiti infatti che avevamo visto liberare da Caparzo alla fine di “Zoo” si ritrovano ad essere vittime di nuovi delitti, il cui colpevole è tutt’altro che scontato.

La grande forza di “Vengo a prendermi”, oltre ai colpi di scena che per me sono perfettamente riusciti, è la caratterizzazione dei personaggi. Uno a uno li vediamo formarsi davanti ai nostri occhi, quelli che erano figure prigioniere all’interno di un carrozzone diventano persone con un passato, lo stesso passato che li ha resi prede candidate alla prigionia. Il ritratto che Paola Barbato fa in particolare di Alessandra, del Rosso e di Giulio è sfaccettato e completo, e arricchisce quanto avevamo imparato a conoscere “Zoo” di sfumature insospettabili. Ci sono poi le protagoniste di “Io so chi sei” e di “Zoo”, Lena e Anna, che trovano la loro conclusione: ancora debole e manipolabile Lena, astiosa e vendicativa Anna, accomunate dal loro legame con Saverio -che ve lo confesso, non fa parte dei miei personaggi preferiti. 


Il posto nel mio cuore continua a tenerselo stretto Francesco Caparzo, che di certo non è un poliziotto integerrimo, anzi è uno di quei membri delle forze dell’ordine che si spera di non incontrare mai nella vita. Tuttavia è un uomo che non dice bugie, un personaggio trasparente, uno di quei cattivi che alla fine segni nella colonna dei buoni -così come la mente dietro a “Zoo”, di cui preferisco non specificare l’identità per non rovinare la sorpresa a qualcuno che passi di qui inavvertitamente! 

In conclusione posso affermare di aver trovato "Vengo a prenderti" la perfetta chiusura della storia iniziata con la sparizione di Saverio da un lato, e con il sequestro di Anna dall'altro. Paola Barbato riesce a tirare tutti i fili rimasti liberi nei due romanzi precedenti e ricostruisce dinamiche sulle quali i lettori si erano scervellati senza trovare una risposta convincente; rispetto a "Zoo", la tensione in "Vengo a prenderti" è minore, ma l'attenzione non subisce mai alcun calo. Ora che ho terminato la trilogia dunque non posso fare altro che consigliarvela, se siete amanti del genere thriller! Per la mia esperienza vi suggerisco però di tenervi questo volume per ultimo, mentre tra gli altri due fatevi ispirare da quello che vi sta chiamando a voce più alta! 

mercoledì 11 novembre 2020

Residenza Arcadia

Negli ultimi mesi, grazie ad un'interessante iniziativa in edicola ho acquistato diversi fumetti italiani che mi interessavano da tempo: alcuni di essi si sono rivelati delle letture davvero memorabili!



Titolo: Residenza Arcadia
Autore: Daniel Cuello
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Bao Publishing
Pagine: 176



Questo fumetto inizia come il racconto di una serie di inquilini che abitano un palazzo denominato Residenza Arcadia, e sono persone insoddisfatte, persone pronte a criticare il prossimo, a litigare per ogni minima sciocchezza, persone che non hanno nessuna intenzione di farsi favori a vicenda. sono quindi i vicini che tutti non vorremmo: i vicini che si spiano, i vicini che sparlano degli altri dietro le loro spalle e sono tutt'altro che solidali.


Gli abitanti di Residenza Arcadia sono tutti anziani: un uomo che si diletta a fotografare con il cellulare, una signora estremamente sola che parla con il suo canarino, signore con una casa fatiscente che ha bisogno di molte riparazioni e che riceve dei misteriosi chicchi di riso per posta.

Dietro tutto questo però c’è un misterioso partito, l’unico partito ammesso, che controlla la nazione, organizza parate, recluta i giovani per la leva e non ammette critiche, non ammette diserzioni. L’unico giovane che compare in "Residenza Arcadia" è Ettore, il nipote dell’appassionato di fotografia e di sua moglie, una donna estremamente attenta alle apparenze. Ettore è stato reclutato proprio per il servizio militare, ma non ha alcun desiderio di servire la propria nazione ed è molto spaventato e insofferente davanti a questa ipotesi.

A Residenza Arcadia ci sono anche dei responsabili del condominio, evidentemente incaricati proprio dal partito, che controllano l’assegnazione degli appartamenti: un giorno uno di questi appartamenti viene assegnato ad una giovane coppia con una bambina. Questi però hanno una provenienza diversa da quella degli anziani abitanti del palazzo, che quindi non li vogliono: sin dal primo momento, prima ancora che i tre si trasferiscano, gli anziani sono concordi sul fatto che non debbano traslocare nella loro proprietà. Così, in un’escalation di tensione, quelle che inizialmente sembravano vignette umoristiche, satiriche sul comportamento di questo vicinato e sulle fotografie fatte di nascosto, sui mobili da spostare in realtà, via via si trasformano: ci rendiamo conto che un’ombra si allunga su Residenza Arcadia, l’ombra del partito, della dittatura che è pronta a ripetere gli stessi atti terribili che ha già compiuto nel passato e dei quali è stata vittima proprio una delle inquiline di Residenza Arcadia.


Il fumetto di Cuello mi ha veramente sorpreso: mi aspettavo una lettura divertente, una lettura alla Zerocalcare, qualcosa che dipingesse la società odierna in toni ironici; in realtà mi sono trovata davanti qualcosa di completamente diverso.

Per quanto riguarda l'aspetto grafico i toni sono principalmente quelli del seppia e i colori sono molto adatti per quello che viene raccontato. Ci sono alcuni elementi d’ombra che compaiono a rappresentare il partito, ed anche i flashback sono inseriti in pagine a fondo nero; i tocchi di colore sono dovuti più che altro a degli indumenti o ai capelli di alcuni personaggi. L’aspetto che non mi ha soddisfatta moltissimo è proprio il viso di questi personaggi, che non corrisponde propriamente al mio gusto ma è comunque senza dubbio godibile e apprezzabile.

Nell’introduzione a questa edizione si racconta della provenienza di Cuello dall’Argentina, paese il cui passato politico può certamente aver influito su quanto l’autore racconta. Nonostante Residenza Arcadia non sia contestualizzata nel luogo e nel tempo, nel fumetto troviamo un racconto della dittatura assolutamente convincente: troviamo il racconto di come coloro che ci circondano possono denunciarci, rovinarci l’esistenza solo perché non siamo conformi al loro gusto, solo perché siamo percepiti come diversi.

Residenza Arcadia è piuttosto breve (il volume conta infatti meno di 200 pagine) ma riesce ad essere una storia veramente avvincente, che cresce nel ritmo e nel contenuto man mano che le pagine passano. Ci sono al suo interno alcuni elementi poetici degni di nota, che ci vengono regalati dai personaggi più insospettabili: ce li regalano infatti il nipote ribelle e gli animali -il primo canarino, che fa una brutta fine nonostante il sincero amore che la sua proprietaria prova per lui, e poi un piccolo cane che abbaia continuamente e che continua a tentare la fuga, al quale è regalata una conclusione decisamente più lieta. Questo cane fuggitivo e questo canarino in gabbia sono una convincente metafora di Residenza Arcadia, dei suoi abitanti presenti e passati.

In conclusione devo ammettere che non mi aspettavo che "Residenza Arcadia" mi sarebbe piaciuto così tanto ed invece è un fumetto che mi ha veramente colpito, ed entra di diritto tra i migliori che io abbia letto negli ultimi mesi. Non posso fare altro che consigliarvi di leggerlo al più presto! 

lunedì 9 novembre 2020

Il miglio verde

Il primo Stephen King che abbia mai letto aveva Tom Hanks sulla copertina: erano i primi anni duemila, andavo alle medie, odiavo tutto e tutti se non i miei libri e cominciavo ad apprezzare i film. Sull’onda della visione di “Philadelphia” una sera in TV, durante un viaggio verso una meta che, inutile dirlo, detestavo, in una noiosissima sosta in autogrill i miei genitori si lasciarono convincere e mi comprarono “Il miglio verde”. Avevo dodici anni, e probabilmente le spalle più larghe di adesso.



Titolo: Il miglio verde
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1996
Titolo originale: The Green Mile
Casa editrice: Sperling&Kupfer
Traduttore: Tullio Dobner
Pagine: 552




LA STORIA

Paul Edgecombe è ormai anziano e risiede in una casa di riposo quando decide di mettere su carta i suoi ricordi risalenti al 1932. All’epoca, nel pieno della Grande Depressione, Paul lavorava nel penitenziario di Cold Mountain, in particolare nel cosiddetto “miglio verde” per via del colore del linoleum a terra: vale a dire, nel braccio della morte. È qui che Paul conobbe John Coffey, mastodontico detenuto afroamericano, un uomo che lo cambiò per sempre e che Paul non ha mai dimenticato…


COSA NE PENSO

Nell’introduzione al romanzo (che nel 1996 fu pubblicato suddiviso in sei episodi, fattore al quale dobbiamo la sorta di riassunto con il quale comincia ogni capitolo a partire dal secondo) King spiega che inizialmente la storia che aveva concepito nel corso delle sue notti insonni vedeva protagonista un detenuto nero e gigantesco che si appassionava all’illusionismo. Pensò poi di affiancare a questo primo Coffey un topolino (chi non si è innamorato del Signor Jigles, durante la lettura?) ed infine lo trasformò da illusionista a guaritore: ed eccoci al romanzo che oggi possiamo leggere, lasciando che ci spezzi il cuore.

"Quello è Steamboat Willy, come quello del filmino. E stato il capo Howell a chiamarlo così." "E il signor Jingles", insisté Delacroix. Su qualunque altro argomento ti avrebbe detto che il nero è bianco, se glielo avessi imposto, ma sul nome del topo fu irremovibile. "Me l'ha bisbigliato nell'orecchio. Capitano, potrei avere una scatola dove tenerlo? Potrei avere una scatola per il mio topo, così può dormire qui con me?"


Ne “Il miglio verde” c’è molto, e da adolescente non avevo saputo coglierlo: c’è la Grande Depressione con la conseguente paura di perdere il lavoro, anche quando il peso emotivo del braccio della morte si fa insostenibile; c’è il razzismo degli stati del Sud dove la vita di un nero non vale granché, e sono proprio gli afroamericani le vittime più frequenti di Old Sparky, la sedia elettrica.

Ci saranno quelli che non capiranno come mai, nemmeno dopo tutto quanto ho raccontato, ma saranno senz'altro quelle persone che hanno letto l'espressione "Grande Depressione" solo nei libri di storia. Per chi c'era, non era una definizione e basta, chi c'era e aveva un posto fisso, amici, era disposto a tutto pur di conservarselo.

Nonostante i ricordi di Paul risalgano agli anni ‘30 del Novecento, “Il miglio verde” parla ancora al presente, attraverso i temi della discriminazione razziale e della pena di morte, condanna ancora in vigore in diversi stati degli USA.

Me la caverò, non sono assassini, doveva aver pensato. E subito dopo, chissà, ricordando Old Sparky, poteva aver riflettuto che invece lo eravamo. Io ne ho giustiziati settantasette, più di quanti ne abbiano singolarmente uccisi quelli a cui ho stretto la cinghia sulla sedia, più di quanti siano stati accreditati al sergente York nella prima guerra mondiale.


Ma oltre ai temi di rilevanza storica e politica, ne “Il miglio verde” emerge prepotentemente la capacità di King di caratterizzare personaggi indimenticabili: la crudele guardia carceraria Percy, giovane ed egoista, il detenuto Delacroix che Percy tanto detesta, Paul e i suoi colleghi, e soprattutto John Coffey. John è un uomo misterioso e dalla mente non brillante, che nella sua cella passa il tempo a piangere, sopraffatto dal dolore del mondo che percepisce su di sé; John ha anche un dono, che condivide generosamente con il prossimo (che sia questo prossimo umano, o animale) e che è tuttavia anche la causa per la quale si trova nel Miglio verde, prossimo all’esecuzione. John è un uomo buono, e fragile, un uomo che ha paura del buio; un uomo che il mondo ha ignorato finché non ha potuto accusarlo, senza perdere troppo tempo a chiedersi se fosse davvero il colpevole.

"Sai, capo", mi rivelò, "oggi pomeriggio mi sono addormentato e ho fatto un sogno. Ho sognato il topo di Del." "Ho sognato che c'erano anche quelle due bambine bionde. Ridevano anche loro. Io le ho prese in braccio e non c'era sangue che veniva fuori dai capelli, stavano benissimo. Abbiamo guardato tutti insieme il signor Jingles che faceva rotolare quel rocchetto e che risate ci siamo fatti. A crepapelle." "Ma guarda." Stavo pensando che non ce la potevo fare, escluso, nemmeno a parlarne. Mi sarei messo a piangere o a gridare o forse mi sarebbe scoppiato il cuore per la disperazione e sarebbe stata la fine anche per me.


Per Paul e i suoi colleghi Harry e Brutal, l’incontro con John significherà mettere in discussione, per la prima volta, la natura nel loro mestiere: fino ad allora infatti era lo stesso Paul a dichiararsi a favore della pena capitale (da figlio del suo tempo), ma come comportarsi davanti a qualcuno di tanto straordinario, del quale tuttavia è impossibile provare l’innocenza?

"Ho fatto alcune cose nella mia vita di cui non vado fiero, ma questa è la prima volta che mi sento veramente in pericolo di finire all'inferno." Lo guardai per assicurarmi che non stesse scherzando. Non ebbi questa impressione. "In che senso?" "Nel senso che ci stiamo preparando a uccidere un dono di Dio", rispose. "Uno che non ha mai fatto male né a noi, né ad altri. Che cosa potrò dire se mi dovessi trovare al cospetto del Padre Nostro Onnipotente e Lui mi chiedesse di spiegargli perché l'ho fatto? Gli rispondo che era il mio lavoro? Il mio mestiere?"


John cambia Paul, e lo cambia per sempre. Non soltanto attraverso le sue parole, o le azioni alle quali Paul assiste; John lo cambia con il tocco delle sue mani, ed è grazie ad esso che dopo oltre sessant’anni Paul consegnerà alla carta le sue memorie su un uomo che merita di non essere dimenticato, e che ha lasciato un’impronta indelebile dentro di lui. 

Ma naturalmente nel 1932 John Coffey non aveva salvato solo Melly Moores o il topo di Del, il topolino che sapeva fare quel numero virtuoso con il rocchetto e sembrava cercare Del ben prima che il cajun arrivasse... ben prima che arrivasse John Coffey, se è per questo. John aveva salvato anche me e anni dopo, mentre sotto la pioggia dell'Alabama cercavo un uomo che non c'era nelle ombre sotto un cavalcavia, fermo tra bagagli e cadaveri straziati, imparai una terribile lezione: certe volte non c'è assolutamente differenza tra salvezza e dannazione.

Darvi un parere oggettivo su questo romanzo mi è oggi assolutamente impossibile. La rilettura a distanza di quasi vent’anni di questo capolavoro, dopo aver amato molti altri romanzi di King (qui trovate un elenco di quelli di cui ho già scritto sul blog), è stata una conferma e una sorpresa al tempo stesso: se il primo incontro con “Il miglio verde” aveva cambiato per sempre i miei gusti letterari, oggi mi ha scavato dentro facendo così male da ridurmi in singhiozzi. 
Non posso fare altro che consigliarvene la lettura, perché può dimostrarvi come King sia molto più di uno scrittore di romanzi dell'orrore, e sappia invece scavare in profondità nell'animo umano e nelle brutalità di cui è capace di macchiarsi. 

sabato 7 novembre 2020

Anche noi l'America

Di letteratura americana se ne legge e se ne traduce molta: scrittori nordamericani, spesso maschi, che raccontano una certa faccia degli Stati Uniti. Per uscire da questa equazione ormai nota, ho scelto un romanzo che racconta gli Stati Uniti dal punto di vista di una famiglia di immigrati messicani alla ricerca di una vita migliore. Se siete interessati al tema da un punto di vista di non narrativa, vi consiglio di leggere però "Dimmi come va a finire" di Valeria Luiselli, di cui ho scritto qui


Titolo: Anche noi l'America
Autrice: Cristina Henriquez
Anno della prima edizione:
Titolo originale: The Book of Unknown Americans
Casa editrice: NN Editore
Traduttore: Roberto Serrai
Pagine: 320


LA STORIA

Alma e Arturo, dal Messico, emigrano nel Delaware affinché la loro figlia Maribel abbia la possibilità di frequentare una scuola adatta alle sue necessità. Qui si stabiliscono in un palazzo abitato da emigrati da numerosi paesi dell’America Centrale, e scopriranno che anche lontano da casa è possibile costruirsi una nuova famiglia… Nonostante le non poche difficoltà.

COSA NE PENSO

La mia opinione riguardo il romanzo di Cristina Henriquez è cambiata a più riprese nel corso della lettura -che ci tengo a specificare è durata soltanto due giorni, perché non riuscivo a separarmi dal volume.

In “Anche noi l’America” le voci sono numerose, anche se le predominanti sono senza dubbio quelle della famiglia di Maribel e quella dei loro vicini di origine panamense, con il loro figlio Mayor. Centrale per lo sviluppo della narrazione è il dolcissimo primo amore tra Mayor e Maribel, osservato dai punti di vista dei genitori dei ragazzi e da quello di Mayor -mentre Maribel, che in un certo senso è la protagonista vera e propria del romanzo, viene sempre descritta dall’esterno.

Non sarebbe stato un problema, pensai, se non mi avesse trovato. Era come aveva detto lei: per trovare una cosa prima devi perderla. Da allora in poi saremmo stati lontani migliaia di chilometri e saremmo andati avanti con le nostre vite e saremmo cresciuti e cambiati e invecchiati, ma non avremmo mai dovuto cercarci. Dentro ciascuno di noi, ne ero sicuro, c’era un posto per l’altro. Niente di ciò che era successo e niente di ciò che sarebbe mai successo avrebbe reso tutto questo meno vero. 

“Anche noi l’America” racconta l’emigrazione. Racconta il sogno di un Paese dove la felicità è un diritto costituzionale, dove si potrà fuggire dalle lotte armate, dal narcotraffico e dalle dittature militari, dove saranno nuove opportunità, dove i figli potranno frequentare il college, non conoscere più la povertà. L’emigrazione è raccontata però senza troppo facile ottimismo: i personaggi infatti si ritrovano a vivere nello stesso edificio, in una città dove le varie comunità si dividono i quartieri, e a ricercare nei vicini ispanofoni una sorta di nuova famiglia con cui sentirsi veramente “a casa” -perché da emigrati è difficile sentirsi a casa in un nuovo Paese.

Una spiaggia, però, non è tutte le spiagge. E una patria non è tutte le patrie. E secondo me lo sentivamo tutti, su quella spiaggia, quanto eravamo lontani dal posto da dove eravamo venuti, in un modo che era bello ma anche brutto. «Com’è bello» disse mia madre, fissando l’oceano. Poi sospirò e scosse la testa. «Questo paese».

Degno di nota è il titolo, scelta del traduttore Roberto Serrai: l’originale è infatti “The Book of Unknown Americans”, cioè “Il libro degli americani sconosciuti”, i cittadini statunitensi lontani dai riflettori, quelli che non ci verrebbero in mente al pensiero dell’aggettivo “americano” -e tra di loro ci sono, per primi, i latinos, poi gli asiatici, infine forse anche i neri, nonostante i secoli di storia afroamericana in terra statunitense. Il traduttore opta per una traduzione che si discosta dall’originale, e lo fa al fine di evidenziare l’aspetto corale della narrazione di Cristina Henriquez, citando una poesia di Langston Hughes (“I, Too”) e di mettere in luce come tutti i suoi personaggi, con le loro peculiarità, siano parte della nazione -consapevolezza che dovrebbe far parte del nostro bagaglio oggi più che mai. 

Noi siamo gli americani invisibili, quelli che a nessuno importa nemmeno di conoscere perché gli hanno detto di avere paura di noi e perché forse, se facessero lo sforzo di conoscerci, si renderebbero conto che non siamo poi così cattivi, e forse addirittura che siamo molto simili a loro. E chi odierebbero allora?

“Anche noi l’America” è un romanzo che emoziona. I sentimenti passano dalla tenerezza all’indignazione in un attimo, e altrettanto velocemente si passa dal sorriso alla commozione. Proprio a questo proposito la mia opinione è cambiata molto nell’ultima parte del romanzo, che fino ad allora avrei consigliato come una di quelle letture che ci fanno sentire bene; invece la sensazione che mi è rimasta addosso una volta chiuso questo romanzo è stata una profonda malinconia, un senso di ingiustizia e di insoddisfazione, pur riconoscendo che il finale rende la narrazione molto più realistica e racconti gli Stati Uniti di oggi assai meglio della conclusione che avrei tanto voluto leggere. 

La vita che ti stringe coi suoi tentacoli, ti prende all’amo il cuore, e di colpo ti svegli come fosse la prima volta e ti ritrovi in una parte della città dove l’aria è dolce – col viso rosso, il petto che ansima, lo stomaco un pianeta, il cuore un pianeta, ogni organo di per sé un pianeta, e tutto è un meccanismo anche se i pezzi girano ognuno per sé, Oh silenziosi accenni all’inevitabile, mentre tra i limiti naturali dell’inverno e del buon senso la vita ti disfa tra le sue braccia.

lunedì 2 novembre 2020

L'uomo tigre

Di autori indonesiani non ne avevo mai letti prima: ho l’impressione che pochi vengano tradotti, e ancor meno attirino l’attenzione del pubblico. Proprio la nazionalità dell’autore è stata lo stimolo che mi ha spinta ad acquistare questo titolo, parte di un’iniziativa editoriale uscita in edicola…



Titolo: L'uomo tigre
Autore: Eka Kurniawan
Anno della prima edizione: 2004
Titolo originale: Lelaki Harimau
Casa editrice: Metropoli d'Asia
Traduttrice: Monica Martignoni
Pagine: 188




LA STORIA

Margio ha ucciso Anwar Sadat. Questo lo scopriamo subito, in apertura: lo ha ucciso a morsi, azzannandolo al collo, come un animale. Ma perché un ragazzo tranquillo dovrebbe aver compiuto un gesto simile? È la motivazione che Kurniawan ricostruisce pagina dopo pagina, in un viaggio all’interno della famiglia di Margio e dell’intera comunità che la circonda.


COSA NE PENSO

Il romanzo di Kurniawan, candidato al Man Booker Prize 2016, è molto più che un romanzo noir. L’omicidio ha poco spazio nel racconto, e anche poca importanza. “L’uomo tigre” è più che altro una storia familiare, che ricostruisce la storia di Margio e dei suoi genitori, da prima ancora che si sposassero. È così che incontriamo la comunità di un villaggio sulle coste dell’Indonesia, prevalentemente rurale, dove non ci sono attrazioni turistiche né attività economiche redditizie. 
Aveva sentito spesso parlare delle prodezze di suo nonno e degli altri anziani del villaggio, per esempio di come avevano resistito agli olandesi, che rapivano i giovani migliori per mandarli ai lavori forzati nel territorio di Deli. Su di loro non avevano effetto né i proiettili dei fucili, né le spade da samurai dei giapponesi che giunsero in seguito. 

Molte famiglie si trascinano dietro le strutture delle proprie case in bambù, da un terreno all’altro; Margio e sua sorella crescono in un magazzino con il suo padre violento da lui odiato e la madre, vittima di abusi sin dai primi giorni del matrimonio. 
In Margio però c’è una tigre: una tigre bianca, appartenuta a suo nonno, una tigre che fa parte delle leggende del popolo indonesiano e che ha ereditato, pronta a balzare fuori al momento opportuno: è la tigre che prende il sopravvento, sono i sentimenti più profondi di Margio che azzannano Anwar Sadat al collo, ed il motivo lo sapremo solo all’ultima pagina del romanzo.
Sapeva che la bestia non era reale. Nei vent'anni della sua vita, era entrato e uscito dalla giungla alla periferia della città, e non aveva mai incontrato una tigre come quella. C'erano piccoli leopardi nebulosi, cinghiali, cani selvatici, ma nessuna tigre bianca di quelle dimensioni. Lo fece pensare a suo nonno, morto tanti anni prima. Gli vennero le lacrime agli occhi e lentamente allungò una mano, cercando di afferrare una zampa della tigre. 

Kurniawan ne “L’uomo tigre” è descrittivo senza mai dilungarsi, e ci trasporta davvero in Indonesia, tra fiori di magnolia e i cespugli di rose, tra miti e tradizioni locali e violenze che purtroppo non hanno nazione. Il suo è un noir atipico, che sorprende rivelandoci il colpevole sin dalle primissime pagine, ma senza annoiarci mai mentre ci inoltriamo alla scoperta delle ragioni del suo gesto. Per me è stata una piacevolissima sorpresa, e anche un vero e proprio viaggio in una destinazione lontanissima!