lunedì 25 febbraio 2019

Dimmi come va a finire

Tra le tante notizie a cui siamo ormai assuefatti mentre dovrebbero ogni giorno indignarci e come minimo spezzarci il cuore, di recente sono comparse le tragiche morti di bambini latinoamericani sotto la custodia degli Stati Uniti.
Bombardati come siamo dalla propaganda che vuole spaventarci con gli sbarchi dei migranti sulle nostre coste, e giustificare la disumana chiusura dei porti, non sappiamo molto sulla condizione dei migranti che attraversano il Messico (o partono da esso) per raggiungere la frontiera statunitense; ho deciso di rimediare con la lettura di un saggio che credo tutti dovrebbero leggere.
 


Titolo: Dimmi come va a finire
Autrice: Valeria Luiselli
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: Tell me how it ends
Casa editrice: La Nuova Frontiera
Traduttrice: Monica Pareschi
Pagine: 94
 


L'autrice di questo romanzo è una scrittrice di origine messicana, emigrata negli Stati Uniti, dove oltre a svolgere la propria professione ha assunto il ruolo di interprete dallo spagnolo nei tribunali mentre lei stessa attendeva ancora la propria Green Card.
Da interprete, sono decine e decine le storie individuali con le quali è entrata in contatto, da quelle di bambini di pochi anni a quelle di adolescenti in fuga dalle bande armate della guerriglia, spaventati all'idea di incontrarne membri anche dopo aver intrapreso il percorso migratorio.
 
"Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?" chiedo ai ragazzini in tribunale. Le risposte possono variare, ma spesso indicano un unico fattore di attrazione: riunirsi con un genitore o un altro parente stretto che è emigrato negli Stati Uniti anni prima. Altre volte, le risposte indicano i fattori di spinta, ossia le circostanze inimmaginabili da cui stanno fuggendo: situazioni di violenza estrema, persecuzione e coercizione cui sottoposti da bande organizzate, maltrattamenti fisici e mentali, sfruttamento, negligenza, abbandono. Non è nemmeno il Sogno Americano quello che inseguono, piuttosto l'aspirazione ben più modesta di svegliarsi dall'incubo in cui sono nati.
Valeria Luiselli usa un linguaggio semplice e privo di tecnicismi per metterci a conoscenza di elementi legislativi dei quali i più sono all'oscuro, almeno in Europa. Presi come siamo a provare orrore nei confronti della presidenza Trump, pur avendone tutte le ragioni, non teniamo in considerazione provvedimenti dell'epoca Obama che hanno reso la situazione di questi ragazzini che oggi vediamo morire sotto custodia governativa ancora peggiore di quanto già non fosse.
[…] quando fu dichiarata l'emergenza e l'amministrazione Obama decretò l'iscrizione prioritaria a ruolo per le cause dei minori, la finestra si ridusse a ventun giorni. In termini concreti e reali, l'iscrizione prioritaria significava che le cause riguardanti i minori non accompagnati giunti dal Centroamerica venivano raggruppate insieme e spostate in cima alla lista delle cause pendenti al tribunale dell'immigrazione. Essere in cima alla lista, in questo contesto, era la cosa meno desiderabile, almeno dal punto di vista dei minori coinvolti. In pratica, l'iscrizione prioritaria per i minori significava che le procedure per l'espulsione messe in atto contro di loro venivano accelerate del 94 per cento, e sia a loro sia alle organizzazioni che di solito fornivano assistenza legale veniva dato molto meno tempo per preparare una difesa.
L'eccezione riguarda l'essere messicani. I minori messicani fermati dalla polizia di frontiera possono essere espulsi immediatamente. Non c'è obbligo di dar loro un ricovero temporaneo, non sono autorizzati a cercare di contattare i genitori o i parenti negli Stati Uniti, e certo non viene concesso loro nessun diritto a un'udienza formale in tribunale dove potersi difendere, legalmente, contro un ordine d'espulsione.

Da donna che conosce i percorsi migratori, avendone intrapreso lei stessa uno insieme alla propria famiglia, a Valeria Luiselli l'empatia non manca. Non le manca nemmeno la conoscenza delle motivazioni che spingono migliaia di persone verso gli Stati Uniti, attraenti e avvolti tutt'oggi da un'aura di magia e di potenzialità; la stessa aura che attirava i nostri antenati che hanno attraversato l'oceano, stipati su navi in balia delle onde, disposti ad ogni sorta di sacrificio. Nonostante sia passato ormai più di un secolo, i sentimenti che animano i migranti verso gli Stati Uniti non sono poi tanto diversi da allora.
Negli Stati Uniti, rimanere è il fine in sé e non il mezzo: rimanere è il mito fondante di questa società. Per rimanere negli Stati Uniti, dimenticherai il sistema metrico decimale per poter comprare una libbra e mezza di prosciutto cotto, accetterai il fatto che trentadue gradi, e non zero, è il punto in cui cade la linea che separa il freddo dal gelo. Potresti persino cominciare a festeggiare i Padri Pellegrini che "rimossero" gli indiani "alieni", e i veterani che uccisero altri alieni, e l'elezione di un presidente che un giorno dichiarerà guerra a tutti gli altri cosiddetti alieni. Non importa a che costo. Il costo dell'affitto, del latte, delle sigarette. Le umiliazioni, le battaglie quotidiane. Darai qualsiasi cosa. Ti convincerai che è solo questione di tempo e poi tornerai a essere te stesso, in America, nonostante gli strati della sua alterità abbiano già aderito così bene, uno dopo l'altro, alla tua pelle. Ma forse non vorrai mai più essere quello che eri prima. Ci sono troppe cose che ti legano a questa nuova vita.
Per quale motivo sei venuta qui? ho chiesto una volta a una bambina.
Perché volevo arrivare.
Le domande numero nove, dieci e undici del questionario sono: "Ti piace il posto in cui vivi adesso?"; "Sei felice qui?"; "Ti senti al sicuro?". È difficile immaginare che a questi ragazzi, considerati un intralcio dalle istituzioni e degli intrusi indesiderati da gran parte della società in cui sono appena arrivati, che presto dovranno affrontare un giudice e difendersi contro un ordine d'espulsione, possa davvero "piacere il posto in cui vivono adesso". Nei media e in gran parte del discorso politico ufficiale, la parola "clandestino" prevale su "senza documenti" e il termine "immigrato" su "profugo". Come potrebbe sentirsi "al sicuro" e "felice" chiunque venga bollato come "immigrato clandestino"? Eppure la risposta a queste tre domande di solito è sì.

È difficile trovare le parole per commentare questo saggio, che è brevissimo ma è ad ogni pagina un vero pugno allo stomaco, che spesso mi ha portata vicina alle lacrime pensando alle battaglie che loro malgrado ragazzini giovanissimi si trovano a dover affrontare ad un'età in cui ben altre dovrebbero essere le loro preoccupazioni.
Mi riesce difficile descrivervi il contenuto con una recensione, perché quanto troverete in questo testo è infinitamente più grande del suo spessore in termini di pagine, è emotivamente impegnativo e capace al tempo stesso di fornire informazioni utili e ben spiegate, in modo chiaro e conciso.
L'unico aggettivo che mi viene in mente per raccontarvi quanto ho letto (e che a distanza di giorni ancora mi fa provare un'angoscia profonda, una commozione sincera) è: necessario. Ci sono saggi indispensabili al giorno d'oggi per comprendere la realtà che ci circonda, per non lasciarci ingannare da un'informazione non sempre trasparente, per conoscere davvero ciò che sta accadendo nel mondo; "Dimmi come va a finire" è senza ombra di dubbio uno di questi.
I ragazzi che attraversano il Messico e arrivano al confine con gli Stati Uniti non sono "immigrati", non sono "clandestini", non sono solo "minori privi di documenti". Quei ragazzi sono profughi di guerra e, come tali, dovrebbero avere tutti diritto d'asilo. Ma non tutti lo ottengono.
Dimmi come va a finire, mamma, mi chiede mia figlia.
Non lo so.
Dimmi cosa succede dopo.
Qualche volta mi invento un finale, un finale in cui tutto va per il meglio. Ma di solito dico soltanto:
Non lo so ancora, come va a finire.
 

lunedì 18 febbraio 2019

L'uomo in fuga

Dopo “La lunga marcia”, una nuova lettura del Re dell’Orrore originariamente pubblicata con lo pseudonimo di Richard Bachmann - King è infatti sempre stato talmente prolifico da dover, all'inizio della propria carriera, ricorrere ad uno pseudonimo per non saturare il mercato.


Titolo: L'uomo in fuga
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1982
Titolo originale: The Running Man
Casa editrice: Sperling & Kupfer
Traduttore: Delio Zinoni
Pagine: 258


LA STORIA
Negli anni ‘20 del 2000 i reality show alla tri-vu monopolizzano l’attenzione delle persone, le biblioteche pubbliche non sono più accessibili e l’inquinamento ha raggiunto livelli inimmaginabili, decimando la parte più povera della popolazione per cui è impossibile acquistare filtri nasali efficaci. Anche le cure mediche sono ormai un miraggio per gli abitanti delle periferie, oppresse dalla disoccupazione e dalla fame; tra loro c’è Ben Richards, giovane padre di una bambina a cui non può comprare le medicine per la polmonite. Disposto a tutto pur di guadagnare un po’ di denaro, Ben decide di candidarsi per la partecipazione ad uno dei reality show che, ispirati al sadismo dei giochi tra gladiatori, lasciano i partecipanti gravemente feriti e mutilati o addirittura morti; a seguito della selezione, viene scelto proprio per “L’uomo in fuga”, il più pericoloso tra i programmi: quello in cui è obbligato a scappare senza sosta per un mese intero se vuole salvarsi la vita, e nessuno fino ad allora è mai riuscito nell’impresa.

Arnold Schwarzenegger in una scena del film "The Running Man"

 COSA NE PENSO
Pubblicato nel 1982, il ritratto che King fece della prima metà degli anni 2000 non è dopotutto così lontano dalla realtà nella quale ci troviamo oggi: l’inquinamento atmosferico a livelli preoccupanti, le patologie che ne derivano, l’infimo livello culturale di molta della programmazione televisiva, la sottovalutazione diffusa dell’importanza dei libri.

Il campo di battaglia si apre solo di notte. Di giorno è un silenzio grigio e deserto, senza movimenti, a parte i gatti e i topi e i vermi grassi e bianchi che striscia-no sulla spazzatura. Nessun odore, a parte il lezzo di decadenza, in questo glorioso 2025. I cavi della tri-vu sono al sicuro, sotto terra, e solo un idiota o un rivoluzionario penserebbe di danneggiarli. La tri-vu è la creatrice di sogni, il pane della vita. La Scag viene dodici vecchi dollari a bustina, la Frisco Push venti a tavoletta, ma la tri-vu ti sballa gratis.

La premessa di questo romanzo distopico è appassionante e potente, soprattutto pensando a quante delle profezie in esse contenute si siano in effetti avverate; tuttavia non posso definirlo un romanzo di King che io abbia completamente apprezzato, poiché dalla seconda metà in poi si trasforma più che altro in un racconto d’azione, composto da inseguimenti in automobile e sparatorie. Un film con Arnold Schwarzenegger è ispirato proprio a “L’uomo in fuga”, e spero che questo basti a farvi capire quanto poco rimanga del King onirico al quale siamo abituati. Lo stesso autore, nell’introduzione, dichiara che “L’uomo in fuga”
non è nient’altro che una storia, procede alla velocità ridicola di un film muto e tutto quello che non è storia viene allegramente buttato da parte.
Lo stile è adatto al contenuto del romanzo: non si perde in giri di parole o prolisse descrizioni, è semplice ed efficace, talvolta a scapito della caratterizzazione dei personaggi che avrebbe potuto essere un po’ più approfondita -soprattutto per quanto riguarda gli aiutanti che Ben incontra lungo la sua fuga, ai quali è riservato davvero poco spazio.
Ho trovato “L’uomo in fuga” un King atipico, privo degli elementi legati all’incubo che tanto amo trovare nei suoi romanzi. Confesso di aver preferito, tra le opere del primo periodo della sua produzione, “La lunga marcia”: anche qui l’elemento del percorso obbligato per il protagonista è molto presente, ma emotivamente si tratta di un libro più coinvolgente, che trasmette maggiori emozioni. In conclusione “L’uomo in fuga” non è di certo uno dei capolavori dell’autore, ma chi come me ha un debole per lui fa fatica a tralasciare le opere minori…

giovedì 14 febbraio 2019

Non stancarti di andare

Questa graphic novel è una delle opere che più mi hanno attirata per mesi, e che ho inaspettatamente ricevuto in regalo. Ne ho sentito parlare in ogni dove, ne ho lette recensioni entusiaste pressoché ovunque, e così mi sono accostata alla lettura piena di entusiasmo: ma purtroppo le mie aspettative sono state molto deluse.
Titolo: Non stancarti di andare
Autori: Teresa Radice e Stefano Turconi
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Bao Publishing
Pagine: 320
LA STORIA
Al centro di quest'opera c'è una storia d'amore: quella tra Iris, disegnatrice timida e inesperta, e Ismail, giovane ed attraente professore siriano, specializzato in calligrafia araba. I due si incontrano durante un viaggio che Iris compie in Siria nei primi anni 2000 e si innamorano; lui continua per anni ad andare e venire dal proprio Paese, anche successivamente allo scoppio della guerra civile: ma questa volta fare ritorno non sarà così facile.
L'attesa è infatti il tema chiave di questa graphic novel: l'attesa del ritorno di Ismail da parte di Iris, l'attesa di trovare un modo per tornare in Italia da parte di Ismail, l'attesa del bambino che cresce nel ventre di Iris e del quale Ismail ancora non sa nulla.
COSA NE PENSO
Mentre l'aspetto grafico dell'opera è innegabilmente riuscitissimo -le tavole sono ricche, dettagliate, impreziosite dalla calligrafia araba che io amo tanto, hanno colori sfumati che rievocano le atmosfere dei numerosi luoghi di ambientazione- non mi sento purtroppo di dire lo stesso del contenuto.
Numerosi sono infatti i punti deboli che non mi hanno permesso di apprezzare "Non stancarti di andare" quanto avrei voluto.
Innanzitutto il linguaggio adoperato da tutti i personaggi, ed in particolare dai due protagonisti: le loro frasi abusano di aggettivi qualificativi e termini ricercati, con il risultato di far apparire voci narranti diverse come quasi identiche. Tenendo conto anche del fatto che l'italiano non è di certo la lingua madre di Ismail, i dialoghi perdono credibilità e tutto l'insieme risente di questa piattezza priva di caratterizzazioni personali. Per non parlare poi delle lettere in stampato maiuscolo che Iris scrive al figlio in arrivo, per i miei gusti talmente sdolcinate da diventare insostenibili…
In secondo luogo la carne al fuoco è davvero troppa: alla storia d'amore tra Iris e Ismail si aggiungono nonni desaparecidos, padri mai conosciuti, madri anaffettive e zie d'elezione -il tutto nell'universo di Iris, lasciando in ombra quello di Ismail- , oltre al religioso Padre Saul, ispirato ad una figura realmente esistita, Padre Paolo Dall'Oglio.
Per ultima, la critica forse meno oggettiva: i due protagonisti a me non sono piaciuti. Iris è passiva, certo non ha molte alternative all'attendere notizie di Ismail, non c'è nulla che possa concretamente fare: tuttavia la sua calma, il suo autocontrollo a mio parere non sono credibili. Così come non è realistico presentarla come del tutto all'oscuro dei pericoli e della guerra civile in Siria: chi, con un compagno che va e viene tra i due Paesi, non si informerebbe?
In conclusione, mi dispiace molto scriverlo per via delle altissime aspettative che avevo, ma "Non stancarti di andare" è stata per me una lettura molto deludente. Trovo che banalizzi tematiche come le coppie miste e le loro problematiche, ma soprattutto non mi ha trasmesso il sentimento di paralizzante terrore che io avrei provato al posto di Iris -come, credo, la maggior parte delle persone. Le paure di Ismail invece, bisogna ammetterlo, sono rese in modo migliore e più credibile.
Vi consiglio quindi questo romanzo grafico solo per la bellezza delle sue tavole, che è un piacere osservare in ogni loro particolare; se siete però alla ricerca di una storia ben costruita, potete orientare altrove la vostra scelta!

lunedì 11 febbraio 2019

L'ultimo amore di Baba Dunja

A volte a farci innamorare dei libri sono le loro copertine: nel mio caso è capitato con "L'ultimo amore di Baba Dunja", un romanzo dal formato piccolo e compatto, la copertina ruvida in un bel color mattone, ed un titolo irresistibile.


Titolo: L'ultimo amore di Baba Dunja
Autrice: Alina Bronsky
Anno della prima edizione: 2015
Titolo originale: Baba Dunjas letzte Liebe
Casa editrice: Keller
Traduttrice: Scilla Forti
Pagine: 165


LA STORIA
Baba Dunja è un'anziana signora che abita a Cernovo, un paesino ucraino nei dintorni di Cernobyl: si tratta di un luogo contaminato dalle radiazioni, ormai quasi spopolato. Soltanto alcuni dei residenti originali, ormai decisamente in là con gli anni, vi hanno fatto ritorno tempo dopo la catastrofe nucleare: la prima è stata proprio Baba Dunja. Vedova e madre di due figli emigrati (lui negli Stati Uniti, lei in Germania), la quotidianità di Baba Dunja procede tranquillamente tra i lavori nell'orto e quelli domestici, una lettera della figlia e una visita alla vicina; almeno fino a che la routine della piccola comunità di Cernovo viene sconvolta dall'arrivo di un uomo misterioso e della sua figlia adolescente.

COSA NE PENSO
Il punto di forza del romanzo di Alina Bronsky è senza dubbio la voce narrante di Baba Dunja che, in prima persona, descrive con la sua pungente ironia il mondo che la circonda.

Konstantin, il gallo di Marja, mi sveglia di nuovo durante la notte. Per Marja è una specie di surrogato. È stata lei ad allevarlo, coccolarlo e viziarlo fin da quando era un pulcino; ora è cresciuto e non serve a un bel niente. Si aggira impettito e dispotico per il cortile di lei e mi guarda di sbieco. Il suo orologio biologico è completamente sballato, è così da sempre, ma non credo che abbia a che fare con le radiazioni. Non possono certo essere ritenute responsabili di ogni forma di demenza che compare sulla terra.
Baba Dunja è una donna forte e decisa, che accetta il destino per quello che è e non si perde d'animo davanti alle difficoltà che aumentano con il passare degli anni.
Condivide la propria vita quotidiana con i personaggi del vicinato -una vicina che assume quantità industriali di medicine, uomini ormai centenari che hanno ancora le energie per corteggiarla ma non si preoccupano più di avere cibo a sufficienza da mettere in tavola- che si mescolano alle presenze di coloro che hanno vissuto a Cernovo per anni, ma ormai non fanno più parte del mondo dei vivi.
 I miei piedi non sono sempre stati così grossi. Un tempo erano graziosi e affusolati, ricoperti di fango secco, scalzi e meravigliosi. Jegor adorava i miei piedi. Mi aveva vietato di andare in giro a piedi nudi, perché gli uomini si infervoravano anche soltanto scorgendone le dita. Adesso, quando passa a trovarmi, gli mostro le protuberanze nei sandali da trekking e gli dico: Hai visto che fine ha fatto tutto quello splendore? Lui ride e dice che in fondo sono ancora carini. Da quando è morto è gentilissimo, bugiardo che non è altro.
Baba Dunja è una di quelle protagoniste che raramente si incontrano: una donna che non ha paura di nulla, che dedica i propri pensieri colmi d'affetto ad una nipote che non ha mai conosciuto (e che le scrive una lettera in una lingua per Baba Dunja incomprensibile) e che quando è necessario schierarsi sa benissimo da che parte stare, nonostante le conseguenze che le sue decisioni possono portare con sé conducendola perfino alla cella di un carcere.
Il libro di Alina Bronsky è un gioiellino, che contiene una storia sorprendente narrata in un linguaggio spontaneo e in grado di catturare l'attenzione del lettore per l'intera durata del racconto. Non mi pare sia un'opera molto conosciuta, ed è un peccato, perché vale davvero la pena reperirla!

lunedì 4 febbraio 2019

Le gambe di Alice

Di letteratura africana si discute ben poco; pochissimi gli autori noti al grande pubblico, mi viene in mente solo Chimamanda Ngozi Adichie, nigeriana. Di autori del Ciad non avevo mai sentito parlare finora, e così ho subito colto l'occasione quando ho scoperto questo libro tra gli scaffali della biblioteca.



Titolo: Le gambe di Alice
Autore: Nimrod
Anno della prima edizione: 2010
Titolo originale: Les jambes d'Alice
Casa editrice: Nottetempo
Traduttrice: Cinzia Poli
Pagine: 126


LA STORIA
Nel panorama della guerra civile in Ciad, un uomo fugge insieme alla sua giovane amante Alice, un’attraente giocatrice di basket. Nel viaggio lo guidano unicamente i suoi istinti, fino al momento in cui realizza l’impulsività della propria decisione è Alice a farne le spese, abbandonata come lo era stata anche la moglie dell’uomo nonostante anche lei sapesse renderlo felice.



COSA NE PENSO

In quarta di copertina, una citazione da Le Figaro definisce Alice una “Lolita africana”: il parallelismo non è in effetti del tutto fuori luogo, data sia la giovane età della ragazza (e la differenza da quella del suo amante) sia le caratteristiche che le vengono attribuite dall’autore, dipingendola come una giovane ed inesperta ma consapevole seduttrice:

Così, quando Alice posò lo sguardo su di me, vi lessi affetto, durezza e spavento. Erano tre momenti della fascinazione, tre tappe della catastrofe, tre strati di lava incandescenti. E li assaporavo quasi nella sua stessa bocca.
Detto questo, Nimrod non è Nabokov, e la scrittura di questo libro riesce ad annoiare nel giro di poche pagine, rendendo difficile terminare la lettura nonostante la sua brevità. Le premesse del romanzo, che si apre sulla guerra in Ciad e illude quindi di poterne approfondire l’argomento assai poco noto nel suo svolgimento, rimangono disattese:
Tre settimane di guerra civile hanno sconvolto le nostre vite. Gente fino a ieri notoriamente povera, oggi pare non esserlo più; esibisce astiosa le prove di una ricchezza usurpata. Ci sono ministri che attraversano la strada in pigiama, mentre le loro case sfarzose ardono tra le fiamme. N'Djamena è diventata una città pericolosa. Le banche sono chiuse, l'elettricità e il telefono tagliati; le relazioni d'affari, le reti di amicizia interrotte. Saccheggi, racket e omicidi prosperano. Tutti hanno dovuto cambiare posto, condizione, speranza. E per strada, ognuno, in silenzio, ripercorreva tra sé e sé le tappe di quest'odissea.