giovedì 18 novembre 2021

Nel blu tra il cielo e il mare

Dopo aver raccontato la Palestina e i campi profughi della Cisgiordania e del Libano in "Ogni mattina a Jenin", Susan Abulhawa torna a raccontare la sua terra d’origine e lo fa concentrandosi sulla striscia di Gaza, prigione a cielo aperto costantemente esposta alla ferocia israeliana.


Titolo: Nel blu tra il cielo e il mare
Autrice: Susan Abulhawa
Anno della prima edizione: 2015
Titolo originale: The Blue Between Sky and Water
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Silvia Rota Sperti
Pagine: 331

"Nel blu tra il cielo e il mare", pubblicato da Feltrinelli, è un romanzo che ruota attorno alle donne: a partire da una matriarca capace di contenere un jinn, fino ad una giovane donna nata negli Stati Uniti che è stata esposta all’abbandono, alla solitudine, agli abusi e che a Gaza  ritrova se stessa e e una forma di libertà nonostante la prigionia forzata a cui i palestinesi sono costretti.
Ci sono donne memorabili in questo libro: madri coraggiose, capaci di sopportare la perdita di figli uccisi o arrestati dagli israeliani; mogli innamorate e nipoti rese forti dai legami familiari che le hanno circondate.

Anche questa si conferma una saga familiare che attraversa i decenni e le generazioni. I personaggi sono molti, alcuni non hanno nemmeno un nome, come gli 11 fratelli nati tra Mazen e Alwan: un utile albero genealogico vi permetterà di non disorientarvi.

Rispetto al precedente questo romanzo contiene delle pennellate di realismo magico, primo tra tutti la capacità del giovane Khaled che è a tratti narratore in prima persona di questa storia. La sua presenza è stata avvertita già generazioni prima che lui nascesse, e seppure prigioniero nel suo corpo è capace di viaggiare ed entrare in contatto con i membri della famiglia che non ci sono più. Non immaginatevi però un messaggero, perché proprio lui è l’unico a rendersi conto di essere una sorta di intermediario e soltanto uno e definitivo sarà il messaggio che porterà ai vivi.

L’autrice anche qui è bravissima nel caratterizzare il contesto socio politico che circonda i suoi personaggi: ci sono ergastoli arbitrari, combattenti coraggiosi, ragazzi giovanissimi che rischiano la vita nel contrabbandare merci nei tunnel che collegano Gaza all’Egitto. C’è la resistenza palestinese sin dall’esordio di questa storia che si intreccia la Nakba, alla guerra dei Sei Giorni e dove persino un essere soprannaturale si schiera dalla parte della Palestina, una terra che, come ciclicamente ci ripete questo romanzo dalle prime pagine sino all’epilogo, rinascerà.

Rispetto a "Ogni mattina a Jenin" ho trovato questo secondo romanzo un po’ meno drammatico: anche qui i dolori e i lutti non mancano, ma nel complesso e soprattutto nella sua ultimissima parte la storia trasmette un senso di speranza, di dignità e di orgoglio che alleviano l’angoscia e il dispiacere. Ritornano i temi dell’appartenenza cari all’autrice (anche lei palestinese emigrata negli Stati Uniti), la Palestina torna ad essere a casa, radici e luogo in cui poter essere davvero se stessi, in questo caso superando anche traumi di un passato molto scomodo. 
La parentesi americana di questo libro infatti è estremamente tragica e tocca argomenti molto sensibili e delicati come il sistema dell’affidamento minorile e gli abusi sui bambini.

Difficile evitare di rimanere scossi davanti alle opere di questa autrice, tuttavia non posso fare altro che consigliarvi un’altra opera magnificamente scritta, dai personaggi che sono sicura sapranno emozionarvi ognuno a modo loro. Ora non mi resta che recuperare l’ultima uscita della scrittrice... 

E voi avete letto i suoi romanzi?

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