lunedì 26 febbraio 2018

Sputa tre volte

Dopo qualche tempo dalla precedente (“Se ti chiami Mohamed” di cui vi avevo parlato qui mesi fa) ecco una nuova graphic novel.
Definito praticamente ovunque sulla rete un capolavoro ed una delle migliori graphic novel del 2016, siamo davvero in presenza di un romanzo illustrato capace di narrarci una storia, suddivisa in capitoli, come farebbe un testo composto da sole parole. La narrazione qui però è arricchita da splendide tavole in bianco e nero, ritratti vividi e sguardi intensi, paesaggi di provincia in cui tutti ci siamo immersi almeno qualche volta nella vita.




Titolo: Sputa tre volte
Autore: Davide Reviati
Anno della prima edizione: 2016
Casa editrice: Coconino Press
Pagine: 562

La provincia rappresentata qui è quella emiliano-romagnola, in cui vivono Guido ed i suoi amici, Katango e Grisù. Frequentano tutti e tre un istituto tecnico industriale con profitti scarsi, assenze troppo frequenti e bocciature ripetute; la scuola pare essere il loro unico legame con la città vicina, il resto della loro esistenza si svolge più che altro tra boschi e campagne. Fianco a fianco con il paesino provinciale dove vivono i ragazzi ci sono gli Stančič, una famiglia allargata di slavi, gli zingari alle vite dei quali si intrecciano quelle degli autoctoni soprattutto nei bar. Questa sorta di tribù è tutta al maschile, se non per un’anziana matriarca che compare sporadicamente alla messa della domenica e Loretta, unica giovane donna.


Loretta è strana, potremmo dire, incomprensibile ed incompresa, presenza costante nelle vite dei ragazzi a cui offre prestazioni sessuali o chiede che le sia offerta la bottiglia di alcolici per berne un sorso. Loretta ha comportamenti istintivi, imprevedibili, spesso anche osceni; sin da bambina sa sparire per mesi interi ed anni più tardi, durante una di queste sparizioni, viene ritrovata proprio da uno degli amici di Guido, svenuta in un bosco, con un neonato sotto la gonna, appena partorito.
La vita in questa piccola comunità di provincia segue il corso del tempo; Guido ripete due volte lo stesso anno di scuola, agli Stančič vengono assegnati dal Comune alloggi popolari in città dove si trasferiscono, ad eccezione di un anziano che continuerà a vagare nei boschi circostanti. Per Loretta immaginiamo diversi futuri possibili, più o meno rosei, ma a dire la verità non sapremo mai quale sia stato davvero il suo destino.
Oltre al corso della storia odierna, Reviati ripercorre la storia dei popoli rom e sinti attraverso la narrazione del loro sterminio nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale: vittime dimenticate, raramente commemorate come capita anche a disabili ed omosessuali, è un capitolo della Storia mondiale che non ho mai studiato sui libri di scuola ed ho incontrato solo marginalmente nelle mie letture. È stata una piacevole sorpresa trovare tra queste pagine più informazioni a riguardo.


In quest’opera viene lasciato al lettore un largo margine di interpretazione, specialmente quando compaiono tra le pagine immagini oniriche, sorta di visioni inspiegabili di umani a cavallo di grandi felini, immersi in un liquido che li circonda.
Si tratta di una sorta di romanzo di formazione dei protagonisti, da un lato, ma d’altra parte è davvero un romanzo-fiume come ho letto su qualche giornale, e ci racconta pagina dopo pagina una storia alla quale possiamo alla fine attribuire il significato che preferiamo dopo aver trascorso tanto tempo in compagnia dei giovani personaggi. Per quanto mi riguarda l’ho apprezzato molto, sia dal punto di vista della scelta dei testi sia da quello delle illustrazioni. L’unica difficoltà che ho incontrato sta nella lunghezza del testo, forse la prima graphic novel così ricca di pagine che abbia affrontato: ma è solo questione di allenamento, ne sono sicura!

giovedì 22 febbraio 2018

Canto della pianura

Ci sono autori incredibili, dal talento immediatamente riconoscibile. Sono gli autori che sanno raccontarti un mondo privo di avvenimenti eclatanti, che sanno trasportarti in una dimensione che ti avvolge completamente nella sua quotidianità più o meno tranquilla. Sono gli autori che nei periodi difficili della vita, quelli pieni di pensieri e di preoccupazioni che non ti fanno dormire la notte, riescono a distrarti. Uno di questi autori l'ho appena scoperto, proprio quando ne avevo più bisogno, e si tratta di Kent Haruf che mi ha portata ad Holt, nelle campagne del Colorado sulle note del "Canto della pianura", e d'un tratto il mio mondo di ansie per il presente e per il futuro non esisteva più: c'era solo Holt, con i suoi abitanti. 




Titolo: Canto della pianura
Autore: Kent Haruf
Anno della prima edizione: 1999
Titolo originale: Plainsong
Casa editrice: NN Editore
Pagine: 301




Nel "Canto della pianura" ci sono personaggi che non dimenticherete facilmente, tanto vi affezionerete a loro e li sentirete vicini. C'è Victoria, diciassettenne incinta che la madre non si fa scrupoli a cacciare di casa; c'è Tom Guthrie, insegnante dai saldi principi morali, abbandonato dalla moglie che soffre di depressione e gli lascia i due figli di nove e dieci anni. Ci sono loro, i due ragazzini, Ike e Bobby, inseparabili giorno e notte dalla consegna dei giornali alle cavalcate al tramonto: due anime generose e sensibili, con le quali avrei voluto trascorrere pomeriggi a fare biscotti all'avena come l'anziana signora Stearns, che sa che può fidarsi di loro. 
Sarete in compagnia poi dei fratelli McPheron, due versioni forse invecchiate degli stessi Ike e Bobby. In proposito sono proprio i ragazzini a domandarsi come mai i due allevatori ed agricoltori, ormai anziani, non si siano mai lasciati per crearsi una propria famiglia:

"Ma papà, disse Ike.
Sì?
Perché non si sono mai sposati? Perché non hanno messo su famiglia come tutti gli altri?
Non lo so, rispose Guthrie. A volte le persone non lo fanno.
[...]
Credo non abbiano mai trovato la ragazza giusta, disse il padre. Ma non so bene.
Bobby guardò fuori dal finestrino. Disse, Penso che non volessero lasciarsi.
Guthrie gli lanciò un'occhiata. Forse sì, disse. Forse è andata così, figliolo."

Sono ormai anziani, i fratelli McPheron, vivono nella campagna a chilometri da Holt con le loro vacche e le loro giovenche e non sono maestri di conversazione, ma hanno quello che si definisce un cuore d'oro. Volenti o nolenti, Harold e Raymond sono un punto di riferimento per i randagi, un rifugio per i cuccioli smarriti: è presso di loro che trova una casa Victoria, è sempre alla loro fattoria che si dirigono Ike e Bobby quando non sanno più dove altro andare, sconvolti dalla vita che scorre loro attorno. 

Un'immagine dal film TV "Plainsong" (2004)
Non aspettatevi colpi di scena, avvenimenti che vi lascino a bocca aperta in questo romanzo. Holt è un narratore capace, ottimamente tradotto, che alterna descrizioni dell'America rurale degli anni Ottanta a dialoghi che colpiscono dritto al cuore. Quando ho iniziato a leggerlo non sapevo bene cosa aspettarmi, e come talvolta capita ho trovato tra le sue pagine esattamente ciò di cui avevo bisogno: un romanzo struggente, di tale bellezza da farmi spuntare le lacrime in più punti. 
Kent Haruf crea in questo libro un mondo intero nella cittadina di Holt, nella quale ambienterà due titoli successivi (Crepuscolo e Benedizione, che nell'edizione italiana sono pubblicati in ordine differente, a partire da Benedizione che Haruf scrisse per ultimo). Anche il lettore si ritrova a Holt, sin dalle prime pagine: per me è stato una coperta calda, una grotta dove sfuggire alla neve: la tenerezza di Harold e Raymond, l'amore che trapela da ogni loro gesto e quasi mai dalle loro parole mi hanno profondamente commossa; Ike e Bobby, il loro legame contro ogni solitudine, è talmente dolce ed intenso da far quasi soffrire. Nel caso non si fosse ancora capito... una gita ad Holt è, per quanto mi riguarda, assolutamente consigliata


lunedì 19 febbraio 2018

Jane, la volpe e io

I romanzi grafici sono un genere che conosco ancora davvero poco, ed al quale desidero avvicinarmi. Ciò di cui ho più bisogno per familiarizzare con questo tipo di libri sono le storie: storie che mi emozionino, che mi siano raccontate da immagini e parole che riescano a toccarmi in profondità.


Titolo: Jane, la volpe & io
Autrice: Isabelle Arsenault
Illustratrice: Fanny Britt
Anno della prima edizione: 2012
Titolo originale: Jane, le renard & moi
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 98




La protagonista di questa storia è Helene, un'adolescente canadese; nella sua scuola è un'emarginata, viene derisa per il suo aspetto fisico ed è vittima di bullismo da parte dei suoi compagni di classe, che scrivono frasi offensive su di lei sui muri dei bagni, che le cantano canzoni di scherno sull'autobus. Le gite scolastiche per lei sono un tormento, comprarsi un costume da bagno ancor di più; l'unico suo rifugio sono i libri, e nel tempo di questo racconto Helene sta leggendo Jane Eyre, romanzo che la emoziona sempre più vista la crescente identificazione nella protagonista. 

Helene si infuria per il lieto fine che teme non arriverà mai per Jane Eyre, e si sorprende quando le circostanze vanno diversamente, sia per lei sia per la sua eroina. La volpe, altra protagonista del titolo, è in realtà un fugace incontro, che però rappresenta un momento di svolta per la ragazzina almeno nella sua mente: mentre prima, in contrasto con l'immagine di un'adolescente proporzionata e graziosa che il lettore vede, si percepisce brutta e sovrappeso, qualcosa cambia quando l'animale le si avvicina.

Il bullismo è un tema delicato ed importante: più se ne parla, più si rompe il muro di silenzio che isola le vittime, meglio è. La vittima di bullismo si vede come i bulli vogliono convincerla che sia, invece di riconoscere i propri pregi; è quello che avviene ad Helene che, per fortuna, si salva con i libri e con le storie.
La narrazione è poetica ma allo stesso tempo diretta, ci espone una situazione e contemporaneamente ci racconta una storia nella storia (quella di Helene infatti si intreccia alle tavole a pagina intera che illustrano il romanzo "Jane Eyre", che vi verrà sicuramente voglia di leggere o di rileggere). 
Le illustrazioni sono talvolta a colori, in splendide vignette sui toni del verde e dell'arancione, altre volte nelle sfumature del grigio; un vero piacere per gli occhi, ed una lettura pensata per i ragazzi che invece consiglierei anche ad un pubblico adulto.

giovedì 15 febbraio 2018

The hate U give

Il movimento "Black Lives Matter" nasce dalle comunità afroamericane negli Stati Uniti più di quattro anni fa, in risposta alla discriminazione razziale ed alle violenze subite, spesso dalla polizia stessa (qui il sito web dove reperire maggiori informazioni). Non è infatti un fenomeno insolito l'omicidio da parte di agenti statunitensi di individui neri disarmati, e come ricordano il progetto "Mapping Police Violence" (qui per saperne di più) ed un interessante articolo del Fatto Quotidiano che potete leggere qui, il 97% dei poliziotti non è mai stato incriminato. 
Vi riporto queste informazioni perché sono il fulcro del romanzo per ragazzi scritto da Angie Thomas, che invece di spiegare il razzismo a una ragazzina come fece anni fa Tahar Ben Jelloun fa spiegare il razzismo proprio da una ragazzina.





Titolo: The Hate U give
Autrice: Angie Thomas
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Giunti
Pagine: 416





La protagonista di questo romanzo si chiama Starr. E' un'adolescente che abita nell'immaginario ghetto statunitense di Garden Heights, popolato per lo più da afroamericani, controllato dalle gang e dove spesso hanno luogo sparatorie e reati di vario genere. Sin da bambina ha imparato a proteggersi, ma per garantirle le migliori opportunità i suoi genitori (un medico sua madre, suo padre un negoziante che ha fatto parte di una gang e scontato anni di carcere) hanno iscritto lei ed i suoi fratelli Seven e Sekani ad una scuola in tutt'altro quartiere, dove gli studenti neri sono una minoranza minuscola. 
L'evento scatenante nella trama avviene subito dopo una festa a Garden Heights: Starr ed il suo amico Khalil sono in automobile, spaventati da una sparatoria scoppiata alla festa stessa, e vengono fermati da una volante della polizia. Durante il controllo, nel corso del quale i ragazzi sono assolutamente pacifici e collaborativi, uno degli agenti (dal distintivo Uno-Quindici) spara tre volte alle spalle di Khalil, apparentemente senza ragione alcuna, e lo uccide.
Da quel momento in poi Starr si trova a ricoprire all'improvviso lo scomodo ruolo di testimone dei fatti, ed a scontrarsi con la giustizia che sembra minimizzare costantemente l'atto del poliziotto pur di non incriminarlo, mentre attorno nel quartiere la rabbia non fa altro che crescere e seminare odio che germoglia forte e rigoglioso.

Un'immagine dal sito Black Lives Matter
Questo romanzo ha numerosi pregi. Innanzitutto è credibile: l'autrice è cresciuta in Mississippi, in un quartiere che ha molto in comune con il Garden Heights dove fa crescere Starr, e conosce molto bene l'argomento di cui sta parlando. Starr è caratterizzata molto bene, ed è un personaggio nelle sfumature del grigio: ha un fidanzato bianco, un'amica asiatica, si sente spesso divisa tra mondi diversi, tra la tentazione di nascondere il proprio quartiere nella scuola che frequenta (al punto di negare, dapprima, che il Khalil assassinato sia lo stesso Khalil suo amico) e quella di rivendicare a voce alta la propria appartenenza ed i diritti che spettano ai membri della sua comunità. Anche la famiglia di Starr è sfaccettata, con la figura paterna a cui si affianca lo zio (che per di più è un poliziotto, il che aggiunge un punto di vista più a tutto tondo sulle forze di polizia, evitando il rischio di demonizzarle nella loro totalità come sarebbe stato facile in un simile racconto). Vi sono poi un fratellastro impegnato a difendere la sua altra famiglia pur volendo rifugiarsi soltanto in quella dove si sente protetto, due genitori comprensivi ma severi, dei veri modelli educativi da cui Starr impara molto giorno dopo giorno. 
C'è il razzismo, nel libro di Angie Thomas, anche quello che talvolta non cogliamo, quello più interiorizzato dai bianchi che non si rendono conto del peso delle proprie parole. C'è l'appropriazione dell'identità che Starr compie pagina dopo pagina, testimonianza dopo testimonianza, confronto dopo confronto con le differenze e le somiglianze di coloro che la circondano, senza mai trincerarsi dietro un muro di diffidenza (nonostante le difficoltà, il suo sentimento per Chris -il fidanzato bianco- non ne uscirà danneggiato).
Si tratta di un libro che parla il linguaggio degli adolescenti, che si nutre di hashtag, di Tumblr, di retweet; Starr ama Harry Potter e lo cita a più riprese, regalando agli appassionati anche un po' più grandicelli riferimenti in cui riconoscersi; più difficili da comprendere per i lettori italiani e bianchi le citazioni dai rapper afroamericani, ma hanno parecchio da insegnarci: ad esempio, chi sapeva che l'espressione "Thug Life" fosse l'acronimo di "The Hate U give little Infants fuck everybody"? Io no di certo, ed ogni nuova scoperta è sempre un piacere.

In conclusione, il libro di Angie Thomas è un testo di lettura semplice e scorrevole, ma allo stesso tempo è tutt'altro che superficiale. Ritrae uno spaccato della società statunitense molto distante dalla realtà che circonda noi, e che forse per questo conosciamo troppo poco, ma che suscita nei lettori riflessioni e parallelismi con la situazione italiana (pensiamo al G8, ad Aldrovandi, Cucchi ed i ragazzi come loro) dove il fattore etnico non quello principale, ma le violenze per mano della polizia esistono eccome. Sensibilizzare i più giovani, target effettivo di questo romanzo, mi pare già un'ottima ragione per consigliarne la lettura; il fatto che sia una storia ben costruita e dai personaggi vividi e convincenti sono però valori aggiunti da non trascurare. 


lunedì 12 febbraio 2018

Dracula

Di vampiri si parla molto e molto si è parlato, nell'ultimo decennio, anche grazie ad opere di puro intrattenimento come la popolare saga di Twilight. Alla radice del mito c'è questo: attingendo a fonti storiche e letterarie (il principe Vlad di Valacchia, ma anche le storie di Polidori e Wilkie Collins), Stoker ha creato il Dracula a cui ancora oggi si ispirano innumerevoli opere, regalando al suo personaggio la vera immortalità.




Titolo: Dracula
Autore: Bram Stoker
Anno della prima edizione: 1897
Casa editrice: Mondadori 
Pagine: 491




Il "Dracula" che ci si aspetta è già nelle prime pagine di questo classico irlandese: Jonathan Harker, socio di un uomo d'affari londinese, viene mandato per lavoro in Transilvania presso un misterioso Conte intenzionato ad acquistare una proprietà a Londra. Il suo soggiorno si rivela, sin dal viaggio verso il castello del Conte, inquietante e misterioso: il Conte non pare mangiare mai, né dormire di notte, odia gli specchi, dalle finestre si cala all'esterno muovendosi come una lucertola sui muri e sembra volerlo tenere prigioniero nella sua residenza senza permettergli mai più di ritornare alla sua casa ed alla sua fidanzata, Mina.
L'angoscia di Jonathan viene impressa sulle pagine del diario che tiene con regolarità, e si interrompe lasciando il lettore trepidante e curioso, sostituita dalla corrispondenza tra Mina e la sua amica Lucy, che abita in Scozia, e dalla quale Mina si reca per un periodo, anche per non pensare troppo al suo Jonathan di cui non ha notizie da tempo. Anche qui i misteri non mancano: Lucy, in procinto di sposarsi, è spesso sonnambula e deperisce costantemente, si trova ogni mattina sempre più debole ed emaciata e presenta inspiegabili segni di fori sul collo. Intervengono allora due medici, uno dei quali innamorato di Lucy e l'altro, di nome Van Helsing, un suo collega giunto apposta dall'Olanda per studiare il caso. Nonostante le brillanti intuizioni di Van Helsing ed i disperati tentativi di tutti coloro che amano Lucy, tutto è vano, e la povera ragazza perde la vita... o così sembra. 
Qui entra infatti in scena il primo, vero vampiro della storia: la bella signora che bambini di pochi anni dicono di aver seguito nel folto di un bosco, vicino alla cappella dove Lucy è sepolta. Al mattino, ritrovati vivi, i bambini presentano gli stessi fori che la ragazza aveva sul collo e sommando gli elementi a sua disposizione Van Helsing trae la conclusione che lo porterà ad una vera caccia al vampiro (con la collaborazione del ricomparso Jonathan, di Mina e degli altri cari di Lucy): o meglio, alla vampira prima, e al Conte artefice di tutto poi. 


Bela Lugosi in una scena del film "Dracula"
di Tod Browning e Karl Freund (1931)

Considerato uno tra gli ultimi romanzi gotici, "Dracula" è composto da un'alternanza di lettere e stralci dei diari dei protagonisti, che forniscono ognuno il proprio punto di vista sulle vicende che accadono. L'atmosfera è cupa e suggestiva, inquietante al punto giusto, specialmente nella prima parte del testo che è costituito il diario di Jonathan in Transilvania (la parte che ho preferito, personalmente). La figura del vampiro da allora presenta le stesse caratteristiche che troviamo descritte da Stoker, rese più o meno romantiche o spaventose a seconda dei casi: rimane un genere di mostro molto affascinante, legato alle tenebre ed al mistero, che si nutre della vita stessa.

Naturalmente vista l'epoca a cui questo romanzo risale dobbiamo essere indulgenti, dalla nostra prospettiva moderna, su alcune scoperte avvenute successivamente; quella che più salta all'occhio è senza dubbio quella delle trasfusioni di sangue, sostanza che Stoker fa trasfondere alla povera Lucy in pratica da chicchessia non essendo stati al tempo ancora scoperti i gruppi sanguigni. Un altro elemento a cui i lettori contemporanei non sono forse molto avvezzi è il ritmo della narrazione: la ricerca del Conte è impegnativa e lenta, procede a piccoli passi che vengono descritti fin nei particolari, al punto talvolta da divenire non molto avvincenti. 
Confesso che talvolta mi sono quasi data per vinta, e i cali di interesse sono stati da parte mia diversi; tuttavia per gli appassionati dell'horror credo si tratti di una lettura imprescindibile, non fosse anche soltanto per conoscere le radici su cui poggia un personaggio che da oltre un secolo continua ad avere successo in storie che ancora fioriscono attorno a lui. 

giovedì 8 febbraio 2018

Lasciami andare, madre

Questo memoir ha molto a che fare con il saggio di cui vi ho parlato qui di recente, "I figli dei nazisti": infatti la vita dell'autrice, nata in territorio polacco ma poi cresciuta in Germania ed ora residente in Italia, si è intrecciata con quelle di alcuni dei personaggi che nel saggio ci vengono presentati attraverso la figura di sua madre (che ad esempio ben conosceva Rudolf Höss ed Albert Speer). 




Titolo: Lasciami andare, madre
Autrice: Helga Schneider
Anno della prima edizione: 2002
Casa editrice: Adelphi
Pagine: 132





Helga Schneider è nata poco prima che la Seconda Guerra Mondiale iniziasse; sua madre era già membro del partito di Hitler, e pochi anni dopo abbandonò Helga e l'ancor più piccolo Peter senza fare ritorno. Cresciuta da una matrigna che non le ha mai dato amore, Helga ha trovato conforto più nei collegi che nella propria famiglia, ed ha incontrato nuovamente sua madre solo nel 1971, quando era già madre a sua volta. Nel corso di quel primo incontro, la donna, uscita da qualche tempo dal carcere, le propose di farle indossare la sua divisa delle SS e non degnò di alcuna considerazione il nipotino di appena cinque anni. A proposito di quella giornata, Helga ricorda anche:
Tu allora cominciasti a raccogliere gli oggetti, uno per uno, con accorata meticolosità. Quando sollevasti delicatamente una catenina, ebbi un tuffo al cuore. Era una di quelle catenine che si regalano alle bimbe per il loro quarto o quinto compleanno, una cosetta apparentemente leggera, ma di fattura assai pregevole. In quel momento un'immagine si sovrappose con agghiacciante nitidezza a quella di te che raccattavi il tuo oro: l'immagine di te che sospingi nella camera a gas la bambina della collanina. Fu in quell'istante che tutto si decise. Di una cosa fui certa: io, quella madre, non la volevo.    
Da allora sono trascorsi quasi trent'anni prima che Helga Schneider rivedesse la sua genitrice, ormai affetta da demenza senile e ricoverata in una casa di riposo viennese. Su invito di un'amica della donna, l'autrice non si è sentita di rifiutare l'ultimo incontro con la propria madre: incontro che ci racconta proprio in questo libro, e nel quale non si risparmia dal chiederle conto del suo terribile passato come sorvegliante al campo di Auschwitz-Birkenau e del quale l'anziana donna continua ad andare fiera, senza rinnegarlo neanche per un attimo.
Rispetto a quello della maggior parte dei figli narrati in "I figli dei nazisti", l'approccio di Helga Schneider alla sua genitrice è opposto, il suo rifiuto è totale. Non appena nella sua mente affiora un sentimento di dispiacere per l'anziana, le atrocità da lei commesse nel passato lo annullano; ha perdonato, sì, le sue assenze di madre, ma non ha mai potuto perdonarle i crimini commessi come sorvegliante ad Auschwitz-Birkenau. Mentre osserva per l'ultima volta la sua madre nazista, Helga riflette sui sentimenti contrastanti che si affollano in lei:
Guardo i suoi occhi fiduciosi che si riflettono nei miei, e penso: no, non la odio. Semplicemente, non la amo. 
Helga Schneider con il fratello minore Peter
La prima volta che lessi questo libro ero adolescente. Mi colpì per le atrocità che racconta in alcune delle sue pagine, ma non come mi colpisce oggi: oggi conosco la malattia della mente che confonde i ricordi degli anziani, che li fa smarrire nelle immagini del passato senza saper distinguere chi tra i loro parenti è ancora vivo e chi invece no. Questo mi ha reso la lettura più straziante, ma allo stesso tempo me l'ha fatta apprezzare più profondamente, perché oltre alle disturbanti memorie della madre Helga Schneider racconta molto bene anche la sua demenza senile.
Si tratta di un memoir breve e molto intenso, dove l'autrice tocca i temi centrali della sua produzione (il Nazismo, la Germania nel dopoguerra, la memoria storica) e si rivolge spesso direttamente alla madre, ponendosi domande alle quali non sempre trova una risposta soddisfacente. Molti sono ancora i segreti oscuri contenuti in un corpo fragile, in quella personalità ancora manipolatrice che oscilla tra le affettuosità materne ed il gelido distacco. Molti sono gli interrogativi che si pone anche il lettore su un'anziana donna ancora ambigua e profondamente ideologica, che ha sacrificato al Nazismo la famiglia e l'esistenza, devota ad Hitler e all'obbedienza, eppure vorrebbe essere chiamata Mutti e conserva ancora dopo molti decenni un orsacchiotto appartenuto ad Helga bambina.
Helga Schneider è una narratrice coinvolgente, abilissima nella descrizione dei sentimenti e delle sfaccettature dell'animo umano: è già un'ottima ragione per avvicinarsi ai suoi testi, primo tra tutti proprio questo.




lunedì 5 febbraio 2018

Le assaggiatrici

Raramente leggo novità editoriali, libri appena pubblicati o best-seller del momento; prima di acquistare un titolo attendo sempre l'edizione economica. In questo caso si è trattato di un regalo, ispirato dalla recensione entusiasta che Matteo Bussola aveva scritto a riguardo sulla propria pagina Facebook (la potete leggere anche voi qui). La quarta di copertina è riuscita ad incuriosirmi e quindi l'ho letto immediatamente.




Titolo: Le assaggiatrici
Autrice: Rossella Postorino
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 285




Rosa Sauer è una giovane donna nella Germania nazista. Segretaria a Berlino prima che scoppiasse la guerra (che le ha portato via entrambi i genitori, ed il fratello arruolato che non dà più notizie), ha sposato Gregor, il suo datore di lavoro, che tuttavia dopo poco tempo ha sentito il richiamo della patria ed è partito soldato. Rimasta sola, si è trasferita a Gross-Partsch, in campagna, presso i suoceri: due anziani che vivono in attesa del ritorno del figlio, in compagnia del gatto Zart, e presso i quali si sente a casa. 
Improvvisamente il Partito chiede anche a Rosa di fare la sua parte: viene infatti assunta, per duecento marchi al mese, come assaggiatrice del Führer. Il compito che condivide con le compagne al tavolo della mensa è quindi quello di mangiare, semplicemente, di consumare le pietanze destinate poi ad Hitler per verificare che nessuno abbia cercato di avvelenarlo; ad ogni boccone le ragazze rischiano la vita, il cibo che le nutre potrebbe ucciderle.

Non è la paura l'elemento predominante di questo romanzo, come si potrebbe pensare: il filo conduttore tra i capitoli è quello delle emozioni e delle relazioni umane. Attorno al tavolo della mensa nascono amicizie nonostante il clima di sospetto e di egoismo, e la vita continua anche in tempo di guerra, anche quando i mariti cadono in guerra o sono dati per dispersi a migliaia di chilometri di distanza. La giovane vita di Rosa si intreccia in particolare nelle notti a Gross-Partsch con quella di Ziegler, tenente delle SS addetto alla sorveglianza delle assaggiatrici, e nelle giornate nella mensa alla Wolfsschanze (la "tana del lupo", quartier generale del Führer) con i molti, troppi segreti di Elfriede, sua collega di assaggi. 
Sono i rapporti tra i personaggi, i loro timori ed il loro coraggio, i sentimenti che li rendono fragili, a tenere viva l'attenzione del lettore. Sono le sfumature che rendono Rosa vittima di un sistema ma al tempo stesso sua complice, incapace di prendere posizione come lo era stato suo padre e per questo colma di vergogna nel ricordarlo; sono le sfumature a rendere Ziegler un sorvegliante autoritario ed inflessibile, capace di condannare un'assaggiatrice che ha tradito il Partito, ma al tempo stesso un uomo che fa fuggire la sua amante su un vagone merci di un treno diretto altrove per salvarle la vita.

Adolf Hitler e Margot Wolk
Il Nazionalsocialismo è stato un sistema totalitario nel quale i personaggi di questo libro sono completamente inglobati; le assaggiatrici sono cavie, di fatto, che rischiano tre volte al giorno di morire per garantire la sopravvivenza ad un uomo ritenuto all'epoca superiore a tutti gli altri cittadini tedeschi. Le assaggiatrici sono realmente esistite (il personaggio di Rosa si ispira infatti ad una di loro, Margot Wolk, che purtroppo non ha potuto incontrare perché già deceduta), ma non è il loro ruolo nella tana del lupo che ci colpisce, non è il loro compito. Ciò che rimane impresso è la dimensione intima delle loro esistenze, il punto di vista dal quale le osserviamo attraverso la narrazione in prima persona di Rosa, sentendoci accanto a loro; li osserviamo sopravvivere, scendendo a compromessi con se stessi e con la dittatura che li circonda.
L'autrice in più conclude il libro in maniera del tutto inaspettata, regalandoci una nuova prospettiva su Rosa e plasmando il corso degli eventi in modo da sorprendere e lasciare un'impressione di compiutezza, di risoluzione, senza per questo annoiare con un finale eccessivamente idilliaco che avrebbe stonato con l'intera storia.
Resta un sapore dolceamaro quando questo romanzo si chiude, restano addosso i ricordi di Rosa che ripensa a sua madre, alla Germania che dà fuoco ai libri, restano i personaggi minori così ben caratterizzati: quel medico nascosto nei boschi che ha cresciuto una figlia così onesta da sacrificare se stessa pur di aiutare un'altra donna, e poi i suoceri di Rosa, la loro quotidianità, la foto di Gregor che continuano ad aspettare, il loro gatto.
Restano immagini vivide di questa lettura, quasi lo si fosse guardato su uno schermo, tanto è capace l'autrice di evocare in noi ciò che descrive; e questa è una delle migliori impressioni che un libro terminato possa lasciarci per non farsi dimenticare in fretta. 

giovedì 1 febbraio 2018

Exit West

Di questo libro nel 2017 si è parlato moltissimo. Temevo l’effetto best-seller, quello che mi rende scettica nei confronti delle letture troppo inflazionate in un certo periodo, ma la curiosità ha prevalso e così non sono riuscita ad aspettare: ora posso dire di aver preso la decisione migliore.




Titolo: Exit West
Autore: Mohsin Hamid
Anno della prima edizione: 2017
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 152




Nadia e Saeed vivono in un paese in guerra; non sapremo mai di quale paese si tratta, possiamo supporre che si trovi in Medioriente, a tratti mi ha fatto pensare al Libano, potrebbe tuttavia essere lo stesso Pakistan del quale l’autore è nativo. La guerra, comunque, impone loro coprifuochi, fa scarseggiare le provviste ed i medicinali, li espone agli attacchi dei miliziani, rende insomma invivibile la loro realtà. Mentre Nadia ha interrotto i rapporti con la propria famiglia per vivere sola, scelta molto controcorrente e contrastata nel suo contesto sociale, Saeed è un ragazzo più tradizionalista che vive con i genitori; Nadia rifiuta le convenzioni ed indossa una veste nera solo per non essere infastidita dagli uomini, Saeed prega regolarmente e crede nella castità prematrimoniale. Sono molto diversi, eppure come spesso capita si incontrano, e si innamorano.
Attorno a loro la guerra si intensifica ed al tempo stesso aumentano le voci attorno a loro che parlano di porte: porte fisiche, porte normalissime, come quelle che separano una stanza dall’altra, che invece di affacciarsi su un altro ambiente si aprono inaspettatamente su un altro Stato. Nonostante dapprima la credano solo una leggenda, una volta compreso che le porte esistono davvero, Nadia e Saeed si lasceranno alle spalle tutto ciò che li trattiene e passeranno attraverso uno dei varchi, trovandosi catapultati in Occidente.
Il loro viaggio toccherà diversi Stati e passerà attraverso diverse porte; la realtà che incontreranno però è quella di un’Occidente ostile, dove gruppi di nativi si oppongono all’arrivo dei migranti, fanno di tutto per serrare i varchi, privare questi fiumi umani dei più basilari servizi, talvolta sino ad ucciderli. È un’Occidente che ha votato la Brexit, che ha eletto Trump presidente degli Stati Uniti; Nadia e Saeed sono due personaggi di fantasia che vivono in un presente del tutto reale.



Illustrazione di Jun Cen

Siamo tutti migranti attraverso il tempo” scrive Hamid, e con questo spiega le tendenze nostalgiche e spesso orientate alla chiusura che si diffondono nei nostri Paesi: sono elettori adulti, se non anziani, quelli che hanno preferito Donald Trump e l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Hamid parla di migranti in maniera universale, apre varchi dalla Grecia all’Inghilterra, da Londra a San Francisco, ci parla di come l’intero genere umano sia in mutamento costante, in costante movimento. In “Exit West” c’è la cosiddetta crisi dei rifugiati, ci sono i campi profughi sulle isole greche, ma c’è anche la riscoperta di un senso di umanità perduta quando la situazione sembra essere sfuggita di mano.
Un altro aspetto estremamente convincente del romanzo di Hamid, che ha uno stile preciso e pulito (mi ha ricordato le opere di McEwan), è che non siamo davanti ad una storia d’amore idilliaca e stereotipata. Nadia e Saeed sono due individui estremamente diversi, ne cogliamo le differenze sin dai primi incontri, sono due personalità che si aggrappano l’una all’altra negli anni più difficili delle loro vite, costantemente in transito, ma sempre sul punto di proseguire in direzioni diverse, quelle più congeniali ad ognuno di loro.
In conclusione sento di aver concluso una lettura significativa ed importante, che parla del presente senza essere didascalica e riuscendo ad inserirvi un elemento di fantasia senza che il romanzo perda di credibilità. Il tema delle migrazioni mi è molto caro, lo scorso anno il più memorabile dei libri che avevo letto a riguardo era stato “Voci del verbo andare” di Jenny Erpenbeck (ve ne avevo parlato qui) e quest’opera ancora più recente è riuscita a convincermi ancora di più. 

Qui un'interessante intervista all'autore a proposito del romanzo.