venerdì 25 agosto 2017

Dovremmo essere tutti femministi

Da molto tempo desideravo scoprire quest'autrice nigeriana di cui molto si è parlato negli ultimi anni, ed ho pensato di approcciarmi al suo stile a partire da un volumetto estremamente breve, che consiste nella riscrittura di un intervento alla conferenza TED.

Titolo: Dovremmo essere tutti femministi
Autrice: Chimamanda Ngozi Adichie
Anno della prima edizione: 2014
Titolo originale: We Should All Be Feminist
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 44

Ci troviamo davanti ad un testo di non-fiction, nel quale si ripercorrono le tappe di un processo di presa di coscienza dei propri ideali femministi. Molti degli episodi citati hanno avuto luogo in Nigeria: circostanze in cui si presume che sia l'uomo colui al quale appartiene il denaro all'interno di una coppia, in cui le donne non possono entrare da sole in ristoranti o locali, o in alberghi senza che si presuma siano prostitute.

Altri esempi sono molto vicini anche alle circostanze più occidentali: donne alla guida di grandi aziende alle quali non si perdonano comportamenti che da parte di un uomo sarebbero ritenuti legittimi, bambine da cui si pretende un atteggiamento remissivo, a cui non si concedono gesti aggressivi, da cui ci si aspetta un'innata gentilezza verso il prossimo, ragazze alle quali si ricorda costantemente l'importanza di trovare un marito.


L'intervento alla conferenza TED di Chimamanda Ngozi Adichie, avvenuto nel 2012, ha avuto un importante eco nel mondo (è stato per esempio ripreso in una nota canzone di Beyoncé ed ha fatto da apripista alle dichiarazioni dell'attrice Emma Watson) ed ha permesso all'autrice di parlare del femminismo in termini diversi da ciò che spesso viene accusato di essere.
Chimamanda Ngozi Adichie infatti ripete più volte che essere femministe non significa affatto odiare gli uomini, bensì che gli uomini stessi dovrebbero essere femministi, liberarsi dagli stereotipi che li costringono a mostrarsi forti a tutti i costi, rendendoli così sempre più fragili. Ci ricorda inoltre, in un importante passaggio, il ruolo fondamentale dell'educazione: solo un'educazione femminista impartita alle nostre figlie, così come ai nostri figli, potrà cambiare i ruoli consolidati che ancora opprimono entrambi i generi.
Questa riflessione sull'educazione è stata portata avanti da una successiva opera dell'autrice, "Cara Ijeawele", che ho intenzione di leggere prossimamente, così come sono molto incuriosita anche dai suoi romanzi. 
[Aggiornamento: qui la recensione del primo romanzo dell'autrice, L'ibisco viola]

martedì 22 agosto 2017

Continua a camminare

La copertina cartoon di questo libro potrebbe far pensare ad una lettura lieve, forse persino poco profonda. Siamo davanti invece ad un romanzo potente e ricco, dove la finzione si mescola alla realtà, la poesia alla prosa.
 
 
 
 
Titolo: Continua a camminare
Autore: Gabriele Clima
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 160
 
 
 
 
 
I protagonisti di questo romanzo sono due tredicenni, Salim e Fatma, le cui voci si alternano nei capitoli del libro. Salim vive ad Aleppo, insieme ai suoi genitori e suo fratello Abed; Fatma invece abita a Damasco, ama moltissimo il suo nonno che suona il rabab all'albero di melograno, ed ha un padre e un fratello con idee molto rigide riguardo ciò che una donna può o non può fare -e la seconda categoria è molto più nutrita della prima.
 
In Siria ci sono fucili, kalashnikov, bombardamenti di provenienza incerta. Le case sono ridotte in macerie, molti hanno perso la vita sotto quei brandelli di muro o per le strade. Abed si aggira per Aleppo ed ha una missione: dalle case distrutte salva i libri che riesce a trovare, progettando la riapertura di una grande biblioteca pubblica; ne ha già salvate migliaia, ed è convinto che i libri saranno in grado di fermare la guerra. Purtroppo sul breve periodo sembra non avere ragione, e proprio per questo a Salim e a suo padre non resta che mettersi in viaggio, con poche speranze, per scappare dalla Siria in guerra.
 
Molto diversa è la famiglia di Fatma (e potremmo davvero dire: purtroppo per lei). Suo fratello Khalid, che tanto ama e da sempre la chiama la sua rosa di Damasco, nel corso del conflitto si è radicalizzato ed ha convinto il padre ad un trasferimento nella città di Raqqa. Per il tredicesimo compleanno di Fatma le ha fatto un regalo davvero discutibile: una cintura di esplosivo con la quale potrà cambiare il mondo in meglio come sperava. Fatma è giovane ed ingenua, ma non ha alcun desiderio di compiere un attentato suicida; sente la mancanza del nonno rimasto a Damasco, a cantare all'albero di melograno, e mentre il fratello la abbandona nel deserto diretta ad una base militare cerca un modo per sfuggire a quell'infausta missione.
 

la biblioteca sotterranea di Daraya
(fotografia di Humans of Syria)

 
Gabriele Clima ha scritto un libro nel quale c'è molto da scoprire. Innanzitutto i suoi personaggi sono romanzati, ma Abed e Fatma esistono davvero: qui un articolo su Abu Malek, che a Daraya (una zona della città di Damasco) ha realizzato una biblioteca sotterranea con libri salvati dalle macerie; qui invece la vicenda di Spozhmay, bambina irachena costretta dal fratello ad indossare una cintura piena d'esplosivo.
 
Uno degli aspetti di questo romanzo che ho preferito è la presenza, in ogni capitolo, di una poesia di un poeta o una poetessa siriani contemporanei: un modo per conoscere un Paese dalle sue parole, dalla sua antica e nobile tradizione letteraria che spesso non arriva sugli scaffali delle nostre librerie. La lettura di queste poesie (tratte da testi che si trovano indicati alla fine del libro) è un ottimo spunto per approfondire, diversi dei volumi in cui sono contenute sono disponibili anche in italiano.
 
Apparentemente dunque siamo davanti ad una storia semplice: due voci narranti, due adolescenti davanti alla tragedia del conflitto siriano, che affrontano il dolore della perdita della vita come la conoscevano e si trovano ad avere a che fare con armi, distruzione e morte. Salim si aggrappa al libro di poesie appartenuto al fratello mentre si mette in viaggio verso l'Europa; Fatma ha anche lei a che fare con qualcosa di troppo grande, che non comprende fino in fondo e dal quale anche lei deve scappare.
Tuttavia sotto la superficie di una narrazione chiara, flashback esplicativi e personaggi molto giovani dal linguaggio appropriato, questo libro parla di un tema attuale e troppo spesso ignorato, in quanto lontano da noi, davanti al quale chiudiamo gli occhi e cambiamo canale.
Questa storia è una finestra su un mondo in guerra, sull'esodo dei profughi che cercano di avere salva la vita in un altro continente, arricchita dalle parole dei poeti che questa realtà l'hanno vissuta direttamente e la raccontano con le loro parole, accompagnando le vicende di Salim e di Fatma -personaggi che è un vero piacere incontrare.
 

martedì 15 agosto 2017

La prima verità

Simona Vinci è la mia autrice preferita, qualifica che le ho attribuito una decina di anni fa senza mai revocarla, nonostante le sue pubblicazioni non siano frequenti e nel corso degli anni le mie letture siano aumentate considerevolmente di numero: nessuna scrittrice come lei ha scritto pagine che mi abbiano fatto sentire così compresa nel modo di provare sentimenti, nella tipologia di sentimenti provati (l'amore di Stanza 411 è così simile al mio modo di viverlo che all'epoca seppe sconvolgermi). Non potevo dunque perdermi il suo ultimo romanzo per nessuna ragione.




Titolo: La prima verità
Autrice: Simona Vinci
Anno della prima edizione: 2016
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 397




 
Grecia, 1992. Angela è una volontaria che si reca insieme alla cugina su un'isola greca, Leros, dove da decenni si trova una struttura per malati mentali, nella quale i pazienti sono a dir poco maltrattati ed abbandonati a se stessi, in attesa soltanto che la loro vita abbia fine. Gli abitanti dell'isola non se ne curano affatto, l'unico loro pensiero è non perdere quel lavoro sicuro per quanto disumano, mentre i volontari come Angela che vi si recano per un periodo soltanto ne rimangono sconcertati.
 
Le vite abbrutite nel manicomio di Leros si sono intrecciate, alla fine degli anni '60, con quelle dei confinati politici, di coloro che per il regime della Dittatura dei Colonnelli erano scomodi, e su quell'isola erano sottoposti a torture e costretti all'isolamento senza alcuna possibilità di fuga. Le piccole storie dei malati mentali incrociano la Storia della nazione, e degli uomini che hanno cercato di cambiarla. Tra loro c'è Stefanos, un poeta comunista (ispirato al poeta realmente esistito Ghiannis Ritsos), che scrive su ogni brandello di carta che riesce a trovare; Teresa, una delle ragazze del manicomio, impara a memoria le sue poesie finché le violenze e i soprusi non prendono il sopravvento, facendo riaffiorare i traumi del suo passato. Anche il piccolo Nikolaos, che tutti credono muto e chiamano Temistokles, fa amicizia nel suo bizzarro modo con il poeta, e ne nasconde le parole dove i soldati e i guardiani non possano distruggerle.
 
Questo romanzo non racconta soltanto le vite prive di futuro e speranza che albergano nella struttura psichiatrica che alla fine degli anni '80 fece tanto scalpore (qui un'intervista a Iannis Lukas, il medico che vi lavorava).
In parallelo alla ricostruzione di quelle vite, Simona Vinci racconta di Budrio, il suo paese natale nella provincia bolognese, dove già da prima della legge Basaglia i "mattucchini" si mescolavano lungo le strade al resto degli abitanti, in una convivenza alla quale tutti erano abituati. A Budrio Simona Vinci è nata e cresciuta, ha affrontato i disturbi mentali della madre per poi rendersi conto dei propri, una volta adulta: si mette a nudo in un coraggioso capitolo estremamente personale, e da Budrio riparte per raccontarci un viaggio in Sierra Leone, i suoi abitanti nell'unico ospedale psichiatrico del paese incatenati ai letti, traumatizzati dalla guerra civile, abbandonati a se stessi.
 
Il romanzo si conclude sulle coste di Leros dove aveva avuto inizio: nell'ospedale, delle centinaia di persone ne sono rimaste poche decine, ma ora nuovi individui vi sono accolti (se di accoglienza davvero si può parlare) dopo uno sbarco dalla Siria o da altre zone di conflitto o povertà, alla ricerca di una vita migliore che a Leros probabilmente non riusciranno a costruirsi e spereranno allora, come i confinati di un tempo, di potersene andare ad inseguire il futuro tanto sognato.
 

Una fotografia di Giuliana Rogano
scattata nell'ex ospedale psichiatrico di Leros
Quella di Simona Vinci è un'opera insolita ed interessante, vincitrice del Premio Campiello 2016. Si tratta di un romanzo complesso, composto da capitoli che sembrano libri a loro volta, tanto sono differenti le storie che ci raccontano. Il filo conduttore è quello della mente umana e dei suoi tanti angoli d'ombra, ed il modo in cui la società decide di emarginare, rinchiudere, addirittura torturare coloro che non corrispondono al modello dominante, quegli abitanti scomodi, difficili da gestire.
 
Come ho già detto, Simona Vinci è l'autrice che preferisco da giorni lontani, quando mi capitò per le mani la sua raccolta di racconti "In tutti i sensi come l'amore" e mi colpì in profondità, pur essendo io tutt'altro che amante dei racconti brevi. Da allora ho letto tutti i suoi romanzi che sono stati pubblicati, eccezion fatta per "Scheletrina - Cicciabomba" che risale al 2012 ed ho intenzione di recuperare quando mi sarà possibile procurarmelo, magari con un prestito interbibliotecario.
 
Fermo restando che ne adoro lo stile, che il suo modo di descrivere sentimenti e personaggi è così vicino alla mia sensibilità che ogni volta ne rimango sbalordita, questo non è il romanzo che ho amato di più tra i suoi.
Suddividerei il mio giudizio in due parti: quella relativa ai primi capitoli, ambientati a Leros, dove incontriamo Nikolaos, Stefanos, Teresa e Basil, dove Angela incontra Lina e sfoglia gli incartamenti incompleti che riguardano quei bambini, quegli uomini e quelle donne ridotti a fantasmi che si aggirano per corridoi e cortili. Questa parte del romanzo mi ha appassionata, commossa, coinvolta; lo avrebbe reso facilmente uno dei libri più apprezzati fino ad ora nel 2017.
 
Nella seconda parte, da Budrio alla Sierra Leone, ho ammirato il coraggio di elaborare la propria infanzia, i disturbi della madre ed i propri, da bolognese quale sono ho anche rivissuto l'ambientazione di provincia, i bizzarri personaggi che popolano i paesi dei dintorni. Il viaggio in Sierra Leone invece, per quanto sia caratterizzato dal tema centrale dell'intero libro, non sono riuscita ad apprezzarlo del tutto: non l'ho trovato contestualizzato come avrei preferito, mi è parso un di più non necessario al resto dell'opera e non è riuscito ad appassionarmi, rovinandomi un po' l'impressione complessiva sulla lettura.
 

venerdì 11 agosto 2017

Sette minuti dopo la mezzanotte

La trama di questo romanzo si deve a Siobhan Dowd, una pluripremata autrice per ragazzi prematuramente scomparsa a causa di un tumore. Di suo ho letto lo scorso anno "Il mistero del London Eye", che a dire il vero non mi era piaciuto, ma dopo questa lettura ho deciso di dare una seconda possibilità a qualche altra sua opera.
 


Titolo: Sette minuti dopo la mezzanotte**[vedi nota a piè di pagina!]
Autore: Patrick Ness (da un soggetto di Siobhan Dowd)
Titolo originale: A monster calls
Anno della prima edizione: 2011
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 222
 




Conor ha tredici anni e un papà lontano fisicamente ed emotivamente (-a quella che supponiamo sia Inghilterra, per la nazionalità dell'autore e dell'ideatrice e perché i personaggi sono anglofoni, si è infatti trasferito negli Stati Uniti. La solitudine di Conor però è dovuta non all'assenza del padre, ma alla malattia della madre: sin dall'inizio ci accorgiamo delle gravi condizioni di salute in cui la donna versa, troppo debole per le più quotidiane azioni.
 
Come se non bastasse, fuori dalle mura di casa permeate dal dolore e dalle medicine, Conor è vittima dei bulli della scuola e viene tenuto a distanza da quelli che erano i suoi amici, per i quali sembra diventato invisibile da quando sono venuti a sapere della malattia di sua madre. Di notte, Conor ha un incubo ricorrente, del quale si rifiuta di parlare. Finché una notte, alle 12:07, il grande albero del giardino (un tasso, per la precisione) viene a svegliarlo per fare un patto con lui: racconterà a Conor tre storie, ma poi sarà il ragazzino a raccontarne una a lui, e la storia che gli racconterà sarà proprio l'incubo che lo perseguita.
 
Una scena del film "Sette minuti dopo la mezzanotte"
di J. A. Bayona (2016)
 
Siobhan Dowd, l'ideatrice di questa storia, doveva purtroppo conoscere bene il dolore e la malattia, e la sensazione della morte incombente -la stessa che non le ha dato il tempo di completare la stesura del libro, di cui questi elementi sono i fili conduttori.
Nonostante abbia i toni della fiaba, per via dell'elemento "mostruoso" (anche se quest'albero mutaforma non mi è sembrato, devo ammetterlo, tanto mostruoso quanto affascinante!) e per le fiabe stesse che l'albero racconta a Conor, con protagonisti streghe, principi e guaritori, resta l'elaborazione del lutto il tema principale.
 
Ne risulta un romanzo straziante, dall'atmosfera magica ed intrigante (mi ha ricordato molto la lettura, ormai lontana nel tempo, de "Il segreto del bosco vecchio" di Dino Buzzati), ma al tempo stesso ineluttabile. Vi è tra le pagine una profonda comprensione dei sentimenti umani davanti alle grandi tragedie della vita, prima tra tutti la rabbia, il rifiuto di accettare ciò che sta capitando ai nostri cari.
L'elemento dell'albero-mostro svolge il ruolo di una guida nel processo di elaborazione, aiuta Conor a sfogare le emozioni che invece reprime, ci ricorda -nel caso ne avessimo bisogno- l'importanza fondamentale delle storie nel comprendere quello che la vita ci costringe ad affrontare.
 
Nonostante ne avessi lette recensioni entusiaste, questo romanzo (proposto ad un pubblico di lettori adolescenti, ma assolutamente adatto ad una fascia di età superiore) mi ha molto meravigliata. Certo lascia una sensazione di lacrime in fondo alla gola, certo non lo consiglierei a chi è alla ricerca di una lettura rilassante per svagarsi nel caldo dell'estate: tuttavia è un libro profondo, sull'importanza dei sentimenti e persino degli incubi che parlano al nostro inconoscio, ed è riuscito ad emozionarmi davvero.
 
**L'unica critica che mi sento di fare è quella alla traduzione del titolo: i "sette minuti dopo la mezzanotte" fanno di certo riferimento alle numerose apparizioni notturne dell'albero-mostro, che si verificano proprio a quell'ora; tuttavia esso si manifesta anche alle 12:07 di giorno in un diverso episodio. La traduzione pertanto mi lascia un pochino perplessa...

martedì 8 agosto 2017

Non ti faccio niente

Paola Barbato è una sceneggiatrice di Dylan Dog, fumetto che ho collezionato per anni, dal primo numero al trecentesimo. Che fosse quindi un'esperta di incubi e paure già lo sapevo, ma ciò nonostante la lettura di "Non ti faccio niente" è riuscita comunque a sorprendermi ed ora ritengo che sia anche un'ottima scrittrice.



Titolo: Non ti faccio niente
Autrice: Paola Barbato
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Piemme
Pagine: 420





In questa storia c'è un "cattivo" che la polizia ha cercato per anni. Vincenzo nella sua vita ha rapito 32 bambini, al ritmo di un paio all'anno: bambini trascurati, quando non abusati. Dietro di sé, lasciava una paperella gialla di gomma, al posto di quei bambini che avrebbe di lì a poco restituito alla famiglia, dopo aver loro regalato pochi giorni di spensieratezza, giochi, dolci, regali, nella speranza che una volta riportati a casa fossero più amati, ricevessero più attenzioni; nella speranza, insomma, di salvarli.
Vincenzo a sua volta era stato un bambino trascurato, e sulla sua strada c'era stato un vero orco, di cui nessuno si era mai accorto, da cui nessuno lo aveva mai salvato.
Il cattivo di questa storia non è poi così cattivo.
Trent'anni dopo, quei bambini sono diventati adulti. Molti di loro sono davvero stati salvati, molti di loro hanno avuto a loro volta dei figli, ma non sono ancora al sicuro: un nuovo "cattivo", che questa volta è veramente cattivo, rapisce i loro bambini, uno a uno, con l'unico scopo non di salvarli, ma di ucciderli. Dietro di sé lascia, come Vincenzo, una paperella gialla di gomma.
Quando Vincenzo, ormai adulto, si accorge dalle notizie sui media del collegamento tra i nuovi casi ed i suoi bambini, che ancora ricorda in ogni particolare e con grandissimo affetto, viene assalito dal senso di colpa. Decide allora, con la complicità della sua compagna Nives, di avvertirli tutti, i suoi bambini diventati adulti, ti metterli in guardia, di salvarli di nuovo. Mentre si mette sulle loro tracce però, anche alcuni di quei bambini salvati (quelli senza figli: che si sentono al sicuro) si riuniscono, guidati da Giacomo, che oltre all'intenzione di salvare i bambini degli altri ha anche quella di ritrovare Vincenzo -e forse vendicarsi, o forse no.
In realtà quando Giacomo, Daniele, Michela e Bianca (loro i protagonisti dell'avventura parallela a quella di Vincenzo e Nives) ritrovano quell'uomo che trent'anni prima li aveva allontanati dalle loro famiglie quello che provano è un profondo affetto che si risveglia dopo decenni di lontananza, un sentimento che li commuove e li fa sentire fratelli tra loro. Purtroppo nessuno è al sicuro, sulle tracce di un assassino, e la morte in questo romanzo non colpisce soltanto i bambini.


Che Paola Barbato sia bravissima nel descrivere le paure l'ho già detto all'inizio di questa recensione. Il suo stile è asciutto, coinvolgente, vi ho ritrovato delle influenze evidenti della penna di Stephen King (quelle taglienti frasi in corsivo, alla fine dei paragrafi).
In questo romanzo mescola il bianco e il nero fino a spingere il lettore a chiedersi: è davvero così semplice dividere il mondo in "buoni" e "cattivi"? Certi colpevoli non potrebbero invece essere dei veri innocenti?
Paola Barbato inoltre è madre di tre figlie: questo particolare (raccontato in modo dolcissimo sulla pagina Facebook del suo compagno, Matteo Bussola, e nel libro che lui ha scritto dove numerose sono le osservazioni sulla propria paternità, "Notti in bianco, baci a colazione") traspare a mio parere nella grandissima capacità di materializzare le paure peggiori di ogni genitore amorevole. Non traspare però soltanto negli incubi, ma anche nella profonda conoscenza delle dinamiche tra le bambine, nella comprensione che dimostra del loro mondo interiore quando lo racconta -aggiungendo un valore in più a questo riuscitissimo romanzo.
Un altro aspetto che ho particolarmente apprezzato è la maestria nel costruire un personaggio femminile memorabile, seppure non protagonista, anzi proprio la spalla di quello che potremmo considerare il protagonista: mi riferisco a Nives, la compagna di Vincenzo, che da anni rimane accanto alla vita solitaria di quell'uomo così fragile, così emotivo, amante dei gatti e di ogni piccola vita indifesa. Nives che è il suo opposto e proprio per questo i due sono una coppia così forte, lei che ne prevede ogni mossa, che ne conosce ed anticipa ogni gesto, perché il loro amore si basa sulla solidità di lei, sul suo carattere che nulla teme, tranne perderlo: perché solo quello metterebbe fine al suo mondo.
Se vi raccontassi qualcosa del finale, vi rovinerei senza alcun dubbio la lettura, perciò mi asterrò dal fornire dettagli che potrebbero facilmente tramutarsi in spoiler. Tuttavia ritengo importante sottolineare come questo si sia rivelato, negli ultimi capitoli, un romanzo sul senso di colpa, non soltanto quello di Vincenzo, al quale però ci ritroviamo all'ultima pagina ad imputare un'unica colpa: quella di non averli, davvero, salvati tutti. Non aspettatevi però una conclusione che vi lasci l'amaro sul palato, perché Paola Barbato sa regalare anche al termine di un thriller così tormentato, un balsamo benefico sulle ferite che ci riconcilia col mondo.
Chiedo venia, se avessi rivelato involontariamente troppo: ma con una maggiore sintesi avrei sentito di non aver reso giustizia a questa lettura, che ho amato molto e che mi ha tolto il sonno per due sere consecutive.

martedì 1 agosto 2017

Due mogli. 2 agosto 1980

Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, alle 10:25 del mattino. Le vittime furono 85, oltre 200 i feriti.
Bologna è la mia città. Mia madre quel giorno avrebbe dovuto prendere un treno per il mare insieme alle sue amiche. Avevano sedici anni, e la sera prima decisero di rimandare. L'attentato del 2 agosto lo videro al telegiornale.
 
 
 
 
 
Titolo: Due mogli - 2 agosto 1980
Autrice: Maria Pia Ammirati
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 139
 
 
 
 
Il romanzo di Maria Pia Ammirati racconta il 2 agosto 1980 raccontando le storie di personaggi diversi, alternando i capitoli: i membri della famiglia Di Giacomo, i componenti della famiglia Bianchi e Marina.
 
Marina è l'unica narratrice in prima persona, perché lei è la Storia: lei è il personaggio reale all'interno del libro, Marina Gamberini, una dei superstiti alla strage. Il 2 agosto 1980 è in ufficio, alla scrivania, a svolgere il proprio lavoro circondata dalle sue colleghe ed amiche.
 
Matilde Di Giacomo è una donna modesta, madre di due figli maschi, con un marito preciso e un po' noioso. Lei è una risparmiatrice, organizzata e previdente. Il 2 agosto 1980 i Di Giacomo al completo stanno per partire per le vacanze da Roma, dove abitano; Matilde va a salutare Marta, la sua vicina ed amica, l'unica con la quale riesce (anche se con un po' di imbarazzo) a parlare di intimità e di sesso.
 
Marta Bianchi ha cinque figlie femmine, belle ed indipendenti. Del suo matrimonio non è soddisfatta (a fine capitolo scopriamo anche che il marito la tradisce con una donna più giovane, pur rimanendo affettivamente legato alla famiglia), così come della figlia Gianna, la maggiore delle sue ragazze, che ha lasciato Roma ed ora lavora alla stazione di Bologna.
 
La mattina del 2 agosto 1980 i Di Giacomo si mettono in viaggio e mentre il padre guida ed i ragazzi litigano la radio passa la notizia dell'esplosione. Così alla tragedia collettiva, al momento della Storia, si aggiunge quella privata dell'auto dei Di Giacomo e dell'incidente che cambierà le loro vite.
 
Gianna quella mattina scambia il proprio turno di lavoro con una collega, per seguire un seminario all'università. Scopre in aula quanto è successo alla stazione, ed inizia allora la sua ricerca dell'amica, il suo senso di colpa per quello scambio che il destino ha reso così importante.
Lo stesso senso di colpa accompagna Marina dal momento in cui, esploso il suo ufficio e trascorse intere ore sotto le macerie, suo padre guidato da un istinto inspiegabile riesce a trovarla e far sì che venga estratta, viva, da ciò che resta della stazione. Marina da allora si chiede perché lei, tra tutte le sue colleghe che erano giovani, vive, donne di una nuova generazione di lavoratrici con la propria vita in mano, perché solo lei abbia avuto diritto a quel futuro che sognavano e costruivano giorno dopo giorno.
 
 
 
Questo romanzo mi ha sorpresa molto, ne ero incuriosita senza aver ancora sentito alcun parere a riguardo ed il mio al termine della lettura è decisamente positivo. Maria Pia Ammirati ha conosciuto personalmente Marina ed è certo anche grazie alle conversazioni con lei che riesce a costruire un romanzo coinvolgente e credibile, che non scade mai nel voyeurismo tanto frequente quando si ricostruiscono fatti tragici.
 
Un altro aspetto che mi ha colpito molto è la capacità dell'autrice di dipingere una generazione di donne, quelle (come racconta in questa interessante intervista) nate negli anni '40 che sono diventate madri da giovani, che non hanno partecipato alle rivendicazioni del '68 e alla fine degli anni '70 hanno ancora molto da scoprire sulla propria individualità. Marta e Matilde sono casalinghe, impegnate ad occuparsi della prole e del focolare; i loro mariti restano sullo sfondo, occupati sul lavoro, poco coinvolti nella vita domestica. Gianna e Marina invece sono la nuova generazione: ragazze che lavorano, orgogliose del proprio ruolo nella società, che alla stazione di Bologna si sentono a casa -prima che la bomba scoppi, e la sicurezza diventi un ricordo lontano.
 

Bambina affittasi

Gli Istrici della casa editrice Salani erano libri molto popolari negli anni della mia infanzia, ma ammetto che per quanto fosse già famosa Jacqueline Wilson non mi è mai passata per le mani. Ho deciso una ventina di anni più tardi di colmare questa lacuna, anche perché mi è capitato di notare in biblioteca come i suoi titoli siano ancora considerati attuali ed apprezzati dai giovani lettori di oggi.




Titolo: Bambina affittasi
Autrice: Jacqueline Wilson
Anno della prima edizione: 1991
Titolo originale: The Story of Tracy Beaker
Casa editrice: Salani
Pagine: 138



Tracy Beaker ha dieci anni e vive in un istituto, perché non ha un papà e la sua mamma non può occuparsi di lei. Questa mamma che però Tracy conosce è molto presente nelle sue fantasie e nei suoi sogni notturni, e la speranza che venga a trovarla o ritorni a prenderla non svanisce nonostante la prolungata assenza della genitrice -che con ogni probabilità non farà più ritorno.

Questo romanzo è il diario di Tracy: l'istituto infatti fornisce ai suoi piccoli ospiti un quadernone nel quale annotare i propri pensieri, e per Tracy è l'inizio di una grande passione per la scrittura che dalla semplice scrittura di un diario le farà scrivere quella che definisce una vera e propria autobiografia. 
La vita di Tracy non è stata semplice: oltre all'abbandono da parte della madre, è stata già allontanata da due famiglie affidatarie fino a superare l'età in cui per i bambini è più semplice venire adottati. Nelle pagine del suo quadernone però più che del suo passato ci parla del suo presente, delle schermaglie con le coetanee dell'istituto, i suoi desideri (dalle Smarties ai panini di McDonald's, fino ad una famiglia che la ami) e nelle ultime pagine dell'incontro con una scrittrice, Cam, che potrebbe cambiare il corso della sua vita se decidesse di adottarla.

Tracy Beaker nelle illustrazioni di Nick Sharratt

Tracy è una protagonista tenace e ribelle, con la lingua tagliente come lei stessa la definisce. Ha imparato ad indossare una corazza per proteggersi dalle avversità e dalle delusioni, pur rimanendo sensibile ed aperta ai sentimenti (anche se dichiara di non piangere mai, soffre infatti di un sospetto "raffreddore da fieno" che si manifesta solo in certi, emozionanti momenti...). 

Jacqueline Wilson ci racconta con grande delicatezza e una pungente ironia una realtà difficile, quella dei bambini in attesa di adozione, sapendo intenerire ma senza mai cadere nel pietismo o nei toni strappalacrime. Ho trovato questa lettura godibilissima e Tracy molto simpatica, anche se davvero impegnativa, in grado a ragion veduta di spaventare Cam all'idea di farla entrare nella propria vita. Un aspetto prezioso accompagna la lettura: quello delle illustrazioni, dalla divertentissima matita di Nick Sharratt. 

Sono rimasta piuttosto sorpresa al trovarmi davanti ad un finale aperto, tutt'altro che conclusivo, rispetto al lieto fine che invece mi sarei aspettata mentre leggevo la storia di Tracy. 
Ho scoperto grazie ad una ricerca online che c'è un ottimo motivo per questo: "Bambina affittasi" è infatti solo il primo di tre libri dedicati a questa piccola, furbissima protagonista, seguito da "O la va o la spacca" e "Tracy superstar". Da questo libro ho inoltre scoperto che è stata tratta una serie televisiva inglese composta da cinque stagioni, che è stata trasmessa nei primi anni 2000. 
Questa lettura è stata un piacevole recupero, un tuffo in un romanzo per l'infanzia meritatamente molto popolare, in grado di essere spiritoso ed al tempo stesso affrontare tematiche importanti e profonde senza, per una volta, indulgere nella pietà per i "poveri protagonisti" evidenziando invece le loro molte risorse.