giovedì 5 maggio 2022

Il tatuatore di Auschwitz

Ho ricevuto "Il tatuatore di Auschwitz" di Heather Morris in regalo all'inizio dell'anno, nel periodo della Giornata della Memoria. Si tratta di un best-seller internazionale, che ha ricevuto però anche numerose critiche, e così ho iniziato la lettura con qualche dubbio.


Titolo: Il tatuatore di Auschwitz
Autrice: Heather Morris
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: The Tattoist of Auschwitz
Casa editrice: Garzanti
Traduttore: Stefano Beretta
Pagine: 226


Ispirata all'esperienza di Lali Solokov, nato Ludwig Eisenberg, ebreo slovacco deportato ad appena venticinque anni, questa è una sorta di storia d'amore ambientata nel campo di concentramento di Auschwitz. È qui infatti che Lali (nel romanzo viene chiamato "Lale", non si sa bene perché, forse per ragioni fonetiche) incontra Gita, giovane ebrea deportata da Bratislava, che dopo la liberazione diventerà sua moglie.

Lali, all'età di ottantasette anni, dopo essere rimasto vedovo, ha raccontato all'autrice di questo libro la propria vita. Non aveva mai avuto il coraggio di farlo prima, per timore che lui o sua moglie fossero accusati di aver collaborato con i nazisti: Lali infatti ricopriva il ruolo di "Tätowierer", ovvero tatuava i numeri assegnati sulle braccia dei prigionieri del lager. Fu dunque uno dei "salvati" che descrive Primo Levi nel suo saggio: un deportato con qualche privilegio, razioni supplementari, un migliore alloggio, un margine di libertà in cui organizzare scambi e trattative con lavoratori polacchi esterni. 

Seppure ispirata a fatti reali, la storia raccontata da Heather Morris è stata duramente criticata per le discrepanze presenti tra realtà e narrazione -come documenta bene questo articolo del Guardian. Vi sono elementi davvero impossibili, come l'aver potuto curare il tifo di Gita con un medicinale all'epoca nemmeno esistente, ma anche fatti per i quali non esistono prove a supporto, come un autobus utilizzato come camera a gas. Lo stesso centro di ricerca dell'Auschwitz Memorial ha confutato numerosi elementi presenti, e ha archiviato il caso definendo "Il tatuatore di Auschwitz" una storia d'invenzione ambientata ad Auschwitz, ispirata a fatti reali, ma prima di alcun valore documentale.

Da questa lettura (inevitabilmente coinvolgente, scritta in modo semplice e diretto) ricavo principalmente un dubbio: è lecito scrivere romanzi sull'Olocausto? Non è la prima volta che mi capita, anche "Io non mi chiamo Miriam" di Majgull Axelsson è un'opera di finzione. Per quanto mi riguarda non lo trovo un gesto oltraggioso, semmai uno spunto perché i lettori possano ulteriormente documentarsi -ma in questo libro in particolare credo che la componente di fantasia dovrebbe essere maggiormente sottolineata, mentre l'autrice sembra difendere molto l'autenticità del suo racconto.

Voi cosa ne pensate? È possibile inventare a partire dalle pagine più tragiche della storia, o è necessario limitarsi alle autentiche testimonianze?

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