domenica 31 maggio 2020

Zoo

Da oltre quindici anni apprezzo Paola Barbato come sceneggiatrice di Dylan Dog, l'unico fumetto che abbia mai letto con costanza (se si escludono gli anni dell'infanzia trascorsi con Topolino e le Witch). Solo lo scorso anno l'ho scoperta come scrittrice di romanzi, leggendo "Non ti faccio niente" di cui ho scritto qui. Prima della quarantena ho assistito alla presentazione in una libreria della mia città di quello che era allora l'ultimo romanzo pubblicato: e confesso che mi ha incuriosita così tanto che ho scelto di leggerlo subito.




Titolo: Zoo
Autrice: Paola Barbato
Anno della prima edizione: 2019
Casa editrice: Piemme
Pagine: 448




LA STORIA

In un capannone che potrebbe trovarsi ovunque, ma di certo è ben lontano da ogni luogo abitato, si risveglia Anna. Non ricorda nulla di quanto le sia accaduto e per di più si trova in un carrozzone, in una gabbia: attorno a lei altre vittime di un criminale sconosciuto, rinchiusi come gli animali di un circo o appunto di uno zoo, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche e ogni giorno più vicini all'abisso delle proprie anime.


COSA NE PENSO

Inserito all'interno di una ideale trilogia iniziata con "Io so chi sei", sarà seguito da "Vengo a prenderti", in libreria il 3 giugno; rispettare l'ordine di lettura non è però determinante, dato che le storie raccontate dai primi due titoli sono parallele nel tempo e non svelano alcun dettaglio l'una dell'altra.
Rifiutato da numerosi editori, per fortuna la sua autrice ha creduto così tanto nel suo contenuto da non arrendersi -come scrive lei stessa nei ringraziamenti in chiusura; e così ci troviamo tra le mani uno di quei romanzi che ti tolgono il sonno, che non puoi posare nemmeno per il tempo di un pasto o di una doccia.


"Zoo" è narrato in terza persona, con una sorta di distacco interrotto dai pensieri in corsivo della protagonista che prepotentemente si inseriscono a turbare l'equilibrio del racconto.
Si tratta di un libro claustrofobico, che fa sobbalzare con colpi di scena e personaggi che si presenteranno nei vostri incubi. Ci sono infatti il Rosso, che grida nella sua gabbia privo del lume della ragione, Vasco e Nicola, crudeli e implacabili, ma soprattutto il Coccodrillo, che non pronuncia mai una parola e con cui è vietato comunicare, costretto in una gabbia che non gli consente di alzarsi. Altri compagni di prigionia sono più rassicuranti: il dolce Giulio, il fragile Saverio (già noto, per chi ha precedentemente letto "Io so chi sei"), Sandra che parla tanto ma a cui Anna non sa mai se credere. Una delle torture dello zoo è proprio questa: non avere nessuno di cui potersi veramente fidare, non sapendo quali istruzioni abbiano ricevuto dal rapitore.
«Quale gioco?» «Questo. Noi qui dentro.» «E tu pensi che è un gioco?» «Cos’altro potrebbe essere?» «È arte, picceré. È arte.» Poi ricominciò a tossire.
Come avrete ormai capito, "Zoo" è un romanzo che mantiene altissima la tensione per tutto il tempo del racconto; seguiamo Anna restandole accanto per mesi, soffriamo il freddo con lei, centelliniamo le scorte d'acqua e ci adattiamo alla sporcizia, ma non sempre ne comprendiamo le azioni. Anna infatti non è un'eroina, e qui si svela il grande talento di Paola Barbato: Anna non è un personaggio positivo per cui parteggiare senza ombra di dubbio, ma una donna che spesso sa essere sgradevole e come lo stesso rapitore ci ricorda (perché anche le sue riflessioni compaiono a fare da spartiacque tra i paragrafi) non può essere definita del tutto innocente.
Ho visto il tuo sguardo mentre ti passavo davanti, quella superiorità nel crederti migliore, un gradino sopra. È lì che ho deciso di metterti in lista. Mai scelta migliore. Ero un passo dietro a te, per giorni e settimane, e non te ne sei mai accorta perché nella tua visione miope ed egocentrica del mondo le persone come me non esistono.
Di certo per dare un giudizio sulla storia manca qualche tassello importante, che suppongo arriverà con la pubblicazione del terzo libro; ma credetemi quando vi dico che se avete voglia di una lettura capace di tenervi svegli in piena notte, "Zoo" è una di queste!

lunedì 25 maggio 2020

Tony Nessuno

Ci sono romanzi che acquistiamo perché ne leggiamo meraviglie nelle recensioni altrui, poi li lasciamo lì, in attesa del loro momento. È ciò che è capitato a "Tony Nessuno", che è rimasto nella mia libreria per quasi due anni prima di essere letto: ma quando ho sentito il suo richiamo è stata poi una splendida sorpresa.



Titolo: Tony Nessuno
Autore: Andrès Montero
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Edicola Ediciones
Traduttrice: Giulia Zavagna
Pagine: 168




LA STORIA

Javrila cresce nel Grande Circo Garmendia, un circo familiare cileno, dopo essere stata abbandonata. È al circo che un giorno si presenta un uomo arabo che ha con sé un bambino e un misterioso libro in due volumi: "Le mille e una notte". Quando l'arabo se ne va, si lascia dietro i libri e anche il bambino, sparendo nel nulla come dal nulla è arrivato.  
Javrila sa leggere e così le storie de "Le mille e una notte" diventano il suo numero negli spettacoli del circo, capaci di ammaliare centinaia di spettatori; nel frattempo il bambino cresce, ed è un bambino a dir poco atipico, convinto di far parte delle storie che Javrila racconta: perché in fondo chi può dire cosa sia vero, e cosa sia illusione?


COSA NE PENSO

"Tony Nessuno" è prima di tutto un romanzo sul potere del racconto: sono "Le mille e una notte" che l'arabo ha lasciato al circo a guidare la narrazione, storia dopo storia, pagina dopo pagina, verso una conclusione sulla quale pare gravi una maledizione.
E disse che la ragione per cui doveva disfarsi dei libri non era facile da spiegare, che forse ci sarebbe sembrata un’idiozia, ma c’era una leggenda, una maledizione del diciottesimo secolo, diffusa in Francia probabilmente, una credenza popolare e insignificante, una storia da impostori d’altri tempi alla quale era meglio non prestare la minima attenzione, che probabilmente non aveva alcun valore, era solo una vecchia storia, eppure chi poteva dirlo, lo vedevamo anche noi che i libri erano così antichi, così curiosi quei loro racconti, che chi poteva dirlo, che lo scusassimo per la sua ignoranza, per la sua superstizione, ma lui temeva quella leggenda, temeva quella maledizione come nient’altro al mondo, la leggenda secondo la quale chi avesse voluto leggere tutti i racconti delle Mille e una notte sarebbe morto nell’impresa.
In "Tony Nessuno" il lettore è in bilico, come i protagonisti, tra ciò che è vero e ciò che è immaginario; è il circo ad essere finzione, o lo è la vita al di fuori di esso? Potrebbero dunque essere reali le leggende e le maledizioni, così come lo sono i pagliacci e i trapezisti quando salgono sul palco, sospendendo tutto il resto come in un grande incantesimo.
 “Quando facciamo cadere il tendone, uccidiamo l’illusione” dissi un giorno a Tony Mirtillo, già più adulta, mentre la tela cadeva e il vento ci fustigava. “Quando facciamo cadere il tendone, uccidiamo la verità,” mi corresse malinconico.

Nonostante l'atmosfera onirica di cui è intriso, "Tony Nessuno" è però anche un romanzo profondamente concreto, che dà voce ai corpi, alle violenze che Javrila subisce senza potersi ribellare, all'emarginazione che cala sul bambino senza nome abbandonato al Grande Circo Garmendia perché ha ben poco dei comuni bambini e non è capace di farsi accettare. Non è tutto perfetto dietro i tendoni del circo, le storie non sono soltanto a lieto fine ma raccontano anche il male che alberga nell'animo umano, gli istinti impossibili da reprimere, le attrazioni e i giochi di potere, così come il re Sharyar ne "Le mille e una notte" ha ucciso tante giovani donne prima di incontrare Sharazad.
Un altro punto a favore di questo romanzo è la caratterizzazione dei personaggi, specialmente del bambino che dà il titolo all'opera: se la protagonista e narratrice è impossibile da dimenticare, lo è ancora di più il piccolo Sharyar, tenero quanto imperscrutabile, difficile da collocare sia tra i personaggi positivi sia tra quelli negativi, perché i dubbi sul suo conto non si chiariscono se non sul finale. 
Disse che a quel bambino sconosciuto poteva stare bene solo il nome di Tony Nessuno. Non si sentì nemmeno una risata perché il Mora non lo disse per scherzo, e perché tutti sapevano che aveva ragione, che quel bambino non era nessuno e a nessuno faceva simpatia perché non sembrava un bambino e perché era strano e perché sembrava che dentro di lui non abitasse nessuno, e soprattutto perché non era un Garmendia come tutti noi. Quindi ci limitammo ad annuire in silenzio e a rimuginare sul nome atroce di Tony Nessuno.

"Tony Nessuno" è un libro magico, dalle atmosfere fiabesche: ambientato in un circo itinerante che pare sospeso nel tempo, narrato in prima persona dalla protagonista che mette in ordine i propri ricordi, dall'infanzia all'adolescenza, cattura il lettore come la voce di Sharazad ha intrappolato il re salvandole la vita notte dopo notte, e così mentre leggiamo speriamo di guadagnarci la salvezza, speriamo che saranno salvi Javrila e Tony Nessuno, anche se in cuor nostro sappiamo che non sarà possibile. 
 “Si nasce e si muore nel circo, ma il circo non nasce né muore. Il circo è infinito. Il circo ti intrappola e non ti lascia andare, ma noi siamo felici così. Chi se ne va non lo fa perché vuole andarsene. Se ne va perché il circo lo allontana. E chi arriva non lo fa perché vuole farlo. Arriva perché è nato nel circo e se l’è dimenticato.”
È stata per me la prima esperienza di lettura ambientata in un circo, e credo che sia stata un'ottima lettura propedeutica per Le mille e una notte, mia aspirazione letteraria da diverso tempo. La consiglio a tutti quelli che come me sono attratti dal grande classico, perché non potrà che motivarvi di più ad affrontarlo; ma anche a tutti coloro che sono incuriositi dalle atmosfere incantate, dai circhi e dalla narrazione nel senso più puro del termine: non potrà che entusiasmarvi quanto ha entusiasmato me. 

lunedì 18 maggio 2020

La vita gioca con me

Grossman è stato, e non esagero, l’autore che ho amato più intensamente. È l’autore che sa scrivere dei sentimenti nello stesso modo in cui li provo, che sa dare voce alle emozioni che un attimo prima non mi rendo conto di aver avvertito. Ho amato Grossman dal primo libro che ho letto, “Qualcuno con cui correre”, e non ho mai smesso; tuttavia mi sono presa una lunga pausa dall’ultima, spettacolare lettura (“A un cerbiatto somiglia il mio amore”) e questa, perché temevo una delusione, temevo di non apprezzare più il suo stile quanto in passato.
Così questo romanzo è stata molto più di una semplice lettura: è stata un ritorno a casa, una riscoperta, è stata pagine sfogliate con il cuore in gola.



Titolo: La vita gioca con me
Autore: David Grossman
Anno della prima edizione: 2019
Titolo originale: Iti hachaiim mesachek harbe
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Alessandra Shomroni
Pagine: 293



LA STORIA

Vera compie novant’anni in Israele e attorno a lei c’è l’immensa famiglia del kibbutz, ci sono i parenti venuti apposta dall’estero, ci sono il figlio Rafi e la nipote Ghili, ma soprattutto c’è Nina, sua figlia, arrivata da molto lontano. 
E Nina porta con sé una rivelazione, e una richiesta: quella di conoscere finalmente la verità su se stessa, sul passato ingombrante di Vera, su ciò che le è capitato nell’infanzia e che da adulta non è mai stata capace di superare. E così il video sul quale vuole imprimere l’intera storia diventa il pretesto per un’avventura di famiglia… 
“Tua madre non ti ha abbandonata.” Rafael ha recitato la sua parte. “Anche lei è stata data in pasto ai cani. È stata buttata in un campo di prigionia, condannata ai lavori forzati. Non aveva scelta.” “Vai a spiegarlo a una bambina di sei anni e mezzo” ha ribattuto Nina, interpretando il proprio ruolo. “Non hai più sei anni e mezzo” ha obiettato Rafael. “E invece sì” ha sentenziato lei.

Eva Panic Nahir con il marito e la figlia (1946)

COSA NE PENSO

Per raccontare “La vita gioca con me” è necessario premettere che la figura di Vera si ispira a quella di Eva Panic Nahir, una donna jugoslava che era stata internata sull’isola di Goli Otok, campo di rieducazione voluto dal maresciallo Tito. David Grossman e Eva sono stati amici ed è stata proprio lei ad incaricarlo di trasformare in romanzo la storia della sua vita e dare voce a quella di sua figlia Tiana. Ispirandosi alle loro esperienze, da Eva è nata Vera, e da Tiana Nina.

“La vita gioca con me” è un romanzo familiare, più di tutto. È un romanzo di madri e di figlie, di un amore che non è mai stato compreso né espresso come avrebbe dovuto. 
“La vita gioca con me” è un romanzo di donne, perché i personaggi maschili sono un contorno, un supporto alle vicende delle protagoniste femminili: Rafi, devoto, solido ma dipendente; Meir, lontano, forse prossimo ad uscire di scena; Miloš, che ha avuto un’importanza cruciale ma è morto a poco più di trent’anni. 
Io dovevo farlo per far sapere a tutti che c’è stato Miloš a questo mondo, uomo come lui, magro, malato, non tanto forte fisicamente, ma eroe e idealista in anima, e persona più pura e profonda, e mio amico e mio amore...
Il fulcro del romanzo intero è Vera: una novantenne che non ha perso l’energia della giovinezza, né la forza morale che l’ha sempre contraddistinta. Vera è rimasta se stessa negli anni, sempre fedele a ciò che è stata e all’amore per Miloš, quel giovane colonnello serbo che le rubò il cuore al ballo del liceo e la sposò incurante del fatto che fosse ebrea, quell’uomo integerrimo e coraggioso che non ha mai tradito né smesso di amare, anche dopo sessant’anni. 
Nina, sua figlia, è una donna molto diversa: una donna spezzata, che non ha mai smesso di sentirsi la bambina perduta e ferita che è stata, della quale non ha mai rimesso insieme i pezzi. Così come è stata una figlia smarrita è stata una madre distante per Ghili, che non ne ha mai compreso l’amore, che non le ha mai perdonato le distanze. 
La legge non scritta delle loro torture reciproche stabiliva che l’assioma dell’amore assoluto e caparbio di mio padre fosse tra le poche cose stabili della vita di Nina, e benché lo avesse respinto, lei aveva molto bisogno di quell’amore.
È Ghili la voce narrante di “La vita gioca con me”, e Ghili è una ragazza fragile, intenta al prendere le distanze dalla propria madre quanto più possibile, al difendere a tutti i costi la nonna Vera che si è presa cura di lei al punto di averle salvato la vita: ma non esistono persone senza colpe, sembra dirci Grossman nel suo coraggioso ritratto di Vera.  
«Ti hanno permesso di spiegare, di difenderti? Avevi un avvocato?» «Avvocato? Sei impazzita? Hanno buttato cinquantamila prigionieri in campi di concentramento di Tito come cani, senza processo. Solo qui, a Goli, sono morti forse in cinquemila, ammazzati o suicidati. E tu parli di avvocato?»

Non solo di famiglie, di passato e di traumi racconta Grossman ne “La vita gioca con me”: il suo è un romanzo che racconta anche la guerra in Jugoslavia, i gulag di Tito, e racconta una delle storie d’amore più intense che abbia mai incontrato. 
Dopo ora forse da quando eravamo partiti, mia suocera dice: “Di cosa sei fatta, Vera, di ferro o di pietra?”. E io, in cuor mio, ho pensato, di amore per Miloš. E non abbiamo più detto niente finché non siamo arrivati e lo abbiamo messo in terra di suo villaggio. Dovevo farlo. Non potevo lasciarlo sotto numero. E sapevo anche che nessuno lo tirava fuori da lì tranne me.
“La vita gioca con me” si svolge principalmente nel presente, ad eccezione di alcuni passaggi in cui si dà voce al passato di Vera a Goli Otok, e lo si fa in terza persona, come osservando dall’esterno le sofferenze a cui è sottoposta -non che questo le renda meno toccanti. Goli Otok la vediamo dunque nel passato, ma anche nel presente, attraverso il viaggio in Croazia, nei luoghi dove Vera è cresciuta, ha amato, ha vissuto prima dell’emigrazione in Israele. 
Israele resta invece in disparte, come l’ebraismo che ha un ruolo assai limitato:  si fa riferimento alla deportazione ad Auschwitz dei genitori di Vera, sorte che non è toccata però a lei e alle sue sorelle; la religione non ha importanza per lei, che è socialista, e neanche Nina o Ghili si sentono ebree se non per la lingua che parlano -mentre l’ebraico di Vera è rimasto imperfetto, contaminato dall’ungherese anche dopo più di mezzo secolo.
Tuo padre aveva motto: “Ognuno ha unico turno per giocare”. E così ha vissuto. Tante volte è stato in pericolo, in guerra. Anche vita era guerra, tutto seguiva logica di guerra. Così lui, inconsciamente, sapeva che doveva preparare sua figlia. Programmava tutto, anche che forse doveva suicidarsi prima o poi, da un momento all’altro. Vivevamo su filo di rasoio. […] Con me vita gioca tanto’ dice Vera sottovoce, come a se stessa.
I romanzi di Grossman sono densi: colmi di sentimenti, di dolori, di umanità. Non è stata una sorpresa per me, bensì una conferma: dopo aver amato profondamente i suoi romanzi passati è stato magnifico ritrovare la stessa penna, la stessa capacità di dare voce ad un personaggio femminile assolutamente credibile, di tirare i fili dei suoi personaggi in modo che si sfiorino senza annodarsi. 
È difficile trovare le parole per consigliarvi questo libro quanto vorrei: sappiate che saprà rubarvi il cuore, emozionarvi, farvi soffrire con Vera, con Nina, con Ghili e con Rafael al punto che vi sembrerà di conoscerli e che probabilmente sarà anche l’occasione per imparare qualcosa su un conflitto di cui non si parla molto spesso. Spero che siano ragioni sufficienti per farvi correre a procurarvelo! 

lunedì 11 maggio 2020

La lettera di Gertrud

Ho assistito alla presentazione di questo romanzo lo scorso anno, in una libreria del centro. L'ho acquistato e letto colma delle migliori aspettative, perché l'autore era stato a dir poco convincente nel presentarlo e le premesse mi facevano pensare ad un romanzo che sarebbe stato perfetto per me. In realtà una volta terminata la lettura mi sono rimaste alcune perplessità...




Titolo: La lettera di Gertrud
Autore: Björn Larsson
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Brevet fran Gertrud
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Katia De Marco
Pagine: 457



LA STORIA

Martin Brenner è un genetista cinquantenne, sposato e con una figlia adolescente, Sara, che ama moltissimo. Sua madre, Maria, è appena morta; è in questa triste occasione che a Martin viene consegnata una lettera, da parte di un avvocato esecutore testamentario delle volontà di Maria, dove la donna gli svela chi era realmente. Il suo nome era infatti Gertrud, ed era una donna ebrea sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz; sopravvissuta ed ottenuto l'asilo politico lontano dal suo passato aveva deciso di negare ogni traccia della propria identità ebraica per permettere al figlio di essere chi avrebbe voluto, il più libero ed in salvo possibile.
Ma naturalmente questa rivelazione avrà un impatto sulla vita di Martin… 



COSA NE PENSO

Larsson scrive apparentemente un romanzo sull'identità, ma in realtà "La lettera di Gertrud" è piuttosto un romanzo contro l'identità; Larsson scrive della possibilità di non avere un'identità, di non appartenere ad alcuna etnia, ad alcuna religione. È infatti questo che Martin desidera immediatamente quando scopre che sua madre Maria era in realtà Gertrud, nata ebrea (ed in realtà rimasta tale, di nascosto, per tutta la vita): nonostante agli occhi di tutti questo lo renda un ebreo, Martin si rifiuta di accettarlo e di sentirsi tale.
"Ma allora chi sei?" non poté trattenersi dal chiedere Samuel. "Non hai bisogno di appartenere a qualcosa?"
Si dedica quindi con ancora più energia alla sua ricerca sui presunti geni che accomunerebbero tutti gli ebrei del mondo -e che, come emerge dai suoi studi, sono impossibili da individuare nel genoma umano. La religione non è scritta nel DNA, ma ha un'enorme importanza agli occhi della società, e seppure per Martin la soluzione più facile sarebbe quella di convertirsi e dichiararsi ebreo non è questa la strada che decide di percorrere.
Martin invece era grato a sua madre per avergli altruisticamente lasciato scegliere la sua vita e chi voleva essere. Le rare volte in cui pensava che avrebbe dovuto rivelargli prima la sua identità, era più che altro per lei, perché così avrebbe evitato di vivere sempre senza mai essere del tutto se stessa.


Ciò che avviene a Martin è un racconto dal respiro universale, che potrebbe capitare ovunque; Larsson volutamente non indica in alcun modo preciso il luogo in cui il protagonista vive, non indica nemmeno la valuta in cui effettua i suoi acquisti. È facile pensare ad un qualche paese del Nord Europa, anche per via della nazionalità svedese del suo autore, ma non ritroviamo alcuna conferma delle nostre impressioni; l'antisemitismo non è d'altronde un problema che colpisca alcune nazioni in particolare, ma sta tornando ad essere un fenomeno piuttosto diffuso in Europa -come dimostrano notizie agghiaccianti come questa sulle pagine della stampa. 
Il romanzo di Larsson è suddiviso in tre parti, e quella in cui conosciamo meglio Martin è la prima; nella seconda maggiore spazio viene concesso al punto di vista di sua moglie e di sua figlia, inevitabilmente coinvolte nella valanga che si abbatte su Martin. Nell'ultima si ha un efficace ribaltamento di prospettiva, poiché è lo scrittore a prendere la parola e a narrare quanto capitato al protagonista del suo libro -attraverso il pretesto di aver ricevuto da lui stesso l'incarico di scriverne la storia.
So che così questo libro rompe con le convenzioni e diventa un ibrido: parte come un romanzo classico basato sul principio flaubertiano del narratore impersonale e assente e si conclude come una biografia con inserti autobiografici. Ma non posso farci niente.

Tra i suoi numerosi romanzi, "La lettera di Gertrud" è quello che a Larsson ha richiesto un impegno e uno sforzo maggiore: gli ha richiesto infatti un mastodontico lavoro di documentazione sulla questione ebraica (come dimostrano le sedici facciate di bibliografia in appendice), dal momento che opinioni di studiosi, scienziati, teologi e letterati arricchiscono la vicenda di Martin e della sua famiglia. 
Alcuni con cui aveva parlato, soprattutto con simpatie di sinistra, sostenevano che la recrudescenza dell'antisemitismo era colpa di Israele. Erano la repressione brutale di Hamas, gli insediamenti in Cisgiordania, i bombardamenti indiscriminati della striscia di Gaza e il muro di separazione non solo a causare la recente impennata d'antisemitismo, ma anche a legittimarla, sebbene questo non si dicesse ad alta voce, o almeno non ancora. La maggior parte degli antisemiti non sapeva - o non voleva - distinguere tra antisemitismo e antisionismo, senza rendersi conto che c'erano anche ebrei antisionisti. Su questo punto la sinistra era altrettanto razzista della destra: si faceva di tutta l'erba un fascio. Come se non bastasse, Golder aveva notato, nei politici israeliani, la tendenza a ragionare nello stesso modo: si equiparavano senza batter ciglio antisionisti e antisemiti.
Se questo da un lato rende il romanzo di Larsson un'opera approfondita e sfaccettata, rappresenta anche la sua maggiore debolezza: molti sono i pareri esterni, e in questo va perduta la psicologia di Martin, vengono meno le sue motivazioni e i suoi sentimenti, e ancor più sullo sfondo sono relegate sua moglie e sua figlia.
Nel complesso ho trovato "La lettera di Gertrud" un romanzo dalle ottime premesse, che regala preziosi spunti di riflessione e lo fa in modo ben costruito ed argomentato. A tratti devo ammettere che ho trovato il ritmo della narrazione più lento di quanto avrei apprezzato, e la documentazione proposta talmente vasta da risultare quasi dispersiva; rimane tuttavia un romanzo ben scritto, del quale vi consiglio la lettura se siete interessati al tema dell'identità e soprattutto dell'ebraismo

lunedì 4 maggio 2020

Jan Karski

Uno degli aspetti che apprezzo sempre di più nelle mie letture, oltre naturalmente alla qualità delle storie che sanno raccontarmi, è l'opportunità di imparare qualcosa tra le loro pagine: conoscere personaggi storici di cui non avevo mai sentito parlare, o eventi che non sono rientrati nei programmi scolastici. Come è capitato con questo fumetto che ho trovato in edicola in occasione del Giorno della Memoria.




Titolo: Jan Karski. L'uomo che scoprì l'Olocausto
Autori: Marco Rizzo, Lelio Bonaccorso
Anno della prima edizione: 2014
Casa editrice: Rizzoli
Pagine: 142




Avevo già letto un'opera di Rizzo e Bonaccorso lo scorso anno, "Salvezza", di cui avevo scritto qui: il resoconto della loro esperienza a bordo di una nave ONG impegnata a soccorrere i migranti del Mediterraneo.
Sempre tutt'altro che immaginaria è anche quest'opera dedicata a Jan Karski, militare polacco il cui vero nome era Jan Kozielewski, uomo dalla vita estremamente avventurosa che nel corso della Seconda Guerra Mondiale entrò a far parte della resistenza polacca contro il nazismo. 
Numerose volte arrestato ed ogni volta riottenuta la libertà, dal 1942 in poi Jan fu incaricato di raccogliere informazioni all'interno del ghetto di Varsavia e poi dai campi di concentramento, per poi riferire al governo inglese e statunitense -che tuttavia scelsero di non credergli


Rizzo e Bonaccorso hanno per necessità semplificato le vicende di cui Jan è stato protagonista nel corso degli anni: per esempio il memorabile personaggio della sua amata, Joanna, è in realtà l'unione tra le donne che ha incontrato nelle sue avventure.
Per essere tuttavia fedeli al personaggio storico che raccontavano hanno utilizzato il più possibile le parole dello stesso Jan, prese dai suoi diari ed inserite nei balloon della sua rappresentazione a fumetti; anche il momento di maggiore intensità dell'opera, quello in cui Jan si trova nel ghetto di Varsavia prima e nel campo di concentramento poi, sono le parole di Jan a raccontare gli orrori ai quali si trova ad assistere. 


Degne di nota sono le tavole attraverso cui Rizzo e Bonaccorso rappresentano la vita di Jan: colorate sui toni del grigio e del marrone, dove l'unica tinta luminosa è il bianco della neve che non trasmette positività ma una sensazione di gelo, di precarietà, sono perfette per comunicare il dolore che circonda Jan, le sofferenze a cui assiste a cui lui stesso è sottoposto ogni volta in cui si trova prigioniero oppure la sua testimonianza non viene creduta. 


Di certo ci sarebbe ancora molto da scoprire su Jan Kozielewski, e sono gli stessi autori del fumetto a suggerirci nella postfazione all'opera di approfondire la sua figura leggendo i testi a cui loro stessi hanno fatto riferimento; ho trovato facilmente reperibile il testo autobiografico di Karski intitolato "La mia testimonianza davanti al mondo", che potrebbe fare al caso vostro se voleste saperne di più.