martedì 30 marzo 2021

Quando tornerò

Ci sono autori dei quali attendo le nuove uscite che compro immediatamente e sono pochi; uno di questi negli ultimi anni è diventato Marco Balzano.



Titolo: Quando tornerò
Autore: Marco Balzano
Anno della prima edizione: 2021
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 208


LA STORIA

Daniela è una donna che parte in tutta fretta dalla Romania, senza avere il coraggio di salutare nessuno perché il distacco sarebbe per lei troppo pesante. Parte per Milano dove l’aspetta un lavoro come badante, e si lascia dietro, abbandona, i figli Angelica e Manuel, affidati ai nonni e ad un padre su cui si può fare molto poco affidamento.

COSA NE PENSO

Il romanzo di Balzano dà voce ai tre personaggi principali di questa storia: dapprima a Manuel, quello che più di tutti soffre l’abbandono, poi a Daniela, che in Italia conduce una vita tutt’altro che perfetta ed è costretta a curare i parenti degli altri, mentre ha dovuto negare ai propri la stessa cura. Daniela lavora come badante e come tata, e si scontra con la difficoltà di lavori che coinvolgono anima e corpo, che impegnano 24 ore al giorno, che devono fronteggiare l’invecchiamento del corpo e della mente, la perdita della memoria, i momenti forse peggiori della vita di ognuno, oppure l'attaccamento materno per i bambini degli altri, come se sostituissero i propri.

Un giorno che ho litigato con te al telefono perché continuavi a raccontarmi balle sulla scuola e a trattarmi come una deficiente, Gianluca è venuto da me e mi ha detto: “Daniela, dimmi cosa è successo e mentre me lo racconti saltella, vedrai che poi ti sentirai meglio.

Infine c’è Angelica, la figlia maggiore, quella che è stata costretta dall’abbandono della madre a crescere troppo presto, ad assumersi troppe responsabilità. Angelica è diventata una donna diversa dalla propria madre proprio grazie al sacrificio e alle rimesse di quest’ultima, che le hanno permesso di diventare una giovane consapevole e desiderosa di scappare. 

Vorrei avere meno paura dell’amore che mi lega a lei, del destino che potrebbe assomigliare al suo. Vorrei avere meno paura del mio viso che col tempo diventerà sempre più uguale al suo viso scavato.

Diversa è la reazione di Manuel all’abbandono, perché Manuel davanti ad una madre che troppo spesso è partita decide che lui sarà uno di quelli che restano, che pianteranno i pomodori nell’orto, che coltiveranno la terra rumena come gli ha insegnato il nonno Mihai -amata figura di riferimento, l’unico ad avergli davvero trasmesso valori e conoscenze, pilastro della sua vita insieme alla nonna che con il suo silenzio tiene insieme una famiglia sfilacciata.

Per scrivere questo romanzo Marco Balzano è stato di persona in Romania, nella città di Iași dove "Quando tornerò" è ambientato. Qui hai incontrato i cosiddetti "Left Behind Children", i bambini lasciati indietro, i figli che si trovano talvolta affidati a parenti ma altre volte addirittura in comunità, mentre le madri emigrate mandano loro rimesse e cercano di guadagnarsi una vita altrove. È una realtà durissima, racconta Balzano in numerose interviste e nella nota alla fine del romanzo: paesi interi sono svuotati delle donne, perché sono le donne ad essere più spesso partite per lavorare altrove. Manuel è uno di quei ragazzini e paradossalmente è più fortunato di altri, proprio perché viene cresciuto dai nonni, gli resta accanto una sorella, e tuttavia non sa elaborare quell’abbandono che si porterà dentro per sempre.

Se fosse stata qui magari non le avrei rivolto la parola e senz’altro avremmo anche litigato, ma averla accanto avrebbe cambiato tutto. La vita è solo questione di starsi vicini, come i conigli nell’aia quando fuori si gela.

In questo romanzo c’è un ritorno, ma è un ritorno obbligato, dovuto ad un evento traumatico. "Quando tornerò" non è un romanzo ricco di lieti fini, è un libro doloroso, sofferto, che fa riflettere sulla maternità ma soprattutto sulle donne che incontriamo spesso nelle nostre città, alle quali affidiamo i nostri nonni, talvolta i nostri bambini e sulle vite delle quali non ci fermiamo molto spesso a riflettere. Dietro di loro ci sono solitamente livelli di istruzione medio alti, famiglie lasciate nei paesi d’origine: viviamo dunque in un sistema economico che obbliga le madri a prendersi cura dei figli degli altri, che obbliga le figlie ad accudire gli altrui genitori, quelli per cui noi non abbiamo più tempo. 

A volte m’incantava a guardare quelle donne che parlavano in cerchio. Dicevo: pensa se scioperassero. Non una giornata intera, un’ora soltanto. Tutto si fermerebbe: i figli dei vecchi dovrebbero tornare dal lavoro, sporcarsi le mani per pulire e cambiare i padri, sollevare dai letti le madri, e forse allora smetteremmo di essere così invisibili, nascoste nei palazzi. Barricate dentro le stanze.

"Quando tornerò" è un romanzo che mi è piaciuto molto, è scorrevole, appassionante; la caratterizzazione dei punti di vista è credibile e arricchisce la storia di sfaccettature attraverso le quali diviene tridimensionale, capace di rappresentare una realtà alla quale spesso non troviamo il tempo per pensare. Dopo "Resto qui" (che ritengo ancora sia il migliore dei romanzi di Balzano) l’autore pubblica un altro titolo estremamente riuscito e che mi sento di consigliare a tutti coloro di voi che amano i romanzi familiari e i temi legati all’attualità.

venerdì 26 marzo 2021

Bianco su nero

Sui miei scaffali da oltre un decennio, ricevuto in regalo e mai letto, finalmente ne ho sentito il richiamo! Sono riuscita a farne ingiallire le pagine...


Titolo: Bianco su nero
Autore: Rubén Gallego
Anno della prima edizione: 2002
Titolo originale: Белое на чёрном
Casa editrice: Adelphi
Traduttrice: Elena Gori Corti
Pagine: 187


"Bianco su nero" è un’autobiografia russa, nonostante il nome dell’autore: le origini di Ruben sono infatti spagnole. Spagnola è sua madre che, figlia del dirigente del Partito Comunista spagnolo, dà alla luce a Mosca due bambini, entrambi con delle gravi disabilità; il primo infatti morirà poco dopo la nascita, mentre Ruben, il secondo, sopravvivrà seppure affetto da una paralisi cerebrale che gli rende impossibile camminare o utilizzare le mani come vorrebbe. Poco dopo la nascita Ruben viene tolto alla madre e cresce quindi in orfanotrofio, passando da un istituto all’altro, all’interno di strutture che fino alla maggiore età si occupano di bambini disabili e danno loro un’istruzione, ma poi una volta terminata questa e raggiunti i 18 anni li trasferisce in ospizi dove sono destinati a morire in brevissimo tempo. Ruben scamperà a questo destino infausto grazie alla Perestrojka, che gli consentirà di allontanarsi dal sistema della reclusione dei disabili, di riunirsi poi a sua madre e divenire uno scrittore. 

Certi libri ti fanno cambiare il modo in cui vedi il mondo, dopo certi libri vorresti morire, oppure vivere diversamente. Se vuoi capire qualcosa, o chiedi a qualcuno, o chiedi a un libro. Anche i libri sono uomini. E come gli uomini, anche i libri ti possono aiutare; e come gli uomini, anche i libri mentono.

In "Bianco su nero" Ruben raccoglie dei pensieri sparsi e racconta la sua vita all’interno degli orfanotrofi. Racconta i suoi compagni, i suoi coetanei; racconta le tante persone che hai incontrato nel suo percorso di istituzionalizzazione. Molto interessante in questa autobiografia frammentata è l’introduzione, all’interno della quale lo scrittore sottolinea come abbia scelto di vedere il bello nel mondo e nelle persone e di dare voce alla forza di tutti coloro che hanno incontrato i suoi passi -forza che talvolta è difficile da riconoscere in gesti estremi, per esempio nella decisione di persone che mettono fine alle loro esistenze, ma proprio la forza che consente loro di trovare il coraggio per scegliere per se stessi e per le proprie vita è l’aspetto che Ruben sottolinea maggiormente.

Si tratta di un’opera degna di attenzione perché costituisce un ritratto dell’Unione Sovietica da un punto di vista poco narrato, che lascia il lettore spesso sconvolto all’idea di questi individui abbandonati a morire in un letto senza alcuna cura. Gallego ci fa sorridere amaramente quando ripercorre come venisse dipinto il mondo capitalista nell’educazione di questi bambini, che dovevano idolatrare l’Unione Sovietica e i valori del comunismo: quello che emerge è un ritratto molto vivido, molto colorito, che non lascia indifferenti. 

La responsabile di classe ci tiene l'ennesima lezione di educazione politica. Ci parla degli orrori della vita in Occidente. Ormai ci siamo abituati e non c'è niente che ci sorprenda. Sono fermamente convinto che in America la maggioranza della gente viva per strada, in scatole di cartone, che tutti quanti gli americani si costruiscano rifugi antiaerei e che il paese attraversi l'ennesima crisi economica.

Anche in patria quest’opera, che è stata pubblicata nei primi anni 2000 ha suscitato un grande dibattito perché ha portato alla luce le condizioni di vita all’interno degli istituti in un modo inedito e naturalmente disturbante, per niente lusinghiero nei confronti del governo di Mosca. 

Ero finito in quel reparto per puro caso. Quando arrivai, era appena morto un ragazzino. Stava nel letto numero 3, un letto che portava male. I tre che l'avevano occupato prima del mio arrivo erano morti uno dopo l'altro. 

Personalmente devo dire che la struttura mi ha lasciata un po’ perplessa: la frammentarietà dei brani raccolti talvolta rende difficile orientarsi tra nomi e situazioni che non vengono in alcun modo introdotti o presentati. Per esempio nell’ultima parte di di racconti di frammenti Ruben si trova negli Stati Uniti, ma non sappiamo né come né perché; devo dire che qualche collegamento in più lo avrei apprezzatoAvrei apprezzato anche qualche accenno ad una cronologia, a quanti anni abbia Ruben nei vari momenti, perché ricostruire quanto sta succedendo non è sempre semplice. Si tratta quindi di una raccolta  di esperienze di testimonianze che risulta però un po’ disordinata

Nel complesso "Bianco su nero" è un libro che sono contenta di aver letto, perché affronta l'importante argomento della disabilità dando voce ad un uomo che pur avendo un corpo in grossa difficoltà trova in se stesso una grande forza e riesce a mettere in luce quella di chi lo circonda. Va sicuramente considerato in quanto autobiografia e non un romanzo, altrimenti si potrebbe rimanere delusi dalla trama non sempre coerente; ve lo consiglio comunque se il sistema degli istituti, la storia dell'Unione Sovietica e il tema della disabilità vi interessano, perché di certo vi saprà fornire spunti di riflessione.

mercoledì 24 marzo 2021

Patria

Del terrorismo nei Paesi Baschi, regione della Spagna al confine con la Francia che da lungo tempo lotta per l’indipendenza, conoscevo poche notizie sparse sulla stampa, tra cui quella che proclamava la cessazione del ricorso alla violenza nel 2011. La mia ultima lettura è stata l’occasione per approfondire il tema.



Titolo: Patria
Autore: Fernando Aramburu
Anno della prima edizione: 2016
Casa editrice: Guanda
Traduttore: Bruno Arpaia
Pagine: 632


LA STORIA

Le protagoniste di "Patria" sono due famiglie, grandi amiche soprattutto per il legame che unisce i padri; il loro percorso di vita avrà però sviluppi radicalmente diversi. Entrambe le famiglie saranno infatti colpite dal terrorismo dell’ETA, ma da punti di vista opposti: in una ci sarà una vittima, nell’altra un terrorista.

COSA NE PENSO

Sette sono i personaggi di cui seguiamo i percorsi all’interno di "Patria": le due coppie di coniugi che hanno dato inizio alle due famiglie protagoniste della storia, e i loro cinque figli, tre da una parte e due dall’altra. L’autore ne racconta le vicende nell’arco di diversi decenni, prima i matrimoni dei genitori, durante l’infanzia dei figli e la loro adolescenza, poi seguiamo i cinque ragazzi diventati adulti nello sviluppo delle loro esistenze -i piani temporali sono però alternati tra il presente ed i flasbhack.

Molto dolore sarà riservato ad entrambe le famiglie per svariate ragioni: malattie, separazioni, litigi. La prima causa è però senz’altro il terrorismo, che le colpisce in maniera indelebile portando alla morte uno dei loro membri, un uomo integerrimo, coraggioso, fieramente basco eppure vittima del pregiudizio della comunità.

Capiranno chi è il Txato. Sono più basco di tutti loro messi insieme. E lo sanno. Fino ai cinque anni non parlavo neanche una parola di castigliano. A mio padre, che riposi in pace, una raffica di mitragliatrice ha fatto a pezzi la gamba mentre difendeva Euskadi sul fronte di Elgueta. Da vecchio, ancora stringeva i denti ogni volta che gli dava una scossa. Cosa c’è, ti fa male?, gli chiedevamo. ’Fanculo Franco e quella puttana di sua madre, rispondeva. E l’avevano tenuto tre anni in carcere, e se non l’hanno fucilato è stato per miracolo.» «Cosa mi vuoi dire con tutto questo, aita? Credi che all’ETA importi quello che è successo a tuo padre?» «Cazzo, non dicono di difendere il popolo basco? E se io non sono popolo basco, dimmi tu chi lo è.»

Un altro personaggio invece, dalla parte opposta degli schieramenti, finisce a trascorrere in carcere tutta la sua giovinezza e chissà quanto altro tempo ancora, poiché ha trovato che la violenza dell'ETA potesse essere il modo migliore per garantire alla sua patria l’indipendenza tanto agognata.

E quando i genitori cominciarono a rimproverarlo perché rimaneva in casa a leggere invece di uscire a divertirsi con gli amici, Arantxa gli disse, quando erano soli, con voce misteriosa, di non starli a sentire. «Leggi tutto quello che puoi. Accumula cultura. Più ne metti insieme, meglio è. Per non cadere nel buco in cui stanno cadendo in molti in questo paese.»

Se "Patria" è una storia di violenza -e lo è: è una storia di sangue, una storia di lutti e di dolori da elaborare- è anche una storia di orgoglio: l’orgoglio che tiene in vita una donna finché non avrà ottenuto la richiesta di perdono che attende da quasi vent’anni, l’orgoglio di figli spezzati nel corpo che nonostante ciò piegano i destini con la forza della loro mente e con il loro coraggio. 

«Perché credi che sono ancora viva? Ho bisogno di quel perdono. Lo voglio e lo pretendo, e fino a quando non lo avrò non penso di morire.» «Hai un orgoglio da far paura.» «Non è orgoglio. Non appena metterete la lapide sulla tomba e sarò con il Txato, gli dirò: quell’idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace.»

Alle donne è dato grande spazio in questo romanzo, ed ogni tanto la loro intransigenza ci irrita (penso soprattutto a Miren, talvolta anche Bittori e Nerea) eppure la costruzione dei personaggi da parte dell’autore è talmente realistica da farceli sentire come persone vere: chi nemmeno in carcere vuole venire a patti con le proprie azioni, chi rinuncia al proprio migliore amico per paura del giudizio altrui, ma si porta poi dietro questa mancanza per tutta la vita, chi pur di non abbandonare la propria madre conduce una vita priva di felicità annegando il proprio senso di responsabilità nell’alcol e aspettando il momento in cui sarà libero e potrà scappare lontano da quella città che tanto lo fa soffrire ad ogni diluvio che cade.

«Sono io.» «Cosa vuoi?» A Joxian tremavano le mani, gli tremava la voce e non la smetteva di lanciare occhiate alle due estremità della strada, come se avesse paura che lo vedessero conversare con il Txato. «Niente. Dirti che mi dispiace, che non ti posso salutare perché avrei dei problemi. Ma se ti vedo per strada, sappi che ti sto salutando con il pensiero.» «Ti hanno mai detto che sei un vigliacco?» «Me lo dico di continuo da solo. Ma questo non cambia niente. Ti posso abbracciare? Qui non ci vede nessuno.»


C’è anche il perdono in "Patria" e attorno al perdono ruotano le storie di tutti i suoi protagonisti, perché non è facile perdonare, ma la chiave della storia di queste due famiglie è proprio un perdono necessario a cui tutti i fili della trama tendono e che quando arriva ci commuove profondamente.

"Patria" è un romanzo dalla discreta mole: supera infatti le 600 pagine, eppure grazie ai capitoli brevi, ai numerosi dialoghi, allo stile dell’autore che ci aiuta ad immedesimarci ricorrendo talvolta ad una prima persona che si insinua nella narrazione in terza, il racconto scorre ad una velocità alla quale è impossibile resistere. Giunti a poche pagine dalla fine quasi non ci si sente pronti a terminare la storia, sapendo che se ne sentirà la mancanza appena chiuso il volume dietro di noi. Non posso fare altro che consigliarvi "Patria" se siete amanti delle storie familiari che si intrecciano alla storia contemporanea e che sappiano emozionare profondamente il lettore coinvolgendolo sempre di più: credo che per quanto mi riguarda questo romanzo entrerà di diritto tra le migliori letture dell'anno.

lunedì 22 marzo 2021

Underground

Negli ultimi mesi ho acquistato in edicola diversi titoli di Murakami, autore che ho già apprezzato in passato e che mi piacerebbe approfondire. Non mi sono ancora approcciata alla sua produzione più onirica, e ho iniziato la lettura dal volume più realistico di tutti.


Titolo: Underground
Autore: Haruki Murakami
Anno della prima edizione: 1997
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Antonietta Pastore
Pagine: 512


Underground racconta l’attentato alla metropolitana di Tokyo avvenuto il 20 marzo 1995: adepti del culto religioso Aum forarono con le punte dei loro ombrelli sacche di gas sarin poste in vagoni di diversi treni della metropolitana. L’attentato fece otto vittime e quasi trecento feriti, e otto dei responsabili furono condannati a morte. 

L’autore costruisce questo libro attraverso interviste, divise in due parti: alle vittime dell’attentato o ai loro familiari nella prima, a membri di Aum nella seconda. Indaga quindi sia gli effetti del tragico evento sulla popolazione che ne è stata colpita, sia la percezione che ne hanno avuto coloro che erano interni al culto e la loro reazione quando il mondo a cui avevano scelto di appartenere si è reso responsabile di una simile atrocità.

Meritano la pena di morte, è ovvio. C’è chi ne chiede l’abolizione, ma per chi ha fatto una cosa del genere, non ci può essere pietà. Se ho preso quelle due sacche con il sarin, è solo perché mi sono trovato lí in quel momento. Se non ci fossi stato io, le avrebbe prese qualcun altro. Bisogna assumersi le responsabilità che comporta il proprio lavoro. Non si può far finta di non vedere.

Underground ha l’innegabile punto di interesse di dare un ritratto del Giappone degli anni ‘90 vivido e interessante. Vi ritroviamo una dedizione al lavoro incredibile, uno spirito di sacrificio e un’autodisciplina che colpiscono immediatamente: ore di pendolarismo per recarsi al lavoro, anticipo invece di puntualità, ore e ore di straordinari, weekend passati a dormire per riprendersi dalla fatica. Dalle interviste traspare come tutto ciò sia concepito come normalità, ma è difficile non percepirlo come alienazione ed estremismo capitalista. Gli unici ad averlo percepito sembrano coloro che hanno scelto di rinunciare al sistema e alle cose terrene, per entrare in Aum.

Ho un sacco di lavoro, me ne dànno una quantità tale, tutto a me, che fra un po’ scoppio. Ho protestato diverse volte con i superiori, ma loro fanno finta di nulla. Certi giorni lavoro dodici o tredici ore, nel nostro ramo è normale. Naturalmente mi faccio pagare gli straordinari, ma non devo esagerare se no dall’alto piovono critiche. Però se non lo facessi mi farebbero sgobbare senza sosta, la situazione diventerebbe insopportabile.

I protagonisti della prima e della seconda parte di interviste non sono poi così diversi: entrambi sono disposti ad impegnarsi completamente nel proprio lavoro, che sia esso per un’azienda o per un’organizzazione religiosa. Differenti sono le domande a cui cercano di rispondere con le loro azioni -e forse chi si è posto più domande sono gli intervistati della seconda parte, anche se le conclusioni a cui sono arrivati non sembrano condivisibili.

Se ritenessero di aver sprecato gli anni passati nella comunità, dopo aver rinunciato al mondo e preso i voti. Tutte, senza eccezione, hanno risposto: «No, non mi pento. Non sono stati anni buttati via». Perché? La risposta è semplice. Perché in Aum c’era una purezza di valori che nella società non avevano potuto trovare. Anche se tale purezza alla fine ha portato a una sorta di incubo, il ricordo caldo e luminoso della sua luce resta vivo in loro, e non possono sostituirlo con nulla. 

Underground è un testo che mette in discussione molto della società giapponese, dal sistema educativo a quello lavorativo, sebbene non lo faccia molto apertamente. Di certo la competizione e l’ansia da prestazione hanno un peso nello spingere le persone ad affiliarsi a culti che li allontanino dal quotidiano, percepito come privo di senso. Anche la capacità del governo di gestire le emergenze viene apertamente messa in discussione da diversi intervistati, che hanno sempre ritenuto il proprio un Paese nel quale sentirsi al sicuro e si sono trovati smarriti davanti all'incapacità di far fronte ad un evento drammatico di grande portata.

Quando succede qualche calamità, le reazioni immediate, sul posto, sono molto rapide, ma l’organizzazione a livello globale è disastrosa. In Giappone non esiste nessuna struttura in grado di intervenire in maniera efficace e veloce in caso di sciagure di questa entità. Non c’è una chiara linea di comando. È stata la stessa cosa per il terremoto di Kōbe.

Underground è una lettura interessante, anche se da un momento in poi ho iniziato a percepirlo come un po’ ripetitivo -il che è dovuto alla sua struttura, più che al suo contenuto. Si tratta di una lettura che consiglierei agli appassionati del Giappone, e agli amanti delle raccolte di testimonianze: non aspettatevi un romanzo avvincente o una narrazione sorprendente. Underground è un racconto ordinato e pulito, accompagnato dalle osservazioni di Murakami sulle parole che ascolta, nelle quali tuttavia non si intromette affatto -anche se nelle interviste della seconda parte e nelle domande che pone ai suoi interlocutori traspare più volte in modo chiaro quale fosse la sua opinione in proposito.

In conclusione ho apprezzato la lettura di Underground perché sento di aver imparato qualcosa sulla cultura giapponese, che per esperienza diretta conosco assai poco; ed ogni volta che sento di aver imparato qualcosa da un libro sono sempre molto contenta di aver deciso di leggerlo.

mercoledì 17 marzo 2021

Doctor Sleep

Ho riletto Shining piuttosto di recente, scoprendovi all’interno dei personaggi che mi hanno emozionato molto più che alla prima lettura: primo tra tutti l’aiuto cuoco dell’Overlook Hotel, Dick Halloran. Alla fine di Shining abbiamo lasciato lui e il piccolo Danny insieme, sopravvissuti alla tragedia, e Danny intento a ricostruirsi una vita, sempre accompagnato dalla sua luccicanza.


Titolo: Doctor Sleep
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 2013
Casa editrice: Sperling&Kupfer
Traduttore: Giovanni Arduino
Pagine: 516



LA STORIA

In Doctor Sleep ritroviamo Danny trent’anni dopo i fatti di Shining: ormai è un adulto, e dal padre Jack ha ereditato uno dei lati peggiori: la sua dipendenza dall’alcol. L’alcolismo è sì ereditario, ma Danny lo utilizza soprattutto per mettere a tacere la luccicanza che tanto lo ha fatto soffrire nel corso della sua infanzia, rendendolo facile preda di creature spaventose. 
Oggi Danny è un uomo fragile, ma ancora guidato da "Tony" (il nome che dà alle proprie percezioni), che deciderà per lui che il New Hampshire è il posto migliore dove fermarsi per ricostruirsi una vita. È così che Dan smette di bere, trova un impiego in una residenza per anziani dove si guadagna il soprannome di "Dottor Sonno" grazie alla sua capacità di accompagnarli nel momento di passaggio all’altro mondo, ed entra in contatto con Abra. Abra è l’altra protagonista di questo romanzo: è solo una bambina quando scopre in se stessa una luccicanza ancora più potente di quella di Dan, che la rende il bersaglio perfetto del "Vero Nodo": un'inquietante associazione di persone quasi immortali, che proprio della luccicanza si nutrono -e se ne impossessano torturando ed uccidendo i suoi proprietari...


COSA NE PENSO

"Doctor Sleep" è un romanzo pieno di avventura, dove Dan, accompagnato da dei fedeli alleati (l’anziano Billy, anche lui dotato di una certa luccicanza, e il dottor John, a cui Dan ha fatto più di un favore) lotta contro il Vero Nodo e i suoi terrificanti esponenti per salvare la vita di Abra. 
In "Doctor Sleep" è chiaro, pagina dopo pagina, quanto Stephen King sia affezionato a Danny sin da quando era un bambino all’Overlook e non abbia (grazie a Dio!) intenzione di fargli fare la brutta fine che per tanto tempo ci aspettiamo -e che purtroppo hanno scelto di fargli fare gli sceneggiatori del film tratto da questo romanzo, piacevole certo, ma non all’altezza del libro e che per di più a mio parere ne travisa lo spirito
Wendy e Danny erano, per usare un termine moderno, codipendenti, cioè persone legate per amore e senso di responsabilità a un famigliare con un problema di abuso.
In "Doctor Sleep" infatti Danny ripara al proprio senso di colpa, quello che gli ha fatto lasciare, nei suoi anni da alcolista, un innocente bambino insieme alla sua madre tossica e strafatta di cocaina. Salvando Abra, giovanissima protagonista davvero riuscita (Stephen King è sempre stato bravissimo a caratterizzare gli adolescenti, sin dai tempi di "Carrie") Danny perdona se stesso e impara a fare il bene dopo tanti anni di autodistruzione. L’alcolismo è un tema caro a Stephen King: lui stesso si rese conto di esserne vittima proprio durante la stesura di Shining, ma mentre Jack Torrance non è riuscito a salvarsi dai fantasmi dell’alcol e dell’hotel, ci è riuscito King e così ci riesce Danny, che trova in se stesso, in chi lo circonda e nella sua luccicanza la forza di cambiare e guarire.


L’horror non manca in questo romanzo, e non manca la tensione: ci sono scontri, creature malvagie che torturano ragazzini, e ci sono i buoni disposti a tutto pur di non farli trionfare. Devo ammetterlo: "Doctor Sleep" mi è piaciuto moltissimo, sia perché voglio bene a Danny sin da quando era il bambino soprannominato Doc nell'albergo di "Shining", sia perché dietro all’avventura, ai combattimenti e alle scene piena di azione che Stephen King ci descrive c'è molto di più.
In "Doctor Sleep" c’è la profonda umanità di un uomo che aiuta gli anziani nel momento più delicato delle loro esistenze, c’è un gatto che sente avvicinarsi la morte, c'è un'adolescente terrorizzata e coraggiosa, e poi c’è la potenza dell’amicizia, salvifica ad ogni età, che conosciamo bene nei romanzi del Re da quando abbiamo letto "It".
Si era liberato della signora Massey e di Horace Derwent, chiudendoli nelle cassette di sicurezza che custodiva nei recessi della sua mente, ma la partita con l'Overlook era ancora aperta.

Si può leggere "Doctor Sleep" senza aver letto "Shining"? Sì, in qualche modo è possibile, perché le vicende del Vero Nodo sono indipendenti da quelle dell’Overlook -che come sappiamo è andato distrutto alla fine di "Shining". Tuttavia gli echi di quei fantasmi sono rimasti dove giacevano le sue fondamenta, e fare la conoscenza di Danny adulto senza aver conosciuto Dick Halloran e senza aver percepito la potenza di quel bambino soprannominato Doc sarebbe a mio parere un grosso peccato. Vi consiglio quindi di considerarlo per quello che è: un ottimo seguito, sorprendente per me che non avevo altissime aspettative, da non leggere per primo per non rischiare di perdervi uno splendido capitolo della storia!

lunedì 15 marzo 2021

Le irregolari

Seconda tappa ambientata in Argentina delle mie letture di quest’anno, anche se l’autore questa volta è italiano -dell'altro titolo ho scritto qui.



Titolo: Le irregolari
Autore: Massimo Carlotto
Anno della prima edizione:
Casa editrice: Edizioni E/O
Pagine: 224


LA STORIA

Carlotto parte per l’Argentina alla fine degli anni '90, perché vuole mettersi sulle tracce del nonno, emigrato in gioventù in quel paese dell’America Latina e poi tornato in Italia senza volerne raccontare nulla alla famiglia. Dopo delle esperienze particolarmente traumatiche (è stato infatti accusato di omicidio, ed è stato perseguitato a causa della sua attività politica con dei gruppi di estrema sinistra), Carlotto vive il viaggio in Argentina come una sorta di riscoperta e di fuga.  La realtà però che si trova davanti è molto diversa da ciò che si aspettava di vivere nel corso del viaggio: appena arrivato, un autista di autobus lo coinvolge in quello che, come dice il sottotitolo del romanzo, è proprio un "tour dell’orrore" sulle tracce dei desaparecidos argentini. Carlotto scopre quindi di essere imparentato con una delle nonne di Plaza de Mayo e ripercorre le vite e le sparizioni di numerosissimi giovani che dagli anni '70 sono stati fatti scomparire dalla dittatura argentina, e ai quali sono stati sottratti i figli neonati o appena bambini -che oggi, diventati ragazzi, vengono quotidianamente cercati dalle nonne di Plaza de Mayo per poter restituire loro la propria identità.

La mia era una storia tutta argentina. E non era ancora finita.

COSA NE PENSO

Quello di Carlotto è un reportage ricco di date e di nomi. Quasi tutti i capitoli sono dedicati ad un personaggio in particolare, spesso proprio una delle nonne che diventano interlocutrici dello scrittore: attraverso di loro scopriamo le storie dei figli, dei nipoti, di altri ragazzi che alla fine degli anni '70 lottavano per la libertà e la democrazia e per questo sono stati rapiti, torturati, uccisi senza che i loro corpi fossero mai restituiti alle famiglie e che riguardo la loro sorte si avessero informazioni certe. La "desaparicion" è una strategia che Carlotto spiega all’interno di questo breve, ma intensissimo libro: sono le nonne a raccontargli come questa strategia abbia preso piede e come sia in effetti la più efficace tecnica di repressione che le dittature abbiano a propria disposizione. Pensando alla politica odierna non è difficile fare dei parallelismi con paesi come l’Egitto o la Turchia, dove la sparizione, la detenzione arbitraria e proprio il non avere più alcuna notizia di migliaia di giovani è purtroppo la normalità.

"Era un preciso aspetto della metodologia repressiva della desapariciòn. Da un lato la gente spariva in modo misterioso - questo serviva a seminare tra la popolazione terrore e incertezza sulla propria sorte - dall'altro, rapire i bambini serviva a distruggere le famiglie dei desaparecidos con l'obiettivo di eliminare per sempre un tessuto sociale potenzialmente in grado di opporsi alla dittatura".

Il testo di Carlotto è profondamente politico, e dà un excursus storico molto dettagliato e molto interessante per lettori che come me della dittatura argentina e dei desaparecidos sapevano davvero poco e niente. "Le irregolari" è infatti un’opera molto breve, ma densissima di nomi, informazioni, date di nascita e di sparizione. Sebbene all’inizio si possa restare un po’ smarriti davanti a questi elenchi, terminata la lettura trovo che abbiano un senso: riescono infatti a riprodurre la quantità delle decine di migliaia di desaparecidos di cui non si sa più nulla, e trovarsi davanti a questi numerosissimi nomi fa capire al lettore la proporzione di una tragedia di cui la politica internazionale si è disinteressata per decenni, garantendo così impunità per i colpevoli

"Trentamila solo i desaparecidos, ma è una cifra puramente simbolica perché non tutte le famiglie hanno fatto denuncia di scomparsa: qui la gente ha ancora paura. Capisce cosa voglio dire?". "Poi bisogna aggiungere i quindicimila fucilati nelle strade o ammazzati nei finti conflitti a fuoco organizzati dalla polizia e dall'esercito, novemila detenuti politici, e un milione e mezzo di esiliati" aggiunse Margarita "Ma noi, all'inizio, non potevamo immaginare che li avrebbero ammazzati tutti".


"Le irregolari" è anche un racconto di grande umanità, proprio perché ogni storia viene raccontata con nomi e cognomi, e di ognuno dei desaparecidos di cui Carlotto scrive conosciamo piccoli scorci delle giovani vite interrotte.

Ero una maestrina dell'infinita provincia argentina. Oggi sono la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, ho girato il mondo denunciando i crimini della dittatura e tengo conferenze alla facoltà di pediatria. Laurita aveva ragione quando disse ai suoi sequestratori che non li avrei mai perdonati, che li avrei perseguiti fino alla morte… Evidentemente mi conosceva più di quanto io conoscessi me stessa.

Altri ritratti assolutamente memorabili sono ancora di più quelli delle nonne: di queste donne, ormai spesso anziane, che ogni giovedì si riuniscono in Plaza de Mayo e marciano per cercare giustizia, per avere non la lista dei morti, bensì i nomi degli assassini: perché è proprio questo che vogliono, ovvero che i responsabili delle sparizioni e dei decessi dei loro figli, del rapimento dei loro nipoti, non restino impuniti come a tutt’oggi sono, spesso ancora in ruoli di potere. Queste donne intrepide, "irregolari" come dice proprio il titolo del libro, sono dei personaggi storici importantissimi che io fino ad oggi non conoscevo e proprio per questo sono molto felice di aver letto il testo di Carlotto, nonostante numerose pagine siano davvero un pugno nello stomaco.

Ci hanno chiamate in tutti i modi: pazze, terroriste, comuniste. Ci odiano perché abbiamo condiviso la nostra maternità, perché viviamo in modo comunitario perché non siamo le classiche vecchiette piegate dal dolore e dalle disillusioni. E ci odiano soprattutto perché non siamo come le altre: siamo irregolari e chiediamo alla gente di disobbedire perché senza giustizia non può esserci democrazia.


Credo che la lettura di "Le irregolari" sia estremamente importante; non avevo sentito parlare molto di questo libro prima di acquistarlo ed è un vero peccato perché della storia dell’Argentina non si studia granché, ed il libro di Carlotto, guidato in qualche modo dallo spirito del nonno che lo chiama in Argentina e gli fa ballare dei passi di tango suo malgrado, è un ottimo modo per avvicinarsi ad essa.

mercoledì 10 marzo 2021

Il gioco delle rondini

La letteratura araba è una di quelle che più mi interessano, ma non è fatta solo di romanzi: anche nel campo della nona arte ci sono volumi che meritano di essere scoperti! Questo è il primo che ho scelto.


Titolo: Il gioco delle rondini
Autrice: Zeina Abirached
Anno della prima edizione: 2007
Titolo originale: Mourir, partir, revenir - Le Jeu des hirondelles
Casa editrice: BeccoGiallo
Traduttore:
Pagine: 192


LA STORIA

Una notte, nel mezzo del conflitto civile in Libano del 1984, due fratelli si trovano separati dei genitori, che non riescono a ritornare a casa per paura di essere colpiti da un cecchino. Nella notte quindi fanno compagnia ai bambini gli altri abitanti del palazzo: un ex professore di letteratura francese, una governante, un uomo che ha imparato ad arrangiarsi, due coniugi in attesa del loro primo figlio. Nell’unica stanza dove si sentono al sicuro, riparati da un muro portante, fanno passare la notte costellata dai rumori delle bombe che cadono, tra giochi, letture e cibi consumati insieme per vincere il buio e la paura.

COSA NE PENSO

Pluripremiato negli Stati Uniti e in Francia, viene riconosciuto all'opera di Zeina Abirached l'aver rappresentato un conflitto troppo spesso ignorato al punto di venire dimenticato.
In questo fumetto autobiografico la scrittrice e fumettista utilizza il nero come colore dominante: il nero che rappresenta la notte, che rappresenta l’oscurità nella quale si ha paura di non veder tornare la luce del giorno a causa degli spari e delle esplosioni. Questi sfondi neri danno luce ai personaggi, che resistono nel mezzo di un conflitto armato, che pensano al loro domani pur consapevoli della tragedia in cui si trovano a vivere.
I volti disegnati dall'autrice sono ricchi di espressione: gli occhi sono vivaci e i tanti dettagli che arricchiscono le vignette riescono in qualche modo a rievocare l’innocenza dei bambini che, seppure spaventati, hanno trovato la loro normalità nel mezzo di una guerra.
Apre infatti "Il gioco delle rondini" una citazione che sottolinea come chi è nato e cresciuto in un conflitto non potrà mai uscirne veramente; degna di nota è anche la conclusione, anch’essa una frase significativa: in questo caso la vera e propria spiegazione del titolo, la scritta sul muro che definisce il "gioco delle rondini" -il partire, tornare e andarsene via di nuovo.
"Il gioco delle rondini" è un fumetto accessibile anche ad un pubblico di giovanissimi, perché racconta una notte di guerra senza mostrare violenze. Al tempo stesso però spiega in modo estremamente chiaro e comprensibile che cosa comporti il vivere in una zona di guerra, limitandosi ad un piccolo spazio in cui vivere e dovendo sottostare a tutte le privazioni che ne conseguono. 
Ho trovato questo fumetto molto riuscito ed emozionante nella sua semplicità: sarà di certo una lettura che consiglierò, non tanto agli esperti dell'argomento quanto ai neofiti, ai curiosi nei confronti della letteratura libanese e anche ai ragazzi. 

lunedì 8 marzo 2021

Madame Bovary

I classici della letteratura francese sono stati una delle mie più recenti scoperte: ho iniziato da Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, ho continuato con "Il conte di Montecristo" e ora è stata la volta di Madame Bovary.


Titolo: Madame Bovary
Autore: Gustave Flaubert
Anno della prima edizione: 1857
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Maria Luisa Spaziani
Pagine: 423



LA STORIA

Emma è una giovane donna che è attratta dal bel mondo, dalla ricchezza e sogna una vita avventurosa, priva di noia. Purtroppo non è questo che otterrà accettando di sposare Charles Bovary, un medico dalle modeste aspirazioni e dei sentimenti onesti e sinceri, per quanto non travolgenti. Emma ha bisogno di molto altro e con Charles si annoia in fretta; nata una figlia femmina al posto del maschietto che avrebbe desiderato, Emma è facilmente preda delle conoscenze maschili che ruotano attorno alla sua casa. Così, in un crescendo di insoddisfazione, si fa dominare da passioni che non la rendono nemmeno felice, ma alle quali non riesce a resistere.


COSA NE PENSO

Scritto nel XIX secolo, "Madame Bovary" fu considerato un romanzo estremamente scandaloso poiché l’adultera era una donna e compiva questi tradimenti sotto il naso di un marito onesto e lavoratore. Flaubert scrisse quest'opera ispirandosi a da un lato a se stesso e dall’altro ad una sua amante, la poetessa Louise Colet, con la quale ebbe una fitta corrispondenza oltre che una passionale relazione; numerosi tratti di Louise si ritrovano nel personaggio di Emma e questo non è un complimento per la donna che ha sinceramente amato lo scrittore ma verso cui Flaubert non mostra alcuna indulgenza.
Ad Emma infatti  non viene riconosciuto alcun tratto caratteriale positivo: viene descritta come una donna dai gusti frivoli, superficiali, che si lascia trascinare dalla passione del momento, sia essa la religione o più spesso un uomo. La si dipinge come una cattiva madre che abbandona la figlioletta innocente alle cure di una balia in condizioni deplorevoli, come una moglie fredda, distaccata, dai comportamenti sempre scorretti nei confronti dell’irreprensibile -per quanto ingenuo- marito.
Charles era là, aveva il berretto calcato fin sulle sopracciglia, e le grosse labbra tremanti aggiungevano una nota di stupidità al suo viso; perfino la schiena, quella sua schiena tranquilla, riusciva a irritarla quando la guardava: le sembrava di vedervi spiegata sopra la finanziera tutta l'insulsaggine che lo caratterizzava.
A Charles Bovary Flaubert riconosce un’onestà nei sentimenti che gli permette di essere comprensivo nei confronti di quest’uomo che di certo non ha un carattere forte e impositivo: Charles non è un personaggio virile, non è un medico ambizioso, ma è un uomo il cui amore è assolutamente sincero e trasparente. In Emma si rivede lo stesso Flaubert con le sue incostanti passioni, le sue frequenti infatuazioni, eppure non gliele perdona. Come se vedesse nel suo personaggio i lati peggiori di sé, Flaubert sembra punirla per questo con un giudizio insindacabile, imponendole una fine atroce che viene descritta nel romanzo sin nei minimi dettagli.


Anche per questa conclusione così cruda, così dettagliata e minuziosa il romanzo di Flaubert fece scandalo. Alla sua eroina nulla viene perdonato e nessuno in realtà esce bene da questo romanzo, in cui i difetti la fanno da padrone: è difficile provare empatia per Emma, che non viene mai descritta come un personaggio positivo, tuttavia da lettrice donna ho faticato a non immedesimarmi in alcune delle sue insofferenze, in certe sue ambizioni verso una vita più varia ed eccitante. In fondo Emma è molto giovane quando si sposa, non sa bene cosa aspettarsi e si ritrova da subito in una realtà che le sta troppo stretta
Prima di sposarsi, Emma aveva creduto di essere innamorata, ma la felicità che sarebbe dovuta nascere da questo amore non esisteva, ed ella pensava ormai di essersi sbagliata. Cercava ora di capire che cosa volessero dire realmente le parole felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri.
Di certo si possono giudicare in maniera negativa il suo comportamento all’interno del matrimonio e la sua tendenza a non essere mai soddisfatta, ma cosa c’è di più umano di questo? Scritto ormai due secoli fa, "Madame Bovary" è un romanzo ancora estremamente attuale, che ha molto su cui riflettere, ed Emma è una protagonista che non si dimenticherà facilmente. 
Era convinta che l'amore dovesse arrivare di colpo, accompagnato da luci e fragori, simile a un uragano celeste che piomba sulla vita, la sconvolge, travolgendo la volontà come foglie secche, e trascina ogni sentimento nell'abisso. Non sapeva che la pioggia a goccia a goccia crea laghetti sulle terrazze delle case, quando le grondaie sono otturate, e avrebbe continuato a credersi al sicuro se d'improvviso non avesse scoperto una falla nelle sue difese.
Flaubert è anche un bravissimo scrittore sia nel caratterizzare i personaggi sia nel costruire alcune scene incredibili, come quella del dialogo tra Emma e il primo dei suoi amanti nel corso di una rappresentazione alla quale assistono, e la scena dello scandaloso incontro in carrozza: la tecnica del mostrare senza raccontare riesce a Flaubert alla perfezione, e in gran parte del romanzo sembra di assistere ad un film davanti i propri occhi, proprio per quanto sono vivide le scene descritte.


Sono rimasta sorpresa dalla scorrevolezza di questo romanzo che come ogni classico temevo molto. Mi ha interessata al punto da leggere, appena terminata la lettura, anche il saggio "Cercando Emma" che Dacia Maraini ha dedicato al classico di Flaubert, analizzando proprio la figura di Emma Bovary in relazione alla corrispondenza tra Flaubert, Louise Colet e altri conoscenti dello scrittore. Attraverso le lettere e l’analisi del testo del romanzo, l’autrice mette in luce aspetti che altrimenti non sarei stata in grado di comprendere allo stesso modo; è la prima volta che mi trovo ad accostare un testo di critica alla lettura di un romanzo e devo dire che ne sono uscita arricchita e molto soddisfatta: credo che sarà un’esperienza che ripeterò in futuro!

mercoledì 3 marzo 2021

Hotel Silence

Di letteratura islandese ho letto molto poco: due romanzi di Stefansson (di uno ho scritto già qui) e un classico di Natale di cui mi sono innamorata, "Il pastore d'Islanda". Ho deciso di proseguire con questa autrice molto apprezzata in patria che mi è stata consigliata da mia madre.


Titolo: Hotel Silence
Autrice: Audur Ava Olafsdottir
Anno della prima edizione: 2016
Titolo originale: Or
Casa editrice: Einaudi
Traduttore: Stefano Rosatti
Pagine: 189


LA STORIA

Jonas è un uomo di mezza età profondamente insoddisfatto della propria vita: sua madre sta perdendo la memoria ed è ricoverata in una struttura, sua moglie lo ha lasciato e quella che per 26 anni ha creduto essere sua figlia si scopre essere in realtà biologicamente nata da un altro uomo. Questo fa prendere in considerazione a Jonas l’idea del suicidio, che però sceglie di non commettere in patria per non essere ritrovato proprio da sua figlia e non farla soffrire. Così intraprende un viaggio per un paese non identificato, dove è appena terminata una guerra; qui alloggia all’Hotel Silence del titolo e la sua strada incrocia quella di due fratelli sopravvissuti al conflitto armato, che gli faranno riconsiderare la decisione che aveva preso.

COSA NE PENSO

Il titolo originale di "Hotel Silence" significa in realtà "Cicatrici": le cicatrici Jonas le porta sul corpo (e ne non sappiamo il perché) e certamente le ha anche nell'anima. Le cicatrici lo accomunano al suo vicino Svanur, anche lui alle prese con la sua solitudine, a Maì e Fìfì, i due fratelli che gestiscono l'albergo e ad Adam, figlio di lei, che ha cinque anni e disegna solo col nero e col rosso, perché è nato all'inizio della guerra e ha conosciuto solo il sangue e le macerie.

-Mamma, si sente dire dal tavolo. Per rendere perfetta l’opera aggiunge vari segmenti più corti, come raggi che fuoriescono dalle righe orizzontali, conta cinque dita per ciascuna mano, mettendoci molta attenzione. Ha unito insieme le due persone, si danno la mano. Ha creato due persone, un piccolo uomo e una grande sonna e le ha collocate sotto un sole verde. È il primo giorno del mondo. E vede quanto ha appena fatto, ed è cosa molto buona.

"Hotel Silence" è un romanzo sulle seconde possibilità, in cui un uomo profondamente infelice cerca di dare un senso alla propria esistenza e riesce a ritrovarlo nell’impegno per gli altri. Jonas infatti è un uomo molto pratico, abile nelle riparazioni, nei lavori di edilizia, idraulica ed elettricità, così in un paese distrutto dalla guerra, dove gli uomini sono morti o mutilati, le sue competenze si rivelano estremamente utili. Questo nuovo modo di trascorrere la sua esistenza, che in Islanda era divenuta vuota, fa mettere a Jonas in secondo piano il proprio proposito di porre fine alla sua vita. Lo stesso fanno le parole di Maì, che attraverso i suoi racconti di sopravvissuta e le sue narrazioni della violenza a cui lei, il fratello e il figlio hanno assistito fa ridimensionare a Jonas quelle che riteneva sofferenze insopportabili fino a quel momento.

La mia infelicità nel migliore dei casi è un’idiozia, quando rovine e polvere si aprono davanti agli occhi fuori dalla finestra.

L’autrice racconta un paese distrutto dalle bombe, colpito dal flagello delle mine antiuomo che continuano a mietere vittime, un paese dove tutte le donne hanno subìto violenza e di uomini ne sono rimasti ben pochi. Non si dice di quale paese si tratta, sappiamo che c’è il mare, un mare calmo diverso dall'oceano islandese; sappiamo che c’è una foresta, e che nel paese si trovano numerose opere d’arte di interesse internazionale, specialmente mosaici. Potrebbe essere la Siria, potrebbe essere il Libano, potrebbe essere un paese dell’area balcanica; in base ai miei riferimenti mi sono ritrovata spesso ad immaginarlo come una zona dell’ex Jugoslavia, ma in realtà potrebbe essere dappertutto, e la sua universalità rende ancora più importante il fatto di dare voce ad una situazione estremamente diffusa nel mondo

Il tassista aveva detto la stessa cosa, «stiamo aspettando la pioggia», togliendo la mano dal volante per cambiare marcia e facendo finire la macchina sulla corsia opposta. «E quando pioverà, – aveva continuato, – il livello del fiume si alzerà di sei metri buoni e inonderà i campi che nascondono i cadaveri, e gli scheletri in divisa affioreranno dai laghi senza fondo. Allora potremo finalmente seppellire i morti».

Proprio i passaggi dedicati al ricordo della guerra appena terminata sono quelli che nel romanzo mi sono più rimasti impressi, anche se altrettanto mi sono piaciuti i diari di Jonas che lo accompagnano nel viaggio e dai quali sono tratte le citazioni che accompagnano il racconto. Il libro è narrato in prima persona proprio da Jonas ed è narrato al presente, scelta piuttosto originale che ci fa sentire accanto al protagonista man mano che gli eventi si verificano. Al fianco di Jonas il lettore ritrova il senso dell’esistenza e per questo "Hotel Silence" è un romanzo sulla rinascita, un romanzo sul significato della vita che è possibile trovare anche quando lo si crede perso. È un romanzo anche di grande gentilezza, per via della voce di Jonas che rimane nonostante tutto sempre aperta a ciò che il destino gli propone.

Lo sapevi – dice – che in certi posti le cicatrici sono simbolo di valore? Se ne porti una notevole, sconvolgente, vuol dire che hai guardato la bestia dritto negli occhi, senza farti sopraffare dalla paura. E sei sopravvissuto.

L’unica perplessità nei confronti di questa lettura riguarda le ultime due pagine, il vero e proprio finale che avrei semplicemente voluto diverso. Ritorna in campo infatti Svanur, il vicino che avevamo conosciuto accanto a Jonas nella prima parte del romanzo, al quale non si pensava da allora.

Se gli dicessi: «Svanur, nominami una sola ragione per cui continuare a esistere. Te ne chiedo una, ma tu puoi darmene anche due». E come spiegazione gli dicessi: «Io sono perso». Ecco, cosa mi direbbe: «Io lo capisco, quello che vuoi dire, neanch’io so chi sono». E mi abbraccerebbe qui sulla soglia della porta d’entrata, metà dentro metà fuori, con questo suo corpo da un quintale incastonato in una cornice rettangolare, con la maglietta a maniche corte infilata dentro i pantaloni sul dietro e spenzolante sul davanti.

Mentre Jonas riscopre il senso della propria vita, a Svanur viene riservata una fine tutt’altro che lieta, elemento che ho trovato non necessario. Il finale rimane quasi aperto; ho letto in una recensione su Internet di alcuni lettori che sperano in un seguito a questa storia, anche se io non credo che sia probabile. Devo ammettere che questa conclusione non mi ha completamente soddisfatta, tuttavia non ha inficiato il mio parere assolutamente positivo sul romanzo: una storia che ho sentito farmi bene, essere una di quelle storie che scaldano il cuore e che ci ricordano che, anche quando abbiamo già smesso di crederci, c’è sempre un’altra possibilità che ci aspetta. Ho anche apprezzato molto la scrittura dell’autrice, di cui sono già state tradotte in italiano diverse opere: credo quindi che in futuro ne leggerò altre! Nel frattempo "Hotel Silence" è stato di certo un ottimo libro dal quale cominciare.

lunedì 1 marzo 2021

L'estate che sciolse ogni cosa

Ci sono romanzi che ti chiamano dagli scaffali delle librerie anche quando hai fatto un patto con te stesso e vorresti impegnarti ad acquistare di meno e soprattutto ad evitare i libri non usati. Mi è capitato con questo romanzo e devo dirvelo: non me ne sono pentita neanche per un attimo! 


Titolo: L'estate che sciolse ogni cosa
Autrice: Tiffany McDaniel
Anno della prima edizione: 2016
Titolo originale: The Summer That Melted Everything
Casa editrice: Atlantide
Traduttrice: Lucia Olivieri
Pagine: 379


LA STORIA

In una cittadina dell’Ohio, nell'estate del 1984, un avvocato scrive un annuncio sul giornale tramite il quale invita il diavolo. Lo fa per espiare un errore commesso nel proprio lavoro, sperando di potersi confrontare con le forze del male; all’annuncio però risponde Sal, un ragazzino afroamericano di appena 13 anni. Sal ha grandi occhi verdi, indossa una salopette logora; giura di essere il diavolo, ma sembra soltanto un bambino smarrito. Il suo arrivo però innesca nella comunità una reazione ostile e razzista, dalle conseguenze a dir poco imprevedibili...

La mitezza del passato era stata sostituita da un presente cocente. La temperatura perfetta, soltanto un ricordo. La brezza, scomparsa. Al loro posto un caldo tanto violento da trasformare le ossa in vulcani e il sangue in lava che sgorga dalle loro eruzioni. La gente avrebbe spesso parlato di quell’arrivo improvviso della calura. Era la prova più certa della comparsa del diavolo.

COSA NE PENSO

Nel romanzo di Tiffany McDaniel ci sono personaggi indimenticabili. Il primo è sicuramente Sal, che del diavolo ha ben poco: quello che Sal si porta dietro sono cicatrici sulla pelle, ingombranti ricordi e la sensazione che dovunque lui si sposti lo segua una prepotente sfortuna, che manda in pezzi tutto ciò che lo circonda. In effetti questa sfortuna è difficile da mettere in dubbio, perché ogni persona alla quale Sal si avvicina o si affeziona sembra venire colpita da eventi tragici ed inevitabili non appena entra contatto con lui. Sembra davvero, tra le pagine, che una forza malevola accompagni Sal portandolo a distruggere tutto ciò che tocca: e il lettore vorrebbe soltanto poter incollare insieme i cocci, uno a uno, e difendere quel ragazzino che continua a ripetere di essere il diavolo. 

Sai, Fielding, il fatto è che quando si rompe qualcosa di cui nessuno si cura troppo, si creano delle ombre che prima non c’erano. La ciotola, prima, aveva un’ombra. Una sola. Adesso ogni coccio ha la sua. Dio mio, quante ombre sono state create. Piccoli lembi d’oscurità che d’improvviso, insieme, sembrano più grandi di quanto non fosse la ciotola. È questo il guaio delle cose in pezzi. La luce muore e si fa sempre più tenue e le ombre… quelle vincono sempre, alla fine.

Ci sono poi i figli dell’uomo che ha invitato Sal, il cui secondogenito Fielding è il narratore di questa storia. Fielding la racconta molti anni dopo gli anni '80, quando ormai è un uomo anziano che porta però con sé le conseguenze di quella terribile estate che non è mai riuscito a superare. Fielding è infatti un uomo solo, un uomo che non si fida di nessuno e che ogni volta che ha veramente amato ha finito poi per abbandonare l'oggetto dei suoi sentimenti, prigioniero com'è di sensi di colpa che lo affliggono da quando era soltanto un ragazzino, proprio come Sal. Per oltre settant'anni Fielding si è proibito la felicità, ne è fuggito, l'ha respinta ogni volta in cui l'ha avuto a portata di mano: perché è sempre stato certo di non poterla meritare.

A volte cerco di buttare lì qualche tentativo di scuse. Compro una confezione di palle da baseball. Bianche. Con le cuciture rosse. Prendo un pennarello e ci scrivo sopra, in rosso, Mi dispiace. E poi le lancio. Dove capita. In un vicolo. Lungo il ciglio della strada. Ne ho gettate tante: in mezzo a un campo, in un parco, nel cortile di una casa. Le lancio. E poi aspetto. Aspetto che compaia un dio diciottenne a raccogliere la palla e che mi dica, riportandomela: “D’accordo. Ti perdono, ometto”. 

"L’estate che sciolse ogni cosa" è un romanzo che fa soffrire moltissimo: lo fa dalle prime pagine, in cui già ci rendiamo conto che la catastrofe è dietro l’angolo. Lo fa quando ci racconta l'affetto tra fratelli, e quando ci descrive com'è facile mandarlo in pezzi; lo fa quando ci commuove con una magnifica storia d'amore, pura e innocente, e mentre leggiamo sappiamo che qualcosa andrà storto. Continua a farci male, l'autrice, ogni volta che ai personaggi a cui ci siamo affezionati capita qualcosa di tremendo -e di avvenimenti tremendi in questo romanzo ce ne sono davvero molti. 

Lui le lasciava una poesia appesa alla quercia. Non le scriveva lui, quelle poesie. Erano di Shakespeare, Keats, Whitman, i grandi poeti, le solite, vecchie lusinghe di tutti gli innamorati del mondo. Si nascondeva dietro un albero e la guardava staccare la poesia dal chiodo. Mordendosi il labbro, Dresden tirava i ricci dietro un orecchio lentigginoso e leggeva, a volte tanto a lungo che mi veniva da pensare che le avesse dedicato un intero romanzo. Immagino che leggesse e rileggesse i versi in cerca delle parti che erano meno Shakespeare e più Sal.

La scrittura di Tiffany McDaniel è ipnotica, coinvolgente sin dalle prime righe del suo romanzo -credereste mai che si tratta di un esordio? Le sue parole trasportano il lettore in una cocente estate nell’Ohio, e poi nella roulotte dove Fielding invecchia, insieme alla propria solitudine. Una volta richiuso il libro, le frasi che più ci hanno colpito rimangono nella mente e ci fanno riflettere sugli argomenti che "L'estate che sciolse ogni cosa" riesce a toccare: dal razzismo, il più meschino e crudele impersonato da un vendicativo vicino che sfoga il proprio risentimento per ciò che gli è capitato su tutti gli innocenti che gli ricordino quelle episodio (Sal per primo), fino alla violenza domestica, ai traumi del passato e all'omofobia

Fu bello. Tutte quelle foglie. Tutta quella luce. Il sorriso sul viso di lei. Il sollievo di lui di essere ancora amato. Di non averle ancora strappato l’amore a pugni.

Attraverso il personaggio di Fielding che, vittima di un’educazione religiosa figlia della sua epoca, non è in grado di comprendere il fratello quando ne avrebbe tanto bisogno, l'autrice sembra dirci che sono i rifiuti da parte delle persone che ci circondano ad avere le più nefaste conseguenze. È quando veniamo allontanati, quando veniamo aggrediti, accusati, rifiutati da coloro che dovrebbero accoglierci, che non è più possibile alcuna salvezza.

Non ero destinato a essere un uomo violento. Ero destinato a ereditare il carattere di mio padre. E di mia madre. Invece alla fine ricevetti in eredità il carattere di quella estate. Quell’estate divenne mio padre. E mia madre. L’origine della mia violenza.

In effetti non c'è salvezza in questo romanzo, nonostante io ci abbia sperato più volte, da grande amante del lieto fine quale sono; non ci sono in questo libro né salvezza, né perdono e in fondo nemmeno speranza. Questo potrebbe sembrare un deterrente alla lettura, ma in la crudele comunità che Tiffany McDaniel ci mette davanti è talmente vera e talmente ben descritta che io la ritengo assolutamente imperdibile -anche se questo non è un libro che può essere letto a cuore leggero, aspettandosi una storia ristoratrice. Sappiate comunque che vi troverete davanti a dei passaggi incredibilmente poetici, a episodi incredibilmente struggenti che faranno malissimo alla vostra anima, ma al tempo stesso vi faranno percepire, una volta giunti all'ultima pagina, di aver appena terminato un capolavoro.