mercoledì 25 maggio 2022

Quando cadrà la pioggia tornerò

 "Quando cadrà la pioggia tornerò" di Takuji Ichikawa è un romanzo giapponese pubblicato per la prima volta nel 2003. In Italia è stato per qualche tempo fuori catalogo, ma di recente ristampato da Salani.


Titolo: Quando cadrà la pioggia tornerò
Autore: Takuji Ichikawa
Anno della prima edizione: 2003
Titolo originale: Ima, Ai Ni Yukimasu
Casa editrice: Salani
Traduttrice: Marcella Mariotti
Pagine: 265


Si tratta di una storia di separazione: quella tra Mio e Tokume, giovani sposi con un bimbo di appena cinque anni, per via della morte di lei. L'uomo è fragile e soffre di una quantità di disturbi; nei panni del padre single non se la cava granché bene, nonostante ci metta tutto il suo amore. Un giorno, nel corso di una passeggiata nella foresta con il figlio, l'amata Mio riappare; e sembra voler mantenere una promessa che gli aveva fatto in vita: sarebbe tornata da loro per la durata della stagione delle piogge.

Inevitabilmente va accettata una spiegazione surreale per il fenomeno di cui ci troviamo a leggere, ed è necessario sospendere l'incredulità. Tuttavia superato quest'ostacolo ci troviamo davanti ad un romanzo sull'importanza del dirsi addio, dell'accettare e superare il dolore della separazione, dell'elaborazione del lutto con i propri modi e i propri tempi. 

È anche una dolcissima storia d'amore, che Tokume racconta a quello che considera il fantasma di Mio, che sembra aver perso la memoria nel suo viaggio verso il mondo dei vivi. L'autore racconta un amore tenero e delicato, che anche da lettori adolescenti penso potrà essere molto apprezzato.

Dunque, ne sono entusiasta? Non posso dire di sì, perché lo stile dell'autore è davvero semplice ai limiti della banalità, al punto che talvolta mi ha un po' infastidita, l'ho trovato inutilmente infantile. È anche una storia che sembra scritta per far versare qualche lacrima al lettore, in quel modo premeditato che non mi conquista fino in fondo.

In conclusione ve lo consiglio se siete alla ricerca di una lettura non impegnativa dal punto di vista della scrittura, se avete voglia di una storia sul lutto e sulla separazione con cui commuovervi e sfogarvi un po'. Se avete apprezzato "Finché il caffè è caldo", potrebbe fare al caso vostro!

Qual è l'ultimo romanzo giapponese che avete letto?

martedì 24 maggio 2022

Il giardino di cemento

 Romanzo d'esordio dell'autore inglese, pubblicato nel 1978, "Il giardino di cemento" di Ian McEwan inaugura il periodo che gli fece meritare il soprannome di "Ian McMacabre". 


Titolo: Il giardino di cemento
Autore: Ian McEwan
Anno della prima edizione: 1978
Titolo originale: The Cement Garden
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Stefania Bertola
Pagine: 156


I protagonisti sono quattro fratelli, due maschi e due femmine, tra i 17 e i 6 anni. All'inizio di questo brevissimo libro rimangono orfani del padre, un uomo non proprio amabile, che aveva progettato di trasformare il cortile di casa in una distesa di cemento -ed ecco spiegato il titolo. In breve tempo i quattro perderanno anche la madre: per timore di essere separati però decidono di non dirlo a nessuno, e quei sacchi per preparare il cemento torneranno molto utili, nella cantina di casa, per liberarsi del corpo...

Non succedono grandi cose in questo libro, che è fatto soprattutto di interazioni: quelle tra i due maggiori, Jack e Julie, la cui relazione sfocia più volte nell'ambiguità, mossa dalle curiosità dell'adolescenza e dai ruoli quasi genitoriali che soprattutto la sorella maggiore assume per via delle circostanze. C'è poi il piccolo Tom, che passa dal travestirsi da bambina al regredire allo stadio della primissima infanzia, alla ricerca di conferme e di rassicurazione. Più nell'ombra rimane Sue: forse la più consona nel proprio ruolo, si chiude a leggere nella sua stanza, come cercando di tenerne fuori l'assurdità e il degrado che la circondano.

Siamo in un sobborgo senza nome, dove casa dopo casa il quartiere sta venendo smantellato per costruire nuovi alloggi; rimaniamo sul chi vive, ad aspettare che qualcuno scopra quei quattro abbandonanti a se stessi, che siano loro stessi ad autodenunciarsi, ma McEwan non trae conclusioni. Si rimane lì, come in un'istantanea della vita di qualcun altro, con un vago senso di nausea, per gli odori degli ambienti non lavati, del cibo che marcisce in cucina, delle relazioni poco fraterne che ci sembra di spiare tra le pagine. 

È un McEwan morboso e disturbante questo, di oscurità di cantine e di bauli, di segreti e di tormenti, che racconta in prima persona in quello stile asciutto e tagliente che ne rimarrà una caratteristica. È una storia per stomaci forti, per chi non si impressiona (potrebbe piacere a chi ha amato "The Dreamers" di Bertolucci): e per me, riletto a distanza di oltre un decennio, una conferma di quanto con McEwan e il suo talento si vada sul sicuro, da sempre. 

sabato 21 maggio 2022

Il caos da cui veniamo

"Il caos da cui veniamo" non è il mio il primo incontro Tiffany McDaniel, autrice statunitense che ho iniziato a leggere a partire dal suo romanzo d’esordio "L’estate che sciolse ogni cosa". L’ordine di lettura ha una certa importanza, perché qui sono presenti alcuni piccoli riferimenti all’opera precedente che può cogliere soltanto chi segue dunque l’ordine cronologico di pubblicazione, anche se le due storie sono completamente indipendenti. 


Titolo: Il caos da cui veniamo
Autrice: Tiffany McDaniel
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Betty
Casa editrice: Atlantide
Traduttrice: Lucia Olivieri
Pagine: 432

Questa si ispira infatti alla madre della scrittrice, figlia di un uomo di origini nativo americane e cresciuta in una famiglia numerosa e problematica; nasce in particolare da un racconto fatto dalla madre a Tiffany, a proposito del fratello che amava indossare vestiti da donna. 

Facciamo dunque la conoscenza dei Lazarus, tre sorelle e tre fratelli (senza contarne due che hanno perso la vita appena bambini) e seguiamo  in particolare la crescita di Betty, accompagnata costantemente dalle magiche storie del padre Landon, personaggio di un’intensità commovente e indimenticabile. Queste favole ricche di immaginazione e che crescono i figli nonostante la povertà, nonostante la violenza, nonostante la discriminazione e l’emarginazione di cui sono vittime sono una boccata d’aria e un filo conduttore nell’intero romanzo.

Ne "Il caos da cui veniamo" la violenza è molta. Ci sono scene adatte soltanto a lettori dallo stomaco forte: credo sia necessario essere preparati alla violenza sugli animali nel capitolo 17 (che io ho sopportato davvero a fatica), al tema dell’incesto e a un traumatico capitolo 34 dove la vittima è davvero giovanissima.

La scrittura è tutto in questa storia: l’autrice rende poesia ogni frase che scrive, tratteggia ogni personaggio in modo da renderlo tridimensionale. Anche a quelli che non riusciamo a comprendere, anche a chi commette le azioni peggiori sembra essere offerta un’opportunità di redenzione o una ragione per perdonarli. Chiuderete questo libro portando con voi Trustin e il suo carboncino capace di disegnare i temporali, Fraya e la sua torta al cioccolato, Leland che ha creduto di poter essere una brava persona, Hawkthorne  che ama i vestiti da donna in un’epoca e in un Ohio dove non si può dire, Flossie e la sua colpa, Bitty e la sua scrittura, Alka che è una madre ferita e soprattutto Landon, questo padre che non dimenticherete mai più, che racconta storie, scolpisce il legno, che ama i suoi figli.

Tiffany McDaniel non è un’autrice per tutti: è un’autrice per chi si sente pronto a farsi sconvolgere da una lettura, a commuoversi nella tragedia e a trovarvi un punto di luce a cui affidarsi, a indignarsi e sperare nelle sue pagine e a non essere più lo stesso dopo aver terminato le sue storie. Per me è la grande scoperta degli ultimi anni, e non vedo l’ora di leggerne le opere successive.

Qual è l'ultimo romanzo che vi ha lasciati senza parole?

giovedì 19 maggio 2022

Venivamo tutte per mare

Julie Otsuka, autrice di "Venivamo tutte per mare", affronta un tema che è per lei in parte autobiografico: quello dei giapponesi americani. Lei stessa ha infatti origini giapponesi: il padre è un immigrato di prima generazione, mentre la madre è nata negli Stati Uniti  da genitori giapponesi.


Titolo: Venivamo tutte per mare
Autrice: Julie Otsuka
Anno della prima edizione: 2011
Titolo originale: The Buddha in the Attic
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Traduttrice: Silvia Pareschi
Pagine: 144


All’interno di questo brevissimo romanzo si parla proprio dei primi giapponesi emigrati negli Stati Uniti, ed in particolare delle ragazze che furono inviate come mogli per corrispondenza agli uomini arrivati per primi nel nuovo paese. Nelle loro lettere promettevano alle giovanissime donne una vita agiata, quando in realtà svolgevano umili lavori nei campi o come domestici, e questa era la vita di miseria e fatica che sarebbe toccata anche alle loro spose.

Seguiamo nell'interessantissimo stile corale dell'autrice, che ricorre spesso alla prima persona plurale per dare voce a più donne e più esperienze, l’evoluzione dell’emigrazione giapponese in America nella prima metà del Novecento. Dall'agricoltura passiamo ai quartieri definiti Japantown, dove avviano attività come ristoranti o lavanderie, e i loro figli nascono e crescono sentendosi sempre più americani.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale però, allo schierarsi del Giappone con le potenze dell’Asse e ancor più con il bombardamento di Pearl Harbor, la diffidenza americana nei confronti dei giapponesi aumenta al punto di costringerli ad abbandonare tutto e venire internati in una sorta di campi. 
Proprio di questi campi racconta il romanzo d’esordio dell’autrice, "Quando l’imperatore era un Dio", che ho già provveduto ad ordinare, perché  questa lettura mi è piaciuta davvero molto come tutte quelle da qui sento di imparare qualcosa.

"Venivamo tutte per mare" è un romanzo spesso doloroso, dove c’è spazio per la violenza, per il lutto, per la fatica e per perdite di ogni genere; ma allo stesso tempo è un romanzo poetico che trasmette anche la forza e il coraggio di donne che non hanno avuto scelta ma hanno lottato per difendere il poco che avevano.

Se come me siete interessati a pagine di storia che raramente trovano spazio in quello che leggiamo e studiamo, questa lettura breve e intensissima può decisamente fare al caso vostro!

Avevate mai letto testi sul tema dell'internamento giapponese?

mercoledì 18 maggio 2022

La prima moglie

"La prima moglie" di Daphne Du Maurier, che ho letto in un'edizione vintage Mondadori, è un romanzo scritto nel 1938 che potrebbe essere stato pubblicato l’altro ieri per quanto riesce ad appassionare, coinvolgere e intrattenere il lettore di oggi!


Titolo: La prima moglie
Autrice: Daphne Du Maurier
Anno della prima edizione: 1938
Titolo originale: Rebecca
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Alessandra Scalero
Pagine: 437


La storia inizia a Monte Carlo, dove la protagonista, una giovane ragazza di modeste origini, incontra Maxim, un uomo maturo e più che benestante rimasto da poco vedovo, che poco dopo essersi conosciuti le chiede di diventare la sua seconda moglie. La giovane accetta e si trasferisce a Manderley, la signorile residenza dell’uomo in Inghilterra, dove si trova immediatamente davanti alla memoria che Rebecca la prima moglie ha lasciato dietro di sé, come un fantasma che aleggia in ogni stanza: sembra essere stata così bella, così elegante, così capace nelle relazioni sociali da rendere impossibile per la nuova arrivata essere alla sua altezza.

Nel racconto, scritto in prima persona, percepiamo sin dalle prime pagine in maniera vivida e violenta il disagio costante e l’angoscia che la protagonista prova a non sentirsi mai padrona delle situazioni che vive, costantemente inadatta, inferiore, non abbastanza amata dal marito che pare vivere ancora nei ricordi e nel sentimento provato per Rebecca -che resiste anche nella servitù della casa. 


In realtà questo è un romanzo sull’apparenza e su quanto si possa essere bravi ad ingannare il prossimo e presentarsi al meglio in società nascondendo sotto il tappeto scomode verità.[come i tanti amanti di Rebecca la sua incapacità di provare sentimenti per il prossimo il suo sconfinato talento nell’inganno che porteranno Maxim all’esasperazione in un matrimonio mai felice  fino ad un omicidio che passerà però dapprima per un incidente e poi per un suicidio in seguito alla fortunata scoperta di una diagnosi medica infausta.]

Ci immedesimiamo in questa giovane donna e sentiamo con lei la costante tensione che accompagna numerose scene di questo romanzo, prima tra tutte il ballo in maschera dove la sciagura incombe riga dopo riga. Ci identifichiamo con lei e per lei tifiamo, mentre i colpi di scena si susseguono e la tensione in questa storia non viene mai meno. 

Degna di nota è anche Manderley, la residenza localizzata in un'imprecisa campagna inglese a qualche ora da Londra, immersa in una natura lussureggiante circondata dai, fiori, dagli uccelli, da profumi che portano messaggi e conservano ricordi rivelatori come le madeleine di Proust. In Manderley si manifesta al meglio la capacità descrittiva di Daphne Du Maurier!


Quello dell’autrice è un romanzo di misteri segreti ben conservati ma anche una storia d’amore [non come ci si potrebbe aspettare quello di Maxim per Rebecca, bensì quello della protagonista per Max, in nome del quale davanti alla verità rivelata è ben felice piuttosto che sconvolta!] È un romanzo di atmosfere, coinvolgente come pochi, dal quale è impossibile separarsi e che entra a pieno titolo tra le mie letture migliori dell’anno! 

Ora non mi resta che vedere il film: ne è stato tratto nel 1940 un famosissimo film di Hitchcock, e nel 2020 un remake che non ha riscosso particolare successo.

Conoscete questa storia? Avete altri titoli dell’autrice da consigliarmi?

mercoledì 11 maggio 2022

L'uccello del malaugurio

"L'uccello del malaugurio" è il quarto volume della serie "I delitti di Fjällbacka". Si apre con i preparativi del matrimonio di Erica e Patrick; al colpo di scena di cui sul finale del terzo volume è protagonista la sorella Anna non viene dato il seguito che mi aspettavo, anzi l’omicidio del marito da cui la donna comprensibilmente è stata assolta sembra aver lasciato tranne nei primi momenti non molti strascichi: la vediamo così riprendersi la sua vita quasi come se nulla fosse successo. 


Titolo: L'uccello del malaugurio
Autrice: Camilla Läckberg
Anno della prima edizione: 2006
Titolo originale: 
Olycksfågeln
Casa editrice: Marsilio
Traduttrice: Laura Cangemi
Pagine: 462

Questa volta gli omicidi nella cittadina sono due: il primo coinvolge Marit, una madre di famiglia che dopo una separazione aveva trovato il coraggio di vivere, anche se non alla luce del sole, la propria storia d’amore con un’altra donna. La sua morte sembrerebbe un incidente, ma troppi particolari non tornano: primo tra tutti che fosse ubriaca, quando la donna era notoriamente astemia. 

La seconda morte è quella di una giovane ragazza che partecipa ad un reality show che si svolge in zona, e coinvolge giovani svogliati che attraverso la notorietà cercano di dare un senso alla propria esistenza. 

I due casi sono apparentemente privi di collegamento e se ne occupano i poliziotti che ben conosciamo, con una nuova collega di nome Hanna. [Questa donna, che vediamo tormentata sin dalle prime pagine, si rivelerà poi insieme al fratello che aveva spacciato per suo marito la colpevole di numerosi delitti, avvenuti per di più nell’arco di circa un decennio, e di quelli appena avvenuti su cui le indagini si concentrano.] Essendo due gli omicidi da risolvere questa volta le indagini sono più complesse e devo ammettere che questa novità mi è piaciuta, perché ha evitato l’effetto ripetizione dei volumi precedenti. 

L’elemento ricorrente delle pagine in corsivo che danno voce ad un evento del passato è presente anche qui; è qui che viene usato il termine "uccello del malaugurio" che poi è il titolo  [ed è qui che conosciamo bambini i due fratelli che scopriremo poi alla fine del romanzo i colpevoli, traumatizzati da un’infanzia difficile in cui hanno avuto dapprima una madre alcolizzata che ancora soffre le conseguenze dei suoi gesti, poi una donna che avendoli rapiti li teneva segregati e poi la perdita di qualunque riferimento a causa di un incidente provocato da un guidatore ubriaco. I due si sono trasformati in giustizieri nei confronti proprio  dei conducenti d’auto che in stato di ebrezza abbiano causato delle morti.]. Rispetto a "Lo scalpellino" qui le pagine in corsivo sono meno frequenti e devo ammetterlo anche meno incisive, ma hanno senza dubbio il pregio di creare molta curiosità nel lettore rispetto ai tre precedenti. 

Il quarto volume l’ho trovato più cupo e drammatico, specialmente nella conclusione che viene trovata per i delitti. È rimasto però invariato l’effetto su di me, che per la durata dell’intera lettura non riuscivo a staccarmi dalle pagine. L’unico difetto che continuo a riscontrare in questi romanzi, ed è di certo dovuto anche alla loro semplicità, è il fatto che spesso i personaggi ricorrenti risultino un po’ stereotipati: per esempio il capo della polizia così facilmente raggirato dalle donne oppure l’ossessione di tutti per la propria forma fisica, e ancora il concetto di maternità visto come intrinsecamente desiderabile da tutte le donne che non sono poi poste il ruolo di criminali o malate di mente. Anche qualora qualcuna di loro non fosse madre, questo avviene soltanto per l’effettiva impossibilità di procreare e non perché abbiano potuto compiere scelte diverse.

Anche qui rimane in sospeso un elemento della trama che riguarda i personaggi ricorrenti: infatti Erica comincia a porsi sempre più domande sul passato della madre e in un baule ritrova alcuni oggetti della donna che meritano un’indagine più approfondita, la quale mi aspetto si svolgerà nel prossimo volume -che sicuramente leggerò!

giovedì 5 maggio 2022

Il tatuatore di Auschwitz

Ho ricevuto "Il tatuatore di Auschwitz" di Heather Morris in regalo all'inizio dell'anno, nel periodo della Giornata della Memoria. Si tratta di un best-seller internazionale, che ha ricevuto però anche numerose critiche, e così ho iniziato la lettura con qualche dubbio.


Titolo: Il tatuatore di Auschwitz
Autrice: Heather Morris
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: The Tattoist of Auschwitz
Casa editrice: Garzanti
Traduttore: Stefano Beretta
Pagine: 226


Ispirata all'esperienza di Lali Solokov, nato Ludwig Eisenberg, ebreo slovacco deportato ad appena venticinque anni, questa è una sorta di storia d'amore ambientata nel campo di concentramento di Auschwitz. È qui infatti che Lali (nel romanzo viene chiamato "Lale", non si sa bene perché, forse per ragioni fonetiche) incontra Gita, giovane ebrea deportata da Bratislava, che dopo la liberazione diventerà sua moglie.

Lali, all'età di ottantasette anni, dopo essere rimasto vedovo, ha raccontato all'autrice di questo libro la propria vita. Non aveva mai avuto il coraggio di farlo prima, per timore che lui o sua moglie fossero accusati di aver collaborato con i nazisti: Lali infatti ricopriva il ruolo di "Tätowierer", ovvero tatuava i numeri assegnati sulle braccia dei prigionieri del lager. Fu dunque uno dei "salvati" che descrive Primo Levi nel suo saggio: un deportato con qualche privilegio, razioni supplementari, un migliore alloggio, un margine di libertà in cui organizzare scambi e trattative con lavoratori polacchi esterni. 

Seppure ispirata a fatti reali, la storia raccontata da Heather Morris è stata duramente criticata per le discrepanze presenti tra realtà e narrazione -come documenta bene questo articolo del Guardian. Vi sono elementi davvero impossibili, come l'aver potuto curare il tifo di Gita con un medicinale all'epoca nemmeno esistente, ma anche fatti per i quali non esistono prove a supporto, come un autobus utilizzato come camera a gas. Lo stesso centro di ricerca dell'Auschwitz Memorial ha confutato numerosi elementi presenti, e ha archiviato il caso definendo "Il tatuatore di Auschwitz" una storia d'invenzione ambientata ad Auschwitz, ispirata a fatti reali, ma prima di alcun valore documentale.

Da questa lettura (inevitabilmente coinvolgente, scritta in modo semplice e diretto) ricavo principalmente un dubbio: è lecito scrivere romanzi sull'Olocausto? Non è la prima volta che mi capita, anche "Io non mi chiamo Miriam" di Majgull Axelsson è un'opera di finzione. Per quanto mi riguarda non lo trovo un gesto oltraggioso, semmai uno spunto perché i lettori possano ulteriormente documentarsi -ma in questo libro in particolare credo che la componente di fantasia dovrebbe essere maggiormente sottolineata, mentre l'autrice sembra difendere molto l'autenticità del suo racconto.

Voi cosa ne pensate? È possibile inventare a partire dalle pagine più tragiche della storia, o è necessario limitarsi alle autentiche testimonianze?

Ivy

"Ivy" è un romanzo che si divora: questa è la premessa necessaria per parlarvi del romanzo di Susie Yang, che mi incuriosiva sin dalla sua uscita.


Titolo: Ivy
Autrice: Susie Yang
Anno della prima edizione: 2020
Titolo originale: White Ivy
Casa editrice: Neri Pozza
Traduttrice: Laura Prandino
Pagine: 415


Viene proposto come una sorta di thriller: la storia di una ragazza scaltra e dedita ai furti, ma in verità è molto altro. È l'insieme creato da un doppio conflitto: quello culturale tra la famiglia cinese della protagonista e i valori della società statunitense in cui vive, e quello interiore tra le apparenze, il giudizio altrui e ciò che Ivy realmente è -molto difficile da definire, persino per se stessa. 

Ivy cresce infatti in una famiglia di emigrati cinesi che pretende il massimo da lei; non desidera altro che integrarsi negli Stati Uniti e far parte del gruppo dei più ricchi, dei più ammirati, dei più invidiati. Per questo non ha scrupoli e impara sin da giovanissima ad arrangiarsi, con la complicità e la guida di una nonna dedita ai furtarelli. Desidera un fidanzato che tutti guardino con desiderio a loro volta, in modo da godere dello stesso prestigio, ma quando lo ottiene e quel sogno d’infanzia che sembra realizzarsi Ivy si scontra con una realtà più complessa di quello che si aspettava. 

La famiglia di cui si è vergognata e che ha desiderato dimenticare sembra affermarsi sempre di più (come il compagno della sua adolescenza, immigrato anche lui, che torna a far parte della sua vita adulta), mentre tra le persone a cui ha aspirato serpeggiano segreti e non detti, che coinvolgono finanze e sentimenti. 

"Ivy" è la storia di formazione di una ragazza che non sa chi vuole diventare, ma sa ciò che non vuole: essere povera, essere giudicata, essere emarginata. È una storia di gioventù senza scrupoli, perché non si arriva alla cima senza lasciarsi dietro delle vittime, metaforiche o meno. 

Romanzo d’esordio dell’autrice che condivide con la sua protagonista i natali in Cina e l’emigrazione in America, "Ivy" è un romanzo scorrevole e convincente, dalla scrittura magnetica e dalla protagonista per cui si prova allo stesso tempo un profondo fastidio ma anche una certa comprensione. È un romanzo immaginifico ed efficace, fatto di feste, di vacanze, di incontri travolgenti e di relazioni al tempo stesso gelide: un romanzo perfetto per una trasposizione cinematografica, ed infatti proprio Shonda Reims (la creatrice di Grey’s Anatomy per dirne una) ne ha opzionato i diritti per farne una serie TV che non vedo l’ora di vedere. 

Se siete alla ricerca di un libro che vi intrattenga e di coinvolga al punto da dimenticare tutto il resto, grazie alla serpeggiante tensione e a qualche colpo di scena ben piazzato, questo è decisamente un romanzo che può fare per voi!

A casa

Il fumetto "A casa" di Sandrine Martin, pubblicato da Tunué, nasce dal progetto di ricerca "EU Border Care", condotto da studiose coordinate da Vanessa Grotti (antropologa sociale dell'Università di Bologna) in luoghi cardine per i flussi migratori, tra cui la città di Atene. Proprio in Grecia si è recata in prima persona l'autrice, che concentra nel personaggio di Mona le storie di cinque donne migranti afghane e siriane -concentrandosi in particolare sulle condizioni delle donne migranti in gravidanza.


Titolo: A casa
Autrice: Sandrine Martin
Anno della prima edizione: 2021
Titolo originale: Chez Toi
Casa editrice: Tunué
Traduttore: Stefano Andrea Cresti
Pagine: 208

L’artista francese, in queste tavole nei toni delle matite colorate rosse e blu, ricche di testo e di discorsi diretti, dà voce a Mona e a Monika: la prima è siriana, fuggita dalla guerra insieme al marito, aspetta un bambino e sogna di farlo nascere in Germania, dove vorrebbe ottenere lo status di rifugiata. La seconda è greca, lavora come ostetrica e si occupa in particolare delle donne migranti in Grecia, dove vorrebbe restare ma è costretta a scontrarsi con la crisi economica e la disoccupazione del marito. La Germania, che è un sogno per Mona e Suleiman, è per Monika una meta obbligata, una sconfitta inflittale dal precariato.

Oltre al legame tra queste due donne, e ai loro percorsi mossi da motivazioni differenti, seguiamo i passi di Mona dalla Siria alla Grecia: leggiamo la sua paura su un gommone che rischia di affondare, la difficoltà di trovare una sistemazione dignitosa in una Grecia che sembra offrire solo condizioni molto precarie, le sfide connesse alla gravidanza della sua bambina che vorrebbe nascesse a molti chilometri dalle tendopoli e dagli squat. 

Come ormai saprete il tema dell’emigrazione mi è molto caro e mi interessa sempre leggere opere che lo rappresentino in modo diverso l’una dall’altra. Per questo "A casa" mi ha soddisfatta moltissimo: l’ho trovata una lettura intensa, ma mai retorica, neanche quando Mona si rivolge direttamente alla sua bambina. 

L'autrice ci regala infine una conclusione che potrebbe sembrare ottimistica, almeno per la linea narrativa che riguarda Mona e Suleiman, anche se il loro lieto fine se così si può chiamare non è affatto privo di zone grigie. Trasmette comunque un messaggio di speranza che, considerata la genesi del fumetto, ha una grande importanza. 

Molti di voi avranno letto e apprezzato "Non stancarti di andare" della coppia di autori italiani Teresa Radice e Stefano Turconi: allora non esitate a recuperare anche "A casa", che affronta temi simili ma introducendo meno materiale risulta a livello di contenuti ancora più efficace.

Qual è l’ultima storia di emigrazione che avete letto?

Quaderni ucraini

Dopo aver letto con grande interesse "Quaderni russi" del fumettista Igort è stata la volta di "Quaderni ucraini", che ho trovato ancor più rilevante del precedente nelle attuali circostanze. 



Titolo: Quaderni ucraini
Autore: Igort
Anno della prima edizione: 2010
Casa editrice: Oblomov
Pagine: 192

Il sottotitolo di questo fumetto pubblicato per la prima volta nel 2010 è "Le radici del conflitto" ed infatti vi si trovano riferimenti alla condizione del popolo ucraina sin dal 1918, quando l’Ucraina dichiarò la propria indipendenza e Lenin la invase con l’Armata Rossa per riconquistarla. 

La narrazione riprende poi dagli anni '20 quando l’allora presidente Stalin decise di annientare le spinte indipendentiste dell’Ucraina, cancellarne la cultura e l’identità attraverso la collettivizzazione forzat,a che espropriò i contadini dei loro averi e causò milioni di morti per fame. Alla carestia, l’Holodomor, tra gli anni '20 e '30 sono dedicate pagine in bianco e nero dolorosissime, in cui si lascia spazio ai corpi deformati dei cadaveri, ai volti senza parole dei bambini e a delle relazioni dei capi regionali dei vari distretti sulla gravità della situazione.


L’autore ha poi raccolto oltre alle proprie riflessioni e ricostruzioni storiche le testimonianze dirette di cittadini ucraini che ha incontrato personalmente. Si tratta di due uomini e due donne nati nella prima metà del '900 e che quindi hanno molto da raccontare, dalle privazioni subite sino all’attualità in cui non sembrano passarsela meglio: lo scioglimento dell’Unione Sovietica sembra avere portato conseguenze economiche a dir poco negative sulla loro nazione, un tempo così rilevante nella produzione agricola.

Molti sono i temi toccati in quest’opera e dell’Ucraina presente non c’è molto, se non il ricordo di Chernobyl che avvelena i raccolti e la pesca, la centralità dell’Ucraina nella fabbricazione dei missili sovietici e ricordi di un passato doloroso e ancora irrisolto -in cui la Russia, membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mette il veto al riconoscimento del genocidio ucraino. È una lettura che parla del passato, e non arriva a nominare Putin; tuttavia ne emerge la sofferenza di un popolo che oggi vuole essere riconosciuto in maniera autonoma rispetto alla potenza russa che ha già causato sul suo territorio milioni di morti ben prima dei bombardamenti di quest’anno.

Vi ritroviamo il tratto caratteristico dell’autore: le sue pagine che alternano il bianco e nero ai colori cupi, legati al sangue,  all’oscurità, alla miseria. Vi ritroviamo le pagine di testo, quelle dove dominano invece ritratti e tavole più classiche, dove parole e immagini si dividono equamente lo spazio. I volti e le espressioni umane sono in quest’opera ancora più potenti che in "Quaderni russi" e anche gli elementi isolati con i quali vengono trasmessi i messaggi -un paio di occhiali, una bilancia, il ricordo in fotografia di una mucca amata.


È stata una lettura da cui sento di aver imparato, ma anche qui emerge prepotente la necessità di informarmi in maniera più approfondita su ciò che sta avvenendo nel presente. Se siete però appassionati di storia e vi interessa questa regione del mondo questo fumetto è sicuramente una lettura che vi consiglio, per quanto i contenuti siano estremamente forti.

Qual è l’ultimo fumetto che avete acquistato?