lunedì 27 luglio 2020

La peste scarlatta

Di romanzi post-apocalittici ne ho letto qualcuno, negli ultimi anni: il migliore è senza ombra di dubbio “La strada” di Cormac McCarthy.
Molti anni prima però, uno scrittore statunitense che io conoscevo soltanto per le sue storie a tema animali (Zanna Bianca, Il richiamo della foresta) aveva scritto l’antenato dei romanzi che troviamo oggi sugli scaffali delle librerie: La peste scarlatta.



Titolo: La peste scarlatta
Autore: Jack London
Anno della prima edizione: 1912
Titolo originale: The Scarlet Plague
Casa editrice: Adelphi
Traduttore: Ottavio Fatica
Pagine: 81



LA STORIA


Sulla costa Californiana, un anziano racconta a tre giovani chiamati Edwin, Labbro Leporino e Hoo-Hoo come mai nel 2070 la loro società si sia ridotta a pascolare capre, cacciare animali selvaggi, vestire di misere pelli e dormire in rifugi di fortuna. Nel 2013 infatti una malattia capace di uccidere nel giro di poche ore, dopo aver reso scarlatta la pelle (da qui il suo nome, “la peste scarlatta”), aveva decimato l’umanità riducendola a poche decine di individui. 
La civiltà, nipoti miei, la civiltà periva avvolta in un sudario di fiamme e in un alito di morte.


COSA NE PENSO


Jack London non è stato il primo a scrivere un romanzo post-apocalittico: lo avevano già fatto alcuni autori come Mary Shelley (più celebre per il romanzo “Frankenstein”) nel secolo precedente. Tuttavia “La peste scarlatta”, pur risalendo a più di cento anni fa, ricorda moltissimo gli attuali romanzi del genere, dal già citato “La strada” al decisamente più corposo “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, e non ha risentito affatto del passare del tempo.
Quello di Jack London è un racconto orale, trasmesso dall’anziano che viene chiamato Nonno ai più giovani membri della sua tribù. Nelle sue parole, ricche di termini che i ragazzi non conoscono nella loro società primitiva, rivive il mondo com’era prima del 2013, l’anno che ha cambiato tutto: quando le comunicazioni erano facili e i cieli erano solcati dagli aerei.
«Ero solo nella mia grande casa. A quei tempi, come vi ho già detto e ripetuto, potevamo comunicare fra di noi servendoci di fili o attraverso l’etere. Il telefono squillò. Era mio fratello. Mi disse che non sarebbe venuto a casa per paura che gli attaccassi la peste, e che aveva portato le nostre due sorelle a casa del professor Bacon. In attesa di scoprire se avessi preso la peste, mi consigliava di restare dov’ero.

London non ha immaginato internet, non ha immaginato la messaggistica istantanea né la velocità con la quale oggi le notizie sulla diffusione dei virus ci raggiungono costantemente pronte a terrorizzarci (incuranti del fondamento scientifico di tale terrore); però ha immaginato l’isolamento a seguito di una catastrofe, lo smarrimento dell’essere umano, la solitudine degli unici che restano.
Nel cuore della nostra civiltà, nei bassifondi e nei ghetti operai, avevamo allevato una genia di barbari, di selvaggi; ora, nel momento della sventura, da quelle bestie feroci che erano si rivoltavano contro di noi per distruggerci, distruggendo così anche se stessi.

C’è molto poco del viaggio e della lotta per la vita in cui McCarthy ha immerso la sua coppia di padre e figlio; questo nonno e questi tre nipoti, che lo siano di sangue o per scelta, sono invece immobili, il mare attorno a loro, i cavalli selvaggi che scendono alla spiaggia, il ricordo di una San Francisco gremita di villeggianti e cittadini avvolge il vecchio che riporta in luce un mondo che ha smesso di esistere. 
Dev’essere una delle ultime monete coniate, perché la Morte Scarlatta è sopraggiunta nel 2013. Ossignore! Ossignore!... ma ci pensi! Sono passati sessant’anni e io sono l’unico superstite vissuto a quei tempi.

Non mi ha entusiasmato, devo ammetterlo. È evocativo, di certo cattura il lettore con le sue descrizioni ricche di dettagli; tuttavia confesso che mi sarei aspettata qualche avvenimento in più. London ci dice molto del passato, del mondo prima e durante la Peste Scarlatta; ma ciò che sappiamo del dopo sono accenni, riferimenti, perché i tre giovani ascoltatori già lo conoscono quel mondo, è quello in cui vivono. Per il lettore però resta un universo da dedurre, da ricostruire a spizzichi e bocconi, ed anche i tre giovani -spesso spazientiti dalle rimembranze del vecchio- rimangono appena accennati. 

Nonostante questo gli riconosco il fatto di essere una lettura breve e molto scorrevole, di certo imperdibile per gli amanti del genere dato che costituisce una delle basi a partire dalle quali il genere della letteratura post-apocalittica si è sviluppato. Non aspettatevi però un’avventura che vi tenga col fiato sospeso!

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