lunedì 29 luglio 2019

Nove racconti

Il mio ultimo incontro con J.D. Salinger risaliva agli anni dell'adolescenza, quando "Il giovane Holden" mi ha accompagnata e cambiata in modi che non saprei definire a parole. Temendo di andare a scoperchiare vasi di Pandora di fasi della vita che tendo a preferire sigillati non avevo mai letto altro, nonostante la forte fascinazione per questo autore. 
Ho deciso che era giunto il momento di superare questo blocco autoimposto, e così eccoci qui.



Titolo: Nove racconti
Autore: J.D. Salinger
Anno della prima edizione: 1948-1953
Casa editrice: Einaudi
Traduttore: Carlo Fruttero
Pagine: 230




In questa raccolta compaiono per la prima volta alcuni membri della famiglia Glass, che sarà al centro poi del romanzo breve "Franny e Zooey" e dell'ultimo libro pubblicato da Salinger, "Alzate l'architrave, carpentieri e Seymour. Un'introduzione" -anch'esso composto da due racconti.
Incontriamo infatti Seymour in "Un giorno speciale per i pescibanana", folgorante storia di un reduce di guerra che soffre di stress post-traumatico e che dialoga con una bambina in una località di villeggiatura; vi è poi un riferimento in "zio Wiggily nel Connecticut" ad un uomo che in guerra ha perso la vita, ma prima era stato amato da una delle due amiche protagoniste di un dialogo altrimenti piuttosto frivolo.
Ci sono poi Boo Boo e Lionel, protagonisti di "Giù al Dinghy": una madre e un figlio e la ribellione di quest'ultimo davanti all'ingiustizia del mondo, in particolare agli insulti antisemiti che sono stati rivolti a suo padre.

Illustrazione di Jonny Ruzzo, "A Perfect Day for Bananfish"
Il tema della guerra ricorre all'interno dei nove racconti: è necessario tenere presente l'esperienza vissuta dall'autore, che ha combattuto sul fronte europeo nella Seconda Guerra Mondiale.
La guerra ritorna dunque anche in "Per Esme: con amore e squallore" (il mio preferito tra tutti), dove Salinger racconta l'incontro tra un soldato americano e una ragazzina inglese, a cui basta una mezz'ora per creare un istintivo legame e dare vita ad una corrispondenza che seguirà il militare anche quando dovrà fare i conti con le battaglie che lo hanno segnato.

C'è spazio anche per l'amore in questi racconti, ma non aspettatevi toni da romanzo rosa. Ci sono infatti fidanzate angosciate (Muriel ne "Un giorno speciale per i pescibanana"), le mogli insoddisfatte ne "Lo zio Wiggily nel Connecticut", ma soprattutto un brillante dialogo telefonico tra due amici in "Bella bocca e occhi miei verdi" , dove Arthur è l'emblema degli sbalzi d'umore degli innamorati ansiosi che si raccontano che la propria storia d'amore stia ancora funzionando anche davanti ad ogni evidenza del contrario. 
Io sono troppo debole, per lei. L'avevo capito già prima di sposarla... ti giuro che l'avevo già capito. Tu queste cose non le sai, sei un dritto, tu, non ti sei mai sposato, ma di tanto in tanto, prima di sposarsi, capita che uno vede cosa gli succederà dopo che sarà sposato, come al cinema, quando danno il prossimamente. Io ho chiuso gli occhi. Ho fatto finta di non vederlo, il mio prossimamente.
In questa tematica potrebbe in qualche modo rientrare anche "Il periodo blu di De Daumier-Smith", il più ironico e divertente dei racconti, dove un diciannovenne nel corso di una breve esperienza lavorativa per una scuola d'arte per corrispondenza si infatua della suora di cui ha ricevuto i disegni.
(Credo di avergli detto che detestavo addirittura le sedie. Mi sentivo talmente sulle spine che se mi avesse avvertito che la stanza di suo figlio era allagata, giorno e notte, da trenta centimetri d'acqua, io avrei probabilmente gettato un gridolino di piacere. Gli avrei probabilmente detto che soffrivo di un rarissimo inconveniente ai piedi, una malattia che mi obbligava a tenere i piedi a mollo otto ore al giorno).
Un altro elemento cardine è quello dell'infanzia, dell'innocenza: sono i bambini in Salinger gli unici ad avere uno sguardo puro sul mondo, addirittura gli unici a riuscire a comprenderlo. Vale per Boo Boo, ma vale anche per il bambino di nove anni che racconta in prima persona ne "L'Uomo Ghignante" la perdita dell'innocenza quando il ragazzo a capo del campeggio, per una delusione d'amore, mette fine alla storia che raccontava in pullman: la morte del personaggio rappresenta in qualche modo la fine dell'infanzia stessa.
Un altro bambino protagonista è "Teddy", un piccolo prodigio capace di riflessioni filosofiche di incredibile profondità durante un viaggio in crociera con i suoi non propriamente entusiasmanti genitori; il suo racconto è l'ultimo della raccolta  e lascia il lettore alle prese con una conclusione tutta da interpretare, e forse anche qualche domanda sul senso della vita.
Illustrazione di Jonny Ruzzo, "The Laughing Man"
Lo stile di Salinger è quello che ricordavo a distanza di anni dalla lettura de "Il giovane Holden": capace di caratterizzare un personaggio in pochissime parole, di tratteggiare figure vivide ed indelebili nella memoria in una manciata di frasi. Nei "Nove racconti" Salinger ci regala storie brevi e coinvolgenti, spesso lasciandoci un margine di interpretazione sulle vicende che le rende ancora più intriganti.
Era una ragazza sui venticinque anni, minuta, coi fianchi stretti e dei capelli disordinati, incolori e fragili ricacciati dietro le orecchie, che erano molto grandi. Indossava dei pantaloni al ginocchio, di tela, un pullover nero col collo rovesciato, calze corte e scarpe basse. Ridicolo soprannome a parte, non-bellezza d'insieme a parte, era senza alcun dubbio - nella categoria dei faccini permanentemente memorabili, prodigiosamente intensi -, una ragazza sconvolgente e definitiva.
Commentare i racconti è sempre un'ardua impresa, ed in questo caso lo è ancora di più, perché prevederebbero una conoscenza davvero ampia dell'opera di Salinger e con ogni probabilità anche della sua biografia. Posso affermare con sicurezza che questo sia stato per me soltanto l'inizio di una riscoperta che proseguirà nel tempo, e nella quale vi consiglio di accompagnarmi!

lunedì 22 luglio 2019

E Baboucar guidava la fila

Giovanni Dozzini si mette alla prova in una sfida piuttosto complicata: mettersi nei panni di un gruppo di richiedenti asilo provenienti da diversi stati dell’Africa (Mali, Gambia, Nigeria) che sono rientrati nel sistema di accoglienza di Perugia.




Titolo: E Baboucar guidava la fila
Autore: Giovanni Dozzini
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Minimum Fax
Pagine: 142




LA STORIA
I protagonisti di “E Baboucar guidava la fila” sono Baboucar, appunto, e poi Yaya, Ousman e Robert. Quest’ultimo è il più defilato della compagnia, conosce poche parole di italiano e quasi sempre ha bisogno di una seconda spiegazione in inglese, è l’unico cristiano dei quattro ed è il più giovane, il più fragile, quello che nel sonno viene preso alla sprovvista dagli incubi.
Yaya invece è il più intraprendente; quello che fa da interprete per gli altri, sicuro di sé e della propria padronanza linguistica, sicuro anche della propria avvenenza: facilmente infatti avvicina una donna attratta dal suo corpo giovane e forte, facilmente si concede un’avventura.
Ousman è il più preciso e timoroso dei quattro. La sua richiesta di protezione internazionale è l’unica ad essere stata rifiutata (Robert deve ancora incontrare la commissione, gli altri invece l’hanno ottenuta al primo tentativo) e l’idea di violare qualsiasi regola lo terrorizza, essendo in attesa dell’esito del ricorso.
Di Baboucar sappiamo che apre la fila, quando il gruppo cammina; la sua mente è sempre rivolta a Miriam, ragazza che gli ha rubato il cuore, alla quale manda messaggini e fotografie sperando in una sua risposta che non sempre arriva. È Baboucar che propone al gruppo di andare al mare: ed è questa l’impresa attorno alla quale il racconto di Dozzini si sviluppa.
Nigeriano, gambiano, maliano. Aveva visto gente di ogni tipo e di ogni dove cavarsela molto bene, e altra finire nei guai con estrema facilità. Non c’era una regola, non c’era un senso. Yaya parlava bene, perché la protezione sussidiaria ce l’aveva, e Baboucar lo stesso. Per tutti gli altri era più difficile. Però adesso erano al mare, e questo era un fatto. In qualche modo c’erano riusciti davvero, Perugia era lontana e il mare si trovava a pochi metri da loro […].

COSA NE PENSO

Dozzini si cimenta nella difficile impresa del rappresentare il dopo: quel momento della vita dei migranti in cui sono sopravvissuti al deserto, sono sopravvissuti alle carceri libiche, sono sopravvissuti persino alla traversata del Mediterraneo: e si trovano in un tempo sospeso, ad attendere verdetti inappellabili, a fronteggiare gli sguardi talvolta ostili talvolta curiosi di chi li circonda, a mostrare i documenti ai carabinieri e ai poliziotti che sono gentili solo certe volte. 
Pensò al Gambia lontano, allora, pensò a sua madre, ai suoi fratelli e alle sue sorelle, a suo padre morto in Sudan, pensò a suo zio, ai suoi zii, al compound e alla scuola di polizia. Tutto in una volta. Non devi farlo, si disse. Non devi farlo, Ousman, perché mai dovresti farlo? Erano ricordi da scansare, pensieri da dimenticare. Pensieri inutili, gli aveva detto il dottore, se diventano dolore. Coltiva solo la gioia delle memorie, Ousman, lascia perdere il dolore, e se non saprai lasciar perdere allora versa una lacrima o quelle che servono, e poi ricomincia da zero. 
Quello che ne esce è un romanzo avvincente in cui saliamo sui regionali cercando di sfuggire ai controllori, in cui facciamo il bagno tra le onde salate di un mare non troppo pulito, in cui cerchiamo un bar dove guardare una partita e un posto dove passare la notte. In cui la rabbia non sempre rimane sottopelle, in cui i fantasmi del passato certe volte ci perseguitano e ci portano in un crescendo di tensione a compiere gesti dei quali non andiamo fieri -nei confronti delle stesse persone che chiamiamo amici, gli unici che possono capirci
Si prova anche grande tenerezza in questa storia, a leggere di Robert che abbraccia Yaya mentre dorme, di Ousman che si invaghisce di una cantante folk di una certa età ascoltata in una sagra di paese. Si prova un istintivo affetto per questi ragazzi non ancora adulti, che rischiano di perdere appuntamenti importanti per una giornata di mare, che gioiscono per un cuoricino rosso ricevuto su Whatsapp.
Dozzini li rende umani, li racconta in modo credibile e convincente, ma soprattutto li rende vicini.
In quel momento Robert cominciò a parlare nel sonno. Farfugliò qualcosa di incomprensibile, poi afferrò il braccio di Yaya e gli si accoccolò con la faccia affondata nel bicipite. “Hey”, disse Yaya, e lo abbracciò per tranquillizzarlo. Baboucar gli disse di non svegliarlo, semmai solo di parlargli piano nell’orecchio. Ma Robert era già calmo, stretto addosso a Yaya come fosse un padre, o una madre. 
Certo per giudicare in modo davvero competente quest’opera bisognerebbe essere qualcun altro: uno di loro, di quei ragazzi sopravvissuti a tanto e ora fermi qui, in una sorta di limbo. Credo che però il romanzo di Dozzini abbia un innegabile pregio: quello di far immedesimare il lettore nei panni dei personaggi, di vedere i fatti attraverso il loro punto di vista. Permette di osservare, invece di giudicare; di fare da spettatori e non da arbitri. E in questo la sua narrazione ha senza ombra di dubbio fatto centro.

lunedì 15 luglio 2019

L'educazione

Nell'ultimo periodo ho sentito molto parlare di un memoir di un'autrice esordiente statunitense che ha per tema l'importanza dell'istruzione come mezzo di emancipazione dalle proprie condizioni di nascita, qualunque esse siano. Dal momento che il tema dell'apprendimento e della sua centralità mi è molto caro, non ho esitato e me lo sono procurato appena ho potuto.



Titolo: L'educazione
Autrice: Tara Westover
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Educated. A memoir
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Silvia Rota Sperta
Pagine: 380



LA STORIA

Tara nasce in Idaho, in una famiglia di credo mormone. Cresce a Buck Peak, dove suo padre ha una discarica nella quale recupera rottami e vende metalli a peso, mentre sua madre fa la levatrice presso le case delle donne che scelgono di non partorire in ospedale. 
Tara non frequenta la scuola, non ha un certificato di nascita e se si ammala o si infortuna non viene portata dal medico; ha numerosi fratelli e sorelle, impegnati a sopravvivere ai frequenti incidenti che avvengono in discarica e alle violenze a cui li sottopone Shawn, uno di loro. L'opinione del padre di Tara sembra essere l'unica a contare, almeno fino a che, raggiunti i sedici anni, Tara decide di impegnarsi per entrare al college e riesce a superare l'esame di ammissione...
Le voci le chiedevano sempre di restare in linea quando ammetteva di non sapere quand’ero nata, poi le passavano i loro superiori, come se non conoscere la mia data di nascita delegittimasse il concetto stesso della mia identità. Non puoi essere una persona se non hai un giorno di nascita, sembravano dire quelle voci. Non capivo perché. Fino a quando la mamma non aveva deciso di chiedere il certificato, non sapere quando compivo gli anni non era mai stato un problema. Sapevo di essere nata verso la fine di settembre e ogni anno sceglievo un giorno per il mio compleanno, facendo in modo che non cadesse di domenica perché non è divertente festeggiare in chiesa.

COSA NE PENSO

Tara Westover ha senza dubbio una storia da raccontare: una storia fatta di abusi che non riusciva, da bambina, a chiamare con il loro nome, una storia di privazioni e di ignoranza. Tara ha avuto un fratello violento -i suoi comportamenti sembrano un manuale della violenza sulle donne, un padre dai numerosi problemi psichici (manie di persecuzione, di grandezza, teorie in quantità sull'imminente fine del mondo), una madre fragile e vessata incapace di ribellarsi.
Faccio fatica a credere che il giovane spensierato in quella fotografia sia mio padre. Se penso a lui vedo un uomo stanco di mezza età, spaventato e ansioso, che accumula cibo e munizioni. Non so quando l’uomo nella fotografia sia diventato l’uomo che conosco come mio padre. Forse non c’è stato un momento preciso.
La storia di Tara è una storia di rinascita, attraverso i luoghi di studio nei quali apprende e lentamente si allontana dall'ambiente opprimente nel quale è cresciuta.
“Di tutti i miei figli,” disse, “credevo saresti stata tu la prima a filare via. Non me l’aspettavo da Tyler – è stata una sorpresa – ma da te. Non restare. Vai. Non farti fermare da niente e da nessuno.”
"L'educazione" però non è un libro privo di difetti, anzi. 
Tara ci tiene a raccontare nei dettagli numerosi incidenti avvenuti ai suoi familiari: due incidenti stradali, un incidente in cantiere, diversi altri nella discarica del padre. Ci sono traumi cranici, ferite, fratture, ustioni gravissime; in un solo caso si fa ricorso alle cure mediche. Come dunque i protagonisti di questi episodi -appassionanti perché macabri- riescano ogni volta a sopravvivere solo spalmandosi qualche olio addosso, e a proseguire con le loro vite nonostante la gravità delle lesioni riportate appare piuttosto inverosimile
L’incidente lo trasformò da oratore a osservatore. Faceva fatica a parlare per via del dolore costante, ma anche perché aveva la gola ustionata.
Un altro punto debole di questo memoir è l'effetto noia: specialmente dal momento in cui l'autrice si allontana dalla casa di Buck Peak, la narrazione si trasforma in una sorta di elenco di avvenimenti e di incontri, di frasi riportate da conversazioni e di viaggi; non posso certo definire questi capitoli conclusivi coinvolgenti, anzi l'impressione che ne ho ricavato è stata una certa fretta di terminare lo scritto. 
Nel complesso si tratta di un libro che ho trovato parzialmente interessante, ma che credo avrebbe potuto essere sviluppato meglio
Ne scaturisce infatti un ritratto impietoso di una famiglia giustificata per anche troppo tempo, la consapevolezza di una donna che trova se stessa a poco a poco, ma anche una serie di aneddoti rilevanti soltanto per la protagonista in questione. 
In tutta onestà non me la sento di consigliarvelo, a meno che non siate appassionati di storie ambientate in comunità di fondamentalisti religiosi che si preparano all'Apocalisse... In questo caso, "L'educazione" potrebbe essere un'ottima lettura per voi! 

lunedì 8 luglio 2019

L'uomo seme


Molto spesso scopro per caso i titoli da leggere, negli espositori della biblioteca oppure grazie agli articoli di giornale. A volte però sono le recensioni di altri lettori ad incuriosirmi, ed è questo il caso di un libretto poco noto e piuttosto datato che altrimenti non credo avrebbe incrociato il mio percorso.



Titolo: L'uomo seme
Autrice: Violette Ailhaud
Anno della prima edizione: 1952
Titolo originale: L'homme semence
Casa editrice: Fandango
Traduttrice: Monica Capuani
Pagine: 56



LA STORIA

In un piccolo villaggio della Provenza, nel 1852, vive la sedicenne Violette. Di uomini al villaggio non ne sono rimasti: sono tutti morti o dispersi a causa delle truppe di Napoleone, che li hanno considerati dei nemici in quanto repubblicani. È successo a suo padre, è successo al suo giovane innamorato
Il primo maggio, alla fine di tanti mesi di attesa vana e soffocante, Rose, la figlia del panettiere, ha tirato fuori il suo abito da sposa. Quell'abito era semplicemente il suo abito più bello. Ricordo che era blu scuro e glielo invidiavo. Ci ha vestito uno spaventapasseri che ha conficcato nel terreno in fondo all'altopiano. Ricordo che piangeva di rabbia. [...] Noi altre non abbiamo cercato di impedirglielo, anzi, abbiamo condiviso le sue lacrime fino a bruciarci gli occhi e il viso. Rose si sarebbe dovuta sposare ad aprile. A quel punto, la madre del ragazzo che avrebbe dovuto sposare Rose è andata a cercare il vestito da matrimonio del figlio e ci ha vestito un secondo spaventapasseri infilando un braccio nella manica del primo. Da allora, il nostro paese di donne vive sotto lo sguardo di questa coppia che non è mai stata, le cui sagome immobili volgono la schiena alla vallata. È il nostro segnale per dire che qui c'è la vita.
Solo bambini e donne dunque popolano il paese, e sono proprio le donne a fare un patto: quando arriverà un uomo, dovranno condividerlo. Avrà la precedenza la prima che l’uomo toccherà, ma poi anche le altre avranno diritto al suo seme con cui ripopolare il villaggio; e la prima ad essere toccata dall’uomo che finalmente arriva è proprio Violette, che nel suo racconto rievoca la passione provata tra le braccia di lui.

L'attrice Sonia Bergamasco che ha portato in scena "L'uomo seme"
COSA NE PENSO

Scritto nel 1919 dalla stessa Violette, e sigillato in una busta acclusa al suo testamento -con l’espressa indicazione di essere affidato alla maggiore delle sue discendenti- “L’uomo seme” è un breve racconto che la nipote di Violette ha deciso di pubblicare nel 1952.
Nonostante siano trascorsi ormai cento anni dalla sua prima stesura, il contenuto delle sue parole è così universale da non aver perso affatto la sua attualità: Violette racconta l’amore, la passione, e li spoglia dell’egoismo e della gelosia in favore di un’ottica di condivisione in un microcosmo di donne sorelle, solidali, che cento anni più tardi continuano ad apparire rivoluzionarie.
“L’uomo seme” è un racconto breve e dal linguaggio semplice e delicato; la sua potenza sta però nel fatto che contiene in sé un messaggio molto più femminista di tanti romanzi contemporanei che vogliono essere definiti tali, e rappresenta un universo femminile che è un ideale al quale aspirare e non un passato retrogrado da seppellire. Per questo ve ne consiglio la lettura, che di certo vi fornirà un punto di vista inedito sui ruoli di genere!

mercoledì 3 luglio 2019

L'ultimo arrivato

Dopo aver amato moltissimo "Resto qui" ed essere invece rimasta piuttosto delusa da "Pronti a tutte le partenze", mi attendevano sullo scaffale ancora due titoli di Marco Balzano. Ho deciso di dare la precedenza a quello pubblicato più di recente, nella speranza di un costante miglioramento dell'autore... E le mie aspettative non sono state deluse!



Titolo: L'ultimo arrivato
Autore: Marco Balzano
Anno della prima edizione: 2014
Casa editrice: Sellerio
Pagine: 205





LA STORIA

Ninetto "Pelleossa" Giacalone è un bambino siciliano, che deve alla sua estrema magrezza il soprannome; vive in un piccolo paese in condizioni di povertà, e spesso non ha altro da mangiare che una manciata di acciughe. Ama i suoi amici, la sua mamma che però è malata, la scuola e in particolare il suo maestro che gli fa imparare le poesie, ma all'età di soli undici anni lascia tutto ciò che conosce e parte per Milano per guadagnarsi da vivere e non pesare più sul bilancio familiare.
Una volta adulto, Ninetto racconta la sua storia, un'infanzia abbandonata troppo in fretta per fare il fattorino, il muratore e poi appena raggiunti i quindici anni l'operaio in fabbrica, all'Alfa Romeo, dove ne trascorre trenta. Quando ripercorre il suo passato Ninetto è appena uscito dal carcere, per un reato che scopriremo soltanto alla fine del romanzo...

COSA NE PENSO

Balzano racconta il fenomeno dell'emigrazione minorile, realmente accaduto in Italia in particolare tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando le grandi città industriali del Nord offrivano opportunità occupazionali a grandi quantità di giovani e giovanissimi. 
Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi. Ma c’è un limite a tutto e quando la miseria ti sembra un cavallone che ti vuole ingoiare è meglio che fai fagotto e te ne parti, punto e basta.
Come in "Resto qui", attraverso il suo protagonista dà voce alla storia del Paese e lo fa in maniera convincente e mai noiosa.
Dopo dieci anni di carcere Ninetto scopre una Milano diversa, un'immigrazione che non proviene più dal Sud d'Italia ma arriva da paesi lontani, il mercato del lavoro che basa la selezione del personale sul curriculum in formato europeo e sull'uso del computer che lui non conosce. 
«Non ho messo che sono stato in prigione» gli confesso guardandomi i piedi. Ma questo mi sa che è Gesù Cristo in giacca e cravatta perché non si scandalizza minimamente né fa lo sguardo giudicante. Dice soltanto: «In effetti nessuna voce lo chiedeva».
Ninetto è un narratore in prima persona, dal linguaggio molto semplice e ricco di espressioni dialettali; certo la semplicità riflette il basso livello di scolarizzazione dell'uomo, talvolta però scivola in un eccessivo infantilismo, non adatto ad un uomo della sua età.
Gli altri personaggi -la moglie di Ninetto, sua figlia, la psicologa...- restano sullo sfondo, al centro della narrazione c'è sempre quest'uomo fragile, che commette errori per via del suo carattere impulsivo, al quale non sa porre rimedio.
Non ci sono storie, a rovinarmi è sempre stata la gelosia. Fin da picciriddu.
Ninetto è stato un bambino diventato uomo troppo presto, che ha sperimentato subito il lavoro, la fatica, le responsabilità. Balzano dà voce all'uomo che è diventato, e costruisce un personaggio molto lontano dall'eroismo e per questo molto realistico, molto vero
Il maggior pregio de "L'ultimo arrivato" -che ha meritatamente vinto il Premio Campiello nel 2015- è il racconto che fa dell'Italia, della storia di una migrazione interna che non viene spesso raccontata (quella con protagonisti appena ragazzini già avviati al mondo del lavoro), dei cambiamenti che hanno attraversato il nostro territorio.
Lo sguardo puro di Ninetto osserva senza pregiudizi ciò che lo circonda, e dà vita sotto gli occhi del lettore ad un mondo che era reale pochi decenni fa e non ho trovato spesso raccontato in un romanzo. 

Quello scritto da Balzano è un buon romanzo di formazione, adatto per la sua semplicità anche ad un pubblico di lettori piuttosto giovani o non avvezzi alle letture dallo stile ricercato. Rispetto a "Pronti a tutte le partenze" l'ho trovato decisamente superiore; non ha però superato "Resto qui" tra le mie preferenze!