giovedì 27 gennaio 2022

I ventitré giorni della città di Alba

Beppe Fenoglio è un autore che ho incontrato per la prima volta negli anni del liceo. L'ho riscoperto da poco con la lettura del breve romanzo "La malora" e ho deciso di recuperare la sua produzione in ordine cronologico. Ecco finalmente letti "I ventitré giorni della città di Alba", raccolta di racconti che ormai era diventata maggiorenne sui miei scaffali!



Titolo: I ventitré giorni della città di Alba
Autore: Beppe Fenoglio
Anno della prima edizione: 1952
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 164



Si tratta della prima opera che Fenoglio poté pubblicare e descrive una realtà vissuta dall’autore in prima persona: quella della Resistenza nelle Langhe e la difficoltà del reinserimento nella società di coloro che erano stati giovanissimi combattenti. Fenoglio infatti, richiamato alle armi nel 1943, divenne partigiano dopo l’8 settembre. 

Nei suoi racconti mette in luce aspetti della Resistenza, che all’epoca della pubblicazione negli anni 50 furono considerati poco lusinghieri ed eroici, ma che oggi cogliamo come realistici e non per questo dispregiativi. Fenoglio mette in luce la paura di ragazzini che lasciavano le proprie famiglie per una causa in cui credevano, o anche soltanto per imitare i coetanei, e si trovavano ad un tratto a rischiare la vita con le armi in mano. Lo fa in particolare nei racconti "Gli inizi del partigiano Raoul" e "Un altro muro".

Un altro tema centrale è poi il disorientamento di chi si trova, una volta terminata la guerra, a reinserirsi in società. Essendo cambiati per via delle esperienze vissute, dopo essersi sentiti utili, importanti per le sorti del paese e costantemente in pericolo, è molto difficile per dei ragazzi giovani riadattarsi ad un contesto di pace nel quale ricoprire lavori più o meno ripetitivi e accettare il fatto che dopo aver subito traumi non sia più visti dalle persone con gli stessi occhi. Se ne parla in particolare in "Ettore va al lavoro" dove un ex partigiano fatica a trasformarsi in operaio, "L'acqua verde" (drammatico e poetico dove possiamo solo immaginare il vissuto del protagonista) e "L'odore della morte" che racconta chi è tornato dalla prigionia in Germania. 

Pochissimi sono i sentimenti positivi e di speranza che Fenoglio lascia provare al lettore in questa raccolta, dove la giovinezza è una costante ma non per questo i protagonisti sono spensierati -la guerra quindi emerge come un evento traumatico che ha segnato una generazione. L’unica eccezione alla regola la fa il racconto "Nove lune" che alla fine ci regala una serenità, anche se faticosamente conquistata.

Nel complesso è una lettura che consiglio assolutamente a tutti coloro che sono interessati alla letteratura partigiana. Come sempre mi capita nelle raccolte ci sono racconti che mi hanno coinvolta e colpita di più e altri meno, ma la lettura è assolutamente meritevole anche soltanto per la pulizia del tagliente stile di Fenoglio, che ci regala incipit e conclusioni indimenticabili. Due tra tutte, quelle del primo e dell’ultimo racconto "I ventitré giorni della città di Alba" e "Pioggia e la sposa": insieme questo incipit e questa chiusura compongono un cerchio narrativo di grande efficacia e ricercatezza.

Di certo prossimamente proseguirò nella lettura delle opere di questo scrittore, purtroppo scomparso a quarant’anni appena e che quindi non ha avuto modo di pubblicarne una grande quantità.

Qual è l’ultima raccolta di racconti che avete letto?


*Gli inizi del partigiano Raul: preferito fino a ora. La prima giornata e notte da partigiano di uno studente di seconda superiore, che si trova davanti una realtà diversa da come aveva idealizzato, e di notte fa gli incubi.

*Un altro muro: 24 ore di prigionia del giovane partigiano Max che, badogliano, viene liberato grazie a un cambio organizzato dai preti; mentre il compagno di cella, garibaldino, gli viene assassinato accanto.

*Ettore va al lavoro: ex partigiano che non trova la disciplina di mettersi a lavorare. 

*L'acqua verde: le difficoltà che possiamo solo immaginare del ragazzo che raccoglie pietre per trovare la morte nell’acqua verde del fiume. 

*L'odore della morte: La ritroviamo anche nella malattia che si porta dietro chi è stato durante la guerra prigioniero in Germania e torna danneggiato nel corpo e nello spirito e si trova rifiutato da chi prima lo accoglieva, il caso di Attilio dove ne vediamo il decadimento pieno di rabbia e di sconforto.

*Nove lune: Racconta la gioventù dei concepimenti fuori dal matrimonio di ragazzi terrorizzati che sanno di doverlo confessare alle famiglie e in questo racconto nove lune è forse l’unico dove il finale ci regala una sorta di serenità per quanto ottenuta con fatica.

I sommersi e i salvati

Una necessaria premessa: trovo molta difficoltà a raccogliere le parole per parlare di quest'opera in modo tale da renderle giustizia. 
Questa non è stata la prima volta in cui mi sono trovata a leggere Primo Levi: quando ero adolescente ho fatto la sua conoscenza attraverso "Se questo è un uomo", opera d’esordio autobiografica che trasmette in modo inequivocabile la tragedia dei campi di concentramento e l’esperienza di un sopravvissuto. 



Titolo: I sommersi e i salvati
Autore: Primo Levi
Anno della prima edizione: 1986
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 196



Ho poi approfondito con la lettura de "La tregua" il ritorno di Levi dal campo di concentramento alla sua Torino, e finalmente mi sono decisa a leggere "I sommersi e i salvati" pubblicato a decenni di distanza e certamente l’opera più riflessiva sull’esperienza della deportazione, della prigionia e della sopravvivenza. 

Si tratta di un’opera estremamente lucida che raccoglie riflessioni su diversi argomenti. Prima tra tutti: la capacità dei sopravvissuti di testimoniare un’esperienza strettamente privata e differente da quella di coloro che Levi definisce "i sommersi", in contrasto appunto con "i salvati", e che costituivano la maggioranza poiché non hanno avuto alcun privilegio che abbia permesso loro di sopravvivere. Levi si sente proprio un privilegiato e avverte la necessità di farsi testimone. 

Ragiona inoltre sulle responsabilità e sulle colpe, certo di chi ha gestito i campi, di chi li ha progettati, di chi ha perpetrato inimmaginabili violenze sui prigionieri, ma al tempo stesso la maggiore responsabilità l’attribuisce a tutti coloro che hanno taciuto, che hanno fatto finta di niente e che hanno reso possibile una simile strage. 

Levi riporta infine le corrispondenze con cittadini tedeschi che hanno letto "Se questo è un uomo" in seguito alla sua traduzione e riflette su domande che gli sono state spesso poste anche nel corso di incontri nelle scuole: per esempio "Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati?". Analizza il tutto in maniera estremamente chiara e convincente, lasciando al lettore la sensazione di uscire da quest’opera profondamente arricchito e più consapevole. 

Credo che sia la prima opera di analisi che mi trovo a leggere sull’Olocausto e mi rendo conto di aver imparato molto da questa lettura, che mi ha colpito per gli innumerevoli spunti di riflessione e per la scrittura del suo autore, così capace di trasmettere in modo semplice contenuti importanti e complessi. 

Mi rendo sempre più conto di come la produzione di Levi sia da recuperare il più possibile. Obiettivo a lungo termine, certo, perché è stato un autore prolifico! Ma piano piano porterò avanti anche questo progetto di lettura.

La promessa

Vincitore del Booker Prize 2021, "La promessa" di Damon Galgut è un romanzo sudafricano che racconta oltre alle vicende della famiglia Swart anche ciò che avviene nel Paese nel corso di diversi decenni.


Titolo: La promessa
Autore: Damon Galgut
Anno della prima edizione: 2021
Titolo originale: The Promise
Casa editrice: Edizioni E/O
Traduttrice: Tiziana Lo Porto
Pagine: 278


Si passa dall’apartheid alla presidenza Mandela fino alle dimissioni di Zuma; abbiamo quindi una nazione dove dapprima vige la segregazione razziale e poi ci si adatta, volenti o nolenti, alla convivenza tra bianchi e neri, a dovere un rispetto formale e non sentito a coloro che si ritenevano fino ad un attimo prima soltanto dei servi e degli inferiori. 

I protagonisti di questa saga familiare sono tre fratelli: Amor, Anton e Astrid. Li conosciamo ragazzini al funerale della madre appena morta di cancro, e sarà proprio in occasione di altre cerimonie funebri che i fili  dei loro labili rapporti si intrecceranno di nuovo. 

La scrittura di Galgut è uno degli aspetti più interessanti di questo romanzo: ricorda a volte un flusso di coscienza che segue dall’interno sentimenti e pensieri dei suoi personaggi, che conosce tutti nel profondo, anche nei loro aspetti peggiori. 

Sfiora qualche volta un realismo magico di chi percepisce essenze, aure e misteriosa entità, a partire dalla giovane Amor sopravvissuta ad un fulmine sino ad un senzatetto che vede oltre ciò che le persone mostrano. Questo aspetto però è solamente accennato e questo mi è dispiaciuto perché avrei preferito che venisse sviluppato di più. 

Come dice il titolo "la promessa" è un elemento ricorrente nella trama, che incontriamo sin dall’inizio  e che trova un compimento per niente stereotipato alla fine, quando Amor rende la casa promessa alla domestica Salomè, ma la casa ha il tetto bucato, vi entra l’acqua I muri stanno crollando e al figlio Lucas non sembra una promessa così allettante adesso a distanza di trent’anni da quando è stata fatta per la prima volta. 

I personaggi di questa storia sono sfaccettati e l’autore ne mette in luce soprattutto i difetti, le meschinità. Solo ad Amor, la minore, quella che nessuno sembra in grado di comprendere, viene concessa un’integrità morale, una coerenza e la capacità di rispettare gli impegni presi, a differenza invece delle condotte dei fratelli maggiori. Amor è la sopravvissuta al fulmine, è in qualche modo la copia all’opposto della madre che è la prima vittima. Dalla madre è stata fatta la promessa e da Amor verrà finalmente rispettata e con loro che il cerchio si apre e il cerchio si chiude, in una struttura simmetrica che uno dei punti di forza di questa storia.

Nel complesso l’ho trovata una saga familiare dalla struttura molto interessante, ben scritta, ben costruita e capace di caratterizzare i suoi personaggi e il loro contesto in modo credibile: e per questo ve la consiglio!

Qual è l’ultima saga familiare che vi è piaciuta?

Dov'è Anne Frank?

Non è la prima volta che Ari Folman adatta il Diario di Anne Frank in una versione a fumetti. Se la prima pubblicazione, risalente al 2017 e magnificamente illustrata da David Polonsky, era stata estremamente fedele al testo originale e ne aveva riprodotto in modo integrale numerose parti, esprimendosi proprio attraverso la voce della sua autrice, questa volta si impegna in un’impresa più audace. 


Folman infatti attualizza il messaggio contenuto nel diario di Anne in modo tale da renderlo contemporaneo e rilevante per quelli che oggi sono i coetanei della ragazzina. Decide di farlo attraverso un espediente che potremmo quasi definire fantastico: Kitty, il nome che Anne aveva dato al proprio diario, che considerava una vera e propria amica di cui aveva immaginato anche l’aspetto fisico, esce dalle pagine di carta facendosi carne, una vera e propria adolescente nella Amsterdam di oggi. 

In quello che era il rifugio segreto e oggi è la casa museo su Prinsengracht, Kitty viene accusata proprio del furto del diario da cui ha origine, e nella capitale dei Paesi Bassi vive un’avventura il cui messaggio diventa l’importanza di cogliere il contenuto profondo delle parole di Anne, invece di renderla statica e fossilizzata nei tanti edifici che oggi portano il suo nome. 

Come la ragazzina sperava nella bontà dell’animo umano anche quando era meno incline a crederci, e sperava che nessun bambino avrebbe mai dovuto di nuovo nascondersi per non essere deportato come è capitato a lei, la testimonianza portata avanti da Folman passa nelle mani di una piccola profuga che il governo sta per rimpatriare nel suo paese d’origine, devastato dai conflitti armati. Si crea quindi un legame tra gli orrori della storia passata e le atrocità che vengono commesse al giorno d’oggi nel connivente silenzio di tutti, ed è solo un gruppo di ragazzini a sembrare capace di ribellarsi all’ingiustizia: è per questo che il fumetto di Folman è oggi a mio parere estremamente interessante ed efficace. 

Non soltanto del mondo d’oggi però si parla in questa nuova versione a fumetti del diario di Anna: vi trova spazio infatti anche il "dopo", quello che è successo quando nel diario la ragazzina non ha più potuto scrivere, e quindi la sua tragica fine viene trasmessa ai giovani lettori come l’opera autobiografica per forza di cose non può fare. 

L’ho trovata una lettura forte, illustrata magnificamente da Lena Guberman: le ricostruzioni di Amsterdam e dell’alloggio segreto sono impeccabili e alcune scene sulla pista da pattinaggio su ghiaccio sono veramente magiche. 

Credo che sarà un consiglio di lettura che darò a moltissimi adolescenti, sperando che possano cogliere il messaggio con la stessa potenza con il quale è arrivato a me.

Avete letto il Diario? Avete qualche opera correlata da consigliarmi?

giovedì 13 gennaio 2022

Quel che si vede da qui

Dopo lo scontro con "Perché il bambino cuoce nella polenta" che porta con sé molta poesia, ma anche molta negatività, il catalogo della casa editrice Keller torna a farmi viaggiare con la fantasia e a farmi sentire bene con il suo meritevole e originalissimo catalogo grazie a "Quel che si vede da qui" di Mariana Leky. 


Titolo: Quel che si vede da qui
Autrice: Mariana Leky
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: Was man von hier sehen kann
Casa editrice: Keller
Traduttrice:
Pagine: 320


Ci troviamo in Germania in una cittadina del Westerwald, dove la nonna Selma della protagonista è capace di prevedere la morte di un componente della comunità quando nei suoi sogni compare un okapi. Questo elemento che potremmo definire soprannaturale è il pretesto per raccontare le vicende di numerosi personaggi alle prese con la vita, la morte, gli amori, le amicizie e le incomprensioni.

Nonostante la fine della vita sia un elemento ricorrente in questa storia in verità il romanzo trasmette al lettore un grande senso di benessere, attraverso la maturazione della protagonista che conosciamo bambina e vediamo diventare una giovane donna via via più sicura di sé, soprattutto grazie alla presenza costante di personaggi memorabili come la nonna Selma e l’ottico che le rimane sempre accanto.

In questo libro si trattano argomenti delicati, come la violenza e la morte, ma anche la lontananza e la solitudine. Tuttavia numerosi passaggi fanno sorridere di cuore, grazie ai personaggi incredibilmente umani con le loro goffaggini e insicurezze, che rendono lontani dagli stereotipi anche i momenti più romantici.

Nel complesso è stata una lettura che mi è piaciuta molto, mi ha fatto provare tenerezza e serenità, e credo che anche per voi potrà essere un libro terapeutico.

Qual è l’ultimo romanzo che vi ha fatto sentire meglio?

Ho sognato la cioccolata per anni

Lettura che ho affrontato in occasione della Giornata della Memoria, "Ho sognato la cioccolata per anni" di Trudi Birger è la testimonianza di una donna sopravvissuta all'Olocausto.


Titolo: Ho sognato la cioccolata per anni
Autrice: Trudi Birger
Anno della prima edizione: 1992
Titolo originale: A Daughter's Gift of Love
Casa editrice: Piemme
Traduttrice: Maria Luisa Cesa Bianchi
Pagine: 192


Nata a Francoforte in Germania in una famiglia benestante di ebrei ortodossi, Trudi aveva avuto un’infanzia agiata e spensierata fino all’ascesa del Nazismo, che portò la sua famiglia a fuggire finché poté. Era solo una ragazzina quando dovette affrontare l’orrore della deportazione nel lager di Stutthof, seguita ad una altrettanto agghiacciante prigionia nel ghetto di Knovo, città che ora appartiene alla Lituania.

L’amore per i familiari è l’elemento cardine della testimonianza di Trudi Birger, che l'ha scritta molti anni dopo la prigionia, una volta diventata madre e nonna in Israele. 
Una volta perso il padre, ucciso dai nazisti mentre cercava di salvare dalla deportazione dal ghetto e dall’inevitabile esecuzione centinaia di bambini ebrei, a Trudi rimase infatti sua madre, spezzata dalla perdita del marito ma affezionatissima ai suoi figli. È proprio l’amore per la madre dalla quale Trudi non fu mai separata, sia grazie alla propria intraprendenza sia per eventi fortuiti ed imprevedibili, che l'ha spinta a sopravvivere anche nelle circostanze più avverse e inaccettabili. Facendosi forza l’un l’altra le due donne infatti sopravvivranno al lager, conquistandosi faticosamente una vita dopo l’Olocausto. 

Da adulta l’autrice ha fatto dell’aiutare gli altri la propria missione, impegnandosi attivamente nel fornire assistenza alle famiglie di immigrati dall’est Europa in Palestina e più nello specifico cure odontoiatriche gratuite per i bambini. La nota che inevitabilmente mi ha un po’ turbata alla fine della lettura è stato l’elemento fortemente sionista che si fa strada nella Trudi sopravvissuta, al punto che la terra di Israele le appare come un obiettivo e un diritto a titolo di risarcimento, senza tenere conto dei palestinesi che vi risiedevano fino all’immigrazione ebraica di massa di fine anni 40. Non che io non comprenda la necessità di allontanarsi dalla Germania, tuttavia è difficile per me considerare legittima questa rivendicazione territoriale.

Come ogni testimonianza sui campi di concentramento si tratta di un testo commovente e spesso difficile da sopportare, nelle brutalità che ci mette davanti. È una storia di sopravvivenza scritta in modo molto semplice e accessibile anche a dei lettori piuttosto giovani, magari coetanei della ragazzina che era Trudi quando venne strappata alla vita che aveva conosciuto. Credo che possa essere una buona lettura da consigliare nelle classi (nel 2005 ha vinto il Premio Andersen per la categoria dai 12 anni in su), anche perché ogni testimonianza scritta è sempre più preziosa via via che negli anni i testimoni in vita sono sempre di meno.

Avete affrontato delle letture su questo argomento di recente?

Perché il bambino cuoce nella polenta

"Perché il bambino cuoce nella polenta" di Aglaya Veteranyi è purtroppo il primo romanzo della casa editrice Keller che sento non fare del tutto al caso mio. 


Titolo: Perché il bambino cuoce nella polenta
Autrice: Aglaya Veteranyi
Anno della prima edizione: 1999
Titolo originale: Warum das Kind in der Polenta kocht
Casa editrice: Keller
Traduttore: Emanuela Cavallaro
Pagine: 205


L’autrice, figlia di circensi fuggiti dalla Romania e rifugiatisi poi in Svizzera dopo innumerevoli vicissitudini e viaggi, ripercorre in questa opera composta di frammenti una parte della propria infanzia e giovinezza: la paura per la madre che si esibiva in numeri a grandi altezze da terra, un padre violento, dedito all’alcol e all’abbandono ambiguo nei suoi rapporti con la figlia maggiore, amata sorella da cui la protagonista viene separata. Ricorda anche il collegio, vissuto come un’imposizione ma forse unico luogo sicuro in cui sia mai stata.

Quella dell’autrice è una lingua che si esprime per frasi spesso ermetiche, di una poesia scarna. Alterna i caratteri minuscoli a quelli maiuscoli, a volte compone lunghi elenchi o ripete la stessa frase per decine di righe. In alcune pagine c’è una frase soltanto, alcune sono fitte di parole.
È una lingua dura, popolata di immagini macabre, a partire dalla favola rumena che da il titolo al testo; sembra una collezione di incubi, con morti, abusi, rapporti familiari disfunzionali, perdite e separazioni dietro ogni capoverso.
C’è lo spettro di Ceausescu che aleggia sull’infanzia di Aglaya, sulla fuga della sua famiglia, sulla povertà della Romania e la sua elaborazione dei fatti è immaginifica e frammentaria come solo quella di una bambina (per di più poco scolarizzata) può essere.

A quarant’anni l’autrice si è tolta la vita: e le radici di un simile gesto si trovano qui, nel nero cupo che avvolge questo romanzo a dispetto del colore allegro della copertina, e che fa male al punto da essere in diversi passaggi addirittura nauseante. È una lettura che disturba, che non lascia indifferenti: valutate se possa essere un romanzo adatto a voi, io ne sono rimasta molto colpita ma non credo che sarà un titolo che sentirò il desiderio di rileggere.

Dio di illusioni

Da parecchio tempo non leggevo un romanzo appassionante come "Dio di illusioni" di Donna Tartt: nonostante abbia spesso letto pareri discordanti a riguardo (c’è chi lo definisce una lettura noiosa) per me è stato un vero e proprio romanzo calamita, dal quale non sono riuscita a staccarmi finché non l’ho portato a termine.


Titolo: Dio di illusioni
Autrice: Donna Tartt
Anno della prima edizione:
Titolo originale: The Secret History
Casa editrice: Rizzoli
Traduttrice: Idolina Ridolfi
Pagine: 622


Il narratore in prima persona di questa storia è Richard, che ricorda a distanza di diversi anni gli eventi accaduti quando era studente di letterature classiche in un college del Vermont. Qui, attorno al bizzarro professore di greco antico (un esteta estremamente selettivo nella scelta dei propri studenti) si raccoglievano Richard e altri cinque compagni: i gemelli Charles e Camilla, lo studiosissimo Henry, il gentile Francis e Bunny, il meno dotato di tutti sempre a corto di soldi e ma privo di remore nel chiederli al prossimo. È con la morte di Bunny che si apre il romanzo: morte tutt’altro che naturale, ed evento  che condizionerà inevitabilmente le vite dei personaggi.

"Dio di illusioni" ruota attorno a misteri che si svelano pagina dopo pagina, e che riguardano le motivazioni dei personaggi e le imprevedibili conseguenze dei loro gesti, spesso ottenebrati dall’alcol e dalle pillole che consumano con grande facilità. Richard è la pecora nera del gruppo: la sua famiglia non è facoltosa e si ritrova invischiato i rapporti di amicizia che non sempre appaiono trasparenti, in quanto più di una volta la sua presenza è più che altro utile agli altri coinvolti. È una voce narrante alla quale mi sono affezionata nel seguirne la giovinezza sregolata e sperduta, alla ricerca di punti fermi e di certezze che non sembra in grado di raggiungere anche perché nessuno ne ha da offrirgliene, anche tra coloro che dovrebbero formarlo -primo tra tutti il suo professore. Richard appare sostanzialmente come un buono anche se di bontà è difficile parlare in una storia a tinte tanto fosche, e la sua angoscia la percepiamo pagina dopo pagina in aumento, in parallelo a quella del lettore che non può staccarsi dalle pagine prima di aver scoperto che cosa è successo davvero.

[Abbiamo quindi i due omicidi: quello di Bunny che in qualche modo sembra essersela andata a cercare con le pressioni e i ricatti che non ha smesso di far pesare sugli altri, e quello di un uomo che invece si è trovato indubbiamente al posto sbagliato nel momento sbagliato. È proprio quest’omicidio a portare con sé in un effetto valanga quello di Bunny ma anche il suicidio di Henry che, messo davanti alla realtà di vedere come un vigliacco il professore che aveva tanto ammirato (si rivela invece incapace di prendere una decisione in un senso o nell’altro, scoprendo colpevoli i propri studenti di crimini così efferati) non trova altre alternative che sottrarsi ad un mondo le cui regole sono per lui incomprensibili ed inaccettabili.]

Oltre alla trama, avvincente e coinvolgente per tutte le numerose pagine del romanzo, degno di nota è lo stile di Donna Tartt: ricco di riferimenti letterari e di descrizioni mai superflue, ci immerge nella natura e nel clima del Vermont e ci guida indizio dopo indizio, litigio dopo litigio nella psicologia di ragazzi indubbiamente privilegiati ed al tempo stesso così smarriti e soli al mondo. Non mi sentirei di definirlo un romanzo sull’amicizia, e forse soltanto parlando di Richard può essere considerato un romanzo di formazione. L’ho trovato più un romanzo dalle atmosfere cupe, che ruota attorno ad un crimine e che consiglio agli amanti del genere che non sono alla ricerca di una classica indagine polarizzata tra poliziotti e colpevoli. Sarebbe perfetto per trarne un film, ma purtroppo non è ancora stato girato!

Qual è l’ultimo romanzo con al centro un mistero che vi abbia colpiti?

venerdì 7 gennaio 2022

Primo Levi

In occasione della Giornata della Memoria, pochi autori italiani sono rappresentativi quanto Primo Levi. In quest'opera a fumetti scritta da Matteo Mastragostino e illustrata da Alessandro Ranghiasci, pubblicata da BeccoGiallo, la deportazione e la prigionia in lager di Levi vengono raccontate attraverso un incontro con una classe della scuola elementare di Torino che lui stesso aveva frequentato, molti anni prima.



Titolo: Primo Levi
Autori: Matteo Mastragostino e Alessandro Ranghiasci
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: BeccoGiallo
Pagine: 125


Il dialogo con gli allievi è il pretesto per rievocare i ricordi della resistenza partigiana alla quale aveva preso parte in montagna, della morte di due dei suoi compagni che rimase per lui un'esperienza traumatica, e della sua cattura al momento della quale si dichiarò ebreo, potendo scegliere, con conseguenze che non avrebbe mai potuto prevedere.

I disegni in bianco e nero di Ranghiasci dipingono il lager senza fare sconti, rievocandone il gelo, la nudità dei corpi, la violenza e la brutalità, i forni e le camere a gas, la durezza della lingua tedesca, ma anche l'umanità dei due uomini che Levi considerò amici in lager: Alberto, come lui prigioniero ma che dal lager non fece ritorno, e Lorenzo, muratore che come lavoratore civile si occupava dell'espansione del campo di Auschwitz -non si riprese mai da ciò che vide, ma aiutò Primo a sopravvivere al punto che il suo nome torna in quello di entrambi i figli dell'autore. 

Questa biografia a fumetti, lavoro frutto di un'approfondito studio e documentazione sulla vita e le opere di Levi, è cruda e diretta, corredata da un'utilissima cronologia e un'appendice sui personaggi rappresentati. Non mi aspettavo che un lavoro così breve sapesse trasmettere in modo così potente i suoi contenuti, rendendo al meglio lo spirito non violento di Levi e la sua preziosissima testimonianza: per questo ritengo che sia un fumetto da leggere assolutamente, non soltanto in questo periodo dell'anno.