mercoledì 27 gennaio 2021

L'incubo di Hill House

Considerata da Stephen King una fonte di ispirazione e dagli amanti del genere una maestra dell’horror, Shirley Jackson mi aveva decisamente conquistata più altrove che con questo romanzo!


Titolo: L'incubo di Hill House
Autrice: Shirley Jackson
Anno della prima edizione: 1959
Titolo originale: The Haunting of Hill House
Casa editrice: Adelphi
Traduttrice: Monica Pareschi
Pagine: 233


LA STORIA

Montague, un professore interessato ai fenomeni paranormali coinvolge Eleanor e Theodora, due giovani donne che sono già stati protagoniste di eventi difficilmente spiegabili, e le invita a Hill House, una casa ai piedi di colline che viene ritenuta infestata e dove nessuno riesce ad abitare per più di pochi giorni. Con loro si avventura l’erede della dimora, e i quattro si apprestano ad indagare sulle forze che albergano veramente a Hill House: sprofonderanno però in un groviglio di suggestioni e terrori...

COSA NE PENSO

La forza del romanzo sta nella caratterizzazione delle protagoniste femminili: da un lato Eleanor, fragile e smarrita, per la quale è impossibile non provare tenerezza, ossessionata com'è dal senso di colpa nei confronti della madre morta. Eleanor non è mai stata felice, viene oppressa dalla sorella e sente di stare sprecando la propria vita; è dunque inevitabile che la sua psiche sia facile da suggestionare... Dall’altra parte c’è Theodora, una ragazza molto sicura di sé e che affascina Eleanor sin dal primo momento, ma al tempo stesso la respinge e sembra prendersi gioco di lei.

"Non berlo" la incitava mentalmente Eleanor. "Insisti per avere la tua coppa di stelle. Se t'intrappoleranno per farti diventare come tutte le altre, non rivedrai più la tua coppa di stelle. Non bere." La bimba sollevò il visino e la fissò, e le sorrise d'un sorriso quasi d'intesa, facendo le fossette, e scosse la testa ostinata, guardando il bicchiere.

Non altrettanto incisivi sono invece i personaggi maschili: Luke, l'erede della fortuna, viene trattato da Theodora come un giocattolo, mentre il professor Montague conduce una ricerca dagli obiettivi e dai metodi non proprio scientifici.

La prima metà di questo romanzo non potrà che rendere felici gli amanti dei romanzi ricchi di suspense, tra porte che si chiudono, biblioteche dagli strani odori, zone gelide senza apparente motivo: Hill House si presenta da subito come una costruzione spettrale e spaventosa, che ispira sentimenti di diffidenza e di ostilità in coloro che vi si avvicinano.

Tutto quello che ho potuto pensare quando sono arrivata e l'ho vista dall'esterno, è stato che mi sarei divertita un mondo a restar fuori e vederla bruciare. Ma chissà, prima che ce ne andiamo...

Tuttavia ad un certo punto la narrazione prende una piega diversa, introducendo nuovi personaggi, a mio parere non necessari: la moglie del professor Montague e un direttore universitario che la accompagna. I due, convinti di poter comunicare con gli spiriti, intervengono con un registro del tutto diverso dal precedente e spezzano la magia e la suggestione che si erano create fino a quel momento.

Che Shirley Jackson sappia costruire una storia, questo è indubbio. Molti dubbi rimangono, una volta terminata la lettura, molte le domande irrisolte nel lettore: qualcosa di soprannaturale alberga davvero a Hill House, o tutto era nella testa della suggestionabile protagonista? In realtà, come nel caso de "Il giro di vite" di Henry James, non ci sono risposte preconfezionate; fatto sta che la vicenda di Hill House si rivela un fuoco di paglia per lo stesso professore che era tanto interessato alla casa. Qualcosa di strano di certo si verifica, ma cosa? 

La casa era spregevole e Eleanor rabbrividì appena la vide. Il pensiero sgorgava libero e le diceva: Hill House è infame, è malata. Fuggi finché sei in tempo.

Devo confessarlo: sono rimasta piuttosto delusa da questo romanzo, forse anche perché avevo nei suoi confronti aspettative piuttosto alte. L’aspetto che ho trovato poco convincente è il calando degli elementi spaventosi, o meglio il fatto che li abbia trovati più inquietanti nella prima metà e sia poi stata distratta dalle nuove comparse nella seconda. Per gli amanti delle case infestate mi sento comunque di consigliare questa lettura, che ne incarna ogni caratteristica e che divide l'opinione dei lettori: alcuni ne sono stati entusiasti. Io purtroppo non ho provato per il tira e molla tra le protagoniste lo stesso interesse che avevano suscitato in me le sorelle Blackwood!

lunedì 25 gennaio 2021

Un sacchetto di biglie

"Un sacchetto di biglie" è un libro che viene spesso consigliato nelle scuole come lettura per ragazzi delle medie inferiori e ora che l’ho portato a termine posso dire che sono d’accordo con questa scelta, ma credo possa essere un suggerimento adatto anche per ragazzi un pochino più grandi.


Titolo: Un sacchetto di biglie
Autore: Joseph Joffo
Anno della prima edizione: 1973
Titolo originale: Un sac de billes
Casa editrice: Rizzoli
Traduttrice: Marina Valente
Pagine: 286


LA STORIA

"Un sacchetto di biglie" è il racconto autobiografico dell’esperienza dello scrittore di origini ebraiche Joseph Joffo e da suo fratello Maurice. Quando i due avevano appena dieci e dodici anni furono costretti a fuggire dalla città francese nella quale vivevano a causa dell’avanzare del nazismo. Dal 1941 alla fine del 1944, quando gli americani liberarono Parigi, i due ragazzini si trovarono a vivere una lunga serie di avventure che l’autore ha raccontato in questo testo.

COSA NE PENSO

"Un sacchetto di biglie" ha un grande pregio: raccontare il nazismo e la persecuzione degli ebrei da un punto di vista fresco e non troppo drammatico. Le difficoltà ci sono, innegabilmente: ci sono le fughe, la paura, la separazione dalla famiglia e la fine precoce dell’infanzia, ci sono le esperienze traumatiche che Joseph e il fratello si trovano a dover fronteggiare. Tuttavia lo stile dell’autore, molto dialogico e scorrevole, rende questo racconto lontano dai toni a cui siamo abituati -vi si trovano infatti anche scene che riescono a strappare un sorriso al lettore.

Alla documentazione che gli esperti hanno consacrato al cinema hitleriano, c'è anche questo nuovo elemento da aggiungere: la produzione nazista era riuscita a fabbricare un'opera che incantò la mattinata di due giovani ebrei. Sono questi gli imprevisti della propaganda.

"Un sacchetto di biglie" è un romanzo di formazione ricco di cambiamenti d’ambientazione, perché i due fratelli si spostano spesso per non essere catturati. Il punto di vista di Joseph è quello di un bambino innocente, che vive una persecuzione che non comprende, che trova naturalmente ingiusta, ma allo stesso tempo la sua ingenuità gli permette di affrontare la realtà con una risolutezza e una forza d’animo che difficilmente un adulto potrebbe avere. 

È sempre quando si va via che ci si accorge di essersi affezionati alle cose, avrei rimpianto la scuola, le vecchie strade, Virgilio, persino la maestra, ma non mi sentivo triste, riprendevo la strada, domani avrei ritrovato la mia sacca e raggiunto la città dai centomila palazzi, la città d'oro in riva al mare azzurro.

Vediamo quindi i due fratelli mentire spudoratamente a dei soldati nazisti, li vediamo trovare occupazioni di fortuna, organizzare piccoli traffici con i quali guadagnare qualche soldo, coinvolgere nella loro lotta per la salvezza quasi tutti coloro che incontrano lungo la loro strada.


Qualche volta un lettore adulto potrebbe mettere in dubbio quanto sta leggendo e potrebbe pensare che tutto vada finire troppo bene nelle avventure di Joseph e Maurice; in effetti pare strano che l’autore non abbia edulcorato in qualche modo le proprie sofferenze, anche se le difficoltà di certi viaggi e di certi momenti vengono descritte all’interno del testo. Devo confessare che anch’io qualche volta non sono stata completamente convinta da certe coincidenze fortunate che salvano la vita ai fratelli Joffo, ma l’autore è davvero un ebreo sopravvissuto al nazismo in Francia e così sono sopravvissuti i suoi fratelli e sua madre. Di conseguenza io credo che il fondo della storia sia reale e che forse qualche licenza poetica gli abbia consentito di rendere la propria esperienza più godibile dal punto di vista letterario.

“Un sacchetto di biglie” è anche il racconto di un legame fraterno molto emozionante, perché i due ragazzi crescono insieme e sanno sempre darsi forza a vicenda; non si separerebbero mai, ma trovano anche il coraggio per dividersi quando è necessario e devono salvarsi l’un l’altro. 

Un fratello è uno a cui si rende l'ultima biglia che gli si è appena vinta.

Per dei lettori coetanei dei due giovani protagonisti credo che questa sia una lettura assolutamente perfetta, perché sarà inevitabile per loro immedesimarsi in ciò che vivono Joseph e Maurice. Penso però che anche dei lettori adulti interessati alla tematica dell’Olocausto la potranno trovare una testimonianza molto interessante e che a differenza di tante altre può essere letta piuttosto a cuor leggero -la grande maggioranza dei capitoli infatti può essere affrontato senza troppa sofferenza. Io l’ho trovata una lettura molto scorrevole e appassionante, che ha saputo raccontarmi un passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo vivido e credibile. Non posso quindi fare altro che consigliarvela!

mercoledì 20 gennaio 2021

Terza generazione

"Terza generazione" è un romanzo che è rimasto nella mia libreria per oltre dieci anni, e che credo avrebbe meritato di essere letto prima perché da adolescente lo avrei apprezzato sicuramente di più


Titolo: Terza ragione
Autrice: Melina Marchetta
Anno della prima edizione: 1992
Titolo originale: Looking for Alibrandi
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Angela Ragusa
Pagine: 201


LA STORIA

La protagonista di questa storia è Josephine, che a 17 anni e vive a Sydney, in Australia. Qui frequenta una scuola cattolica e si scontra con le proprie radici italiane che non la fanno sentire mai completamente a proprio agio con i coetanei australiani. Su di lei pesano infatti le tradizioni di famiglia, il fatto di essere figlia di una ragazza madre molto giovane e una nonna, Katia, assai ingombrante -della quale Josephine a dire la verità non conosce poi così tanto.

COSA NE PENSO

Terza generazione è un romanzo che va a toccare molti temi: il primo è senz’altro quello dell’immigrazione italiana in Australia nella prima metà del Novecento. Fa parte di questa generazione di immigrati nonna Katia, donna coraggiosa e determinata, che emigra con sua sorella e suo marito Francesco che non saprà mai renderla felice. Nonostante la sua apparenza moralista, nonna Katia ai suoi tempi è stata tutt'altro che una donna sottomessa e convenzionale...

Il tema dell’immigrazione è centrale, ed è anche il più riuscito del romanzo che è ambientato negli anni '90 in Australia, dove erano radicati i pregiudizi che ancora colpivano la comunità di origini italiane.

Mia madre è nata qui, perciò gli italiani non ci hanno mai considerato completamente dei loro. Ma, dato che i miei nonni erano nati in Italia, non eravamo del tutto australiane. Nonostante questo, alle elementari mi sono trovata insieme a gente con la quale potevo discutere liberamente e sentirmi a mio agio. Passavamo dall'italiano e dal greco all'inglese [...]. Fuori di là, però, era tutta un'altra storia. 

Centrale è inoltre il tema della famiglia. Questa "terza generazione" del titolo si riferisce al fatto che tutte e tre le generazioni sono protagoniste: quella della nonna, quella della mamma e quella infine di Josephine. Oltre allo scontro generazionale e ai tanti segreti che per paura dei pettegolezzi del vicinato (soprattutto della comunità italiana stessa) sono stati taciuti per decenni c’è anche il tema della paternità, perché Josephine non ha mai conosciuto suo padre -che proprio nel suo diciassettesimo anno di vita entra in scena e crea con la ragazza un rapporto da zero. Questo rapporto si sviluppa in modo molto proficuo quasi immediatamente, e risulta agli occhi di un lettore già cresciuto abbastanza stereotipato e non molto credibile.

"Nel bush non ci stavamo che noi e i serpenti. Per sei mesi l'anno vedevo soltanto tuo nonno. Faceva così caldo che due minuti dopo essermi lavata avevo voglia di lavarmi di nuovo, ma non potevo perché l'acqua allora non si sprecava." [...] Mi guardai intorno, pensando stupita a quanta strada avevano fatto quegli immigrati senza un soldo venuti dalla Sicilia. 


Infine, come è inevitabile in ogni romanzo per ragazzi, un altro tema fondamentale è quello dei coetanei: la scuola dove essere più o meno inseriti e il futuro con tutte le preoccupazioni che esso comporta, e naturalmente l'innamoramento -e questo è del romanzo l’aspetto che appassiona di meno un autore un po’ cresciuto. A titolo di insegnamento c’è anche una vicenda piuttosto drammatica che coinvolge uno dei personaggi e che vuole trasmettere il messaggio di combattere per i propri sogni; legittimo in un romanzo di questo tipo, ma finisce per essere a mio parere un po’ troppo moralista, soprattutto per la fine che al personaggio viene riservata.

Nel complesso ho trovato questo romanzo non privo di aspetti interessanti: l'Australia degli anni '90 è ben descritta, e osservare le comunità di italiani dagli occhi di una scrittrice che ha proprio origini italiane e quindi conosce molto bene la materia della quale scrive è stata un’esperienza molto interessante. Mi sento quindi di consigliare la lettura di "Terza generazione" a lettori adulti che siano motivati a cercarne le sfumature dal punto di vista della migrazione e dell’integrazione. Qualora invece fosse un lettore molto giovane interessato a questo romanzo, che temo non sia di facilissima reperibilità nelle librerie fisiche ma online credo si trovi senza problemi, credo che questo romanzo potrebbe piacergli molto: un coetaneo si potrà immedesimare in Josephine e nei suoi amici e saprà sicuramente emozionarsi per le vicende che si trovano a vivere. 

lunedì 18 gennaio 2021

Shining

L’ambizioso progetto di lettura dell’opera omnia del Re dell’orrore continua, e con questo romanzo ho quasi terminato la produzione degli anni ‘70: stiamo parlando di Shining, terzo titolo in ordine di pubblicazione.


Titolo: Shining
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1977
Titolo originale: The Shining
Casa editrice: Bompiani
Traduttrice: Adriana Dell'Orto
Pagine: 429


LA STORIA

Jack Torrance è un aspirante scrittore poco più che trentenne, ma ha alle spalle una lista di fallimenti piuttosto lunga: primi tra tutti, il licenziamento dall’università dove lavorava per aver aggredito uno studente, e un problema di dipendenza dall’alcol che continua ad opprimerlo. Non può dunque rifiutare l’incarico di guardiano invernale all’Overlook Hotel, sulle montagne del Colorado, quando gli viene offerto: e così si trascina dietro la moglie Wendy e il figlioletto Danny, che però ha un dono speciale a cui l’albergo non saprà resistere… 

COSA NE PENSO

Nell’opera autobiografica “On Writing”, Stephen King afferma che scrivendo “Shining”, nel 1975, aveva scritto di se stesso, pur senza accorgersene: e il momento in cui se ne accorse fu quello in cui si rese conto di essere diventato dipendente dall’alcol. C'è dunque molto di Stephen King nel personaggio di Jack Torrance, mentre io, influenzata dall’immaginario creato da Jack Nicholson nello "Shining" diretto da Stanley Kubrick (che King ha sempre dichiarato di non apprezzare, e ora capisco perché) avevo nella mente una figura limitata ad un pazzo maniaco e pericoloso, un marito violento e di un padre degenere. Ecco, questo in parte si può dire di Jack, ma non è Jack ad essere la causa: è la sua debolezza, la sua dipendenza che lo rende facile preda dell’Overlook e delle forze che vi abitano all’interno, e la sua fragilità viene da lontano, da quando anche lui era un bambino come Danny, figlio di un padre alcolista e violento. 

Jack non credeva che il vecchio avesse mai portato al parco i suoi fratelli. Jack era stato il suo prediletto, ma ciò non toglie che anche lui si fosse beccato la sua dose di botte, quando il vecchio era ubriaco, il che accadeva tutt'altro che di rado. Ma Jack l'aveva amato finché ne era stato capace, un bel po' dopo che il resto della famiglia non poteva far altro che odiarlo e temerlo.

Danny è indubbiamente il buono di questa storia: un innocente bambino di non ancora sei anni, dotato di un potere che non sa controllare e gli permette di percepire i pensieri di coloro che lo circondano, e non solo. Questo espone Danny a pericoli inimmaginabili per qualunque coetaneo, soprattutto all’Overlook. Non tutti credono a Danny, nonostante le evidenze: i suoi stessi genitori non si arrendono all’evidenza delle sue capacità e cercano di trovare loro spiegazioni razionali. Il potere di Danny, il suo “shining” (nella mia copia con traduzione risalente ai tardi anni ‘70 in italiano viene definita “aura”) è estremamente stimolante ed immaginifico per il lettore -ed ha avuto seguito, a distanza di oltre trent’anni, nel romanzo “Doctor Sleep”. 

“Shining” è un romanzo tuttora godibilissimo e pieno di tensione; l’orrore c’è, ma solo in pochi capitoli è strettamente sovrannaturale. Molto più spesso sono i demoni dell'alcolismo di cui Jack è preda, la sua istintiva aggressività, la minaccia che egli costituisce per moglie e figlio che ci terrorizzano, fin troppo reali e contemporanei come sono. 

Non era solo su Danny che l'Overlook agiva in maniera nefasta. Agiva anche su di lui. Non era Danny, l'anello più debole della catena: era lui. Era lui quello vulnerabile, quello che avrebbe potuto essere piegato e distorto fino a quando qualcosa si sarebbe rotto.

Figli del suo tempo ci sono un paio di elementi legati all’appartenenza etnica di un personaggio, Dick Halloran -che è tra l’altro il mio preferito in tutto il romanzo. Halloran è il cuoco dell’Overlook, e Danny lo incontra il giorno del loro arrivo, quando Halloran sta lasciando l’albergo: i due condividono il potere dell’aura, nonostante quello di Danny sia di gran lunga superiore. Per via dell’età e dell’esperienza di Halloran l’uomo diventa però il punto di riferimento di Danny, con un epilogo che è stato in grado di farmi versare più di una lacrima di pura tenerezza. 

“Danny, a livello inconscio, fa ciò che i cosiddetti mistici e lettori del pensiero fanno in maniera del tutto cinica e cosciente. Proprio per questo lo ammiro. Se la vita non lo costringerà a ritirare le antenne, credo che diventerà un uomo di prim'ordine."


Alcune affermazioni legate proprio ad Halloran sono gli unici segni di invecchiamento che ho riscontrato all’interno di "Shining": la “stazione negra di Miami” parlando di trasmissioni radiofoniche, la “negritudine” del personaggio, terminologia che oggi non sarebbe considerata di certo appropriata. Ciò non toglie che la costruzione di Halloran sia tutt’altro che dispregiativa, anzi King lo rappresenta come una sorta di cavaliere senza macchia (ma non senza paura) -e lo stesso titolo al quale aveva pensato, “Shine”, fu modificato a causa della connotazione razzista che poteva assumere.

Era venuto a un accomodamento con la sua negritudine, un felice modus vivendi. Aveva passato la sessantina, e grazie a Dio se la cavava ancora decentemente. E adesso voleva mettere a repentaglio la fine di tutto questo, la fine sua, per tre bianchi che non conosceva nemmeno?

Ho amato "Shining", per la sua straordinaria capacità di tenere il lettore incollato alle pagine e di farlo sentire riga dopo riga sempre più immerso negli orrori dell'Overlook Hotel. Ci si sentirà inseguiti dagli animali scolpiti nelle siepi, circondati da individui mascherati, oppressi da una caldaia in ebollizione pronta ad esplodere: 6235555555555552366666666666e come nelle migliori opere del Re, non si potrà tirare il fiato finché non sarà finita. Non posso dunque fare altro che consigliarvi "Shining", che a mio parere potrebbe anche essere un'ottima scelta per iniziare a leggere Stephen King e innamorarvi delle sue storie! 

mercoledì 13 gennaio 2021

Ninna nanna a Teheran

"Ninna nanna a Teheran" è un fumetto dal formato piuttosto piccolo, quasi un tascabile; il retro di copertina promette di regalarci un mix “tra Persepolis e Oliver Twist”, e recita infatti “una storia di ragazzi di strada nel cuore dell’Iran”. Ho deciso di acquistarlo proprio dopo aver terminato "Persepolis" di Marjane Satrapi, del quale ho già scritto qui.


Titolo: Ninna nanna a Teheran
Autrice: Nassim Honaryar
Anno della prima edizione: 2019
Casa editrice: Rizzoli Lizard
Pagine: 158



In effetti è proprio una storia di bambini di strada quella che ci racconta l’autrice, un’autrice di origini iraniane che oggi scrive in italiano ma ambienta il suo racconto in patria. Lo fa seguendo l’artificio della storia nella storia poiché le vicissitudini dei ragazzini che seguiamo tra le pagine sono in realtà raccontate da parte di un anziano iraniano ad altri giovanissimi che ha incontrato per strada e i quali decide di narrare appunto le vite dei protagonisti, Ali, Pasha, Shila e Gholam.

Le vite di questi ragazzini sono tutt’altro che facili, dal momento che si trovano a chiedere l’elemosina, sfruttati da alcuni adulti che poi requisiscono loro tutto il denaro e che hanno intenzione di far prostituire a breve Shila, l’unica femmina del gruppo. L’unica alternativa rimane quindi quella della fuga, e ai loro piani per la libertà si aggiunge, nel corso delle loro scorribande accompagnate da piccoli furti, il ritrovamento di una pistola che cambierà il loro destino.


Le tavole all’interno di "Ninna nanna a Teheran" sono in bianco e nero e in scala di grigi; sono quasi fotografiche, con paesaggi e architetture molto dettagliati, e tipici del fumetto ci sono più che altro i volti piuttosto semplici ma molto espressivi dei personaggi. C’è anche un elemento che ha del soprannaturale: si tratta di uno stormo di corvi, che sembra accorrere in difesa dei ragazzini quando questi ne hanno bisogno; le tavole delle ultime pagine saranno proprio dedicate a questi animali.

"Ninna nanna a Teheran" nel complesso è un fumetto molto semplice, che si potrebbe consigliare anche a dei lettori coetanei dei protagonisti per avvicinarli a temi molto attuali come lo sfruttamento minorile e il dramma dei bambini di strada in paesi come l’Iran attraverso una lettura poco impegnativa. 

Per lettori adulti, abituati a romanzi e fumetti del calibro di Persepolis, "Ninna nanna Teheran" non è un capolavoro del suo genere, proprio per la sua elementarità e per la brevità della storia. Nonostante questo è una lettura che io ho apprezzato, che mi ha tenuto compagnia per una serata in cui non me la sentivo di dedicarmi a letture complesse, e comunque mi ha fatto riflettere sulla condizione di tanti bambini nel mondo ai quali spesso non vogliamo rivolgere un pensiero.

lunedì 11 gennaio 2021

A con Zeta

Hakan Günday è un autore turco contemporaneo, che avevo già incontrato con il più recente dei suoi romanzi: "Ancóra". Sebbene la prima parte mi fosse piaciuta moltissimo, non posso dire altrettanto della seconda; lo stile sorprendente di Günday però mi aveva incuriosita, così ho deciso di leggere il romanzo precedente.


Titolo: A con Zeta
Autore: Hakan Günday
Anno della prima edizione: 2011
Titolo originale: AZ
Casa editrice: Marcos y Marcos
Traduttore: Fulvio Bertuccelli
Pagine: 446


LA STORIA

"A con Zeta" racconta la storia di due persone che portano lo stesso nome: Derda. Una però è una bambina, l'altro un maschio; nascono entrambi in Turchia, in condizioni di grande povertà, al punto che la madre della piccola Derda decidere di vendere la figlia per guadagnare soldi dal matrimonio, mentre Derda da bambino è costretto a pulire le tombe del cimitero per racimolare qualche moneta per sopravvivere. 
In "A con Zeta" li vediamo crescere, emigrare a Londra, vivere vite radicalmente distanti e differenti, che però troveranno inaspettatamente il modo di congiungersi.


COSA NE PENSO

"A con Zeta" è una sorta di doppio romanzo di formazione: nella prima metà del testo vediamo crescere la bambina di nome Derda, la vediamo subire ogni sorta di indicibili violenze e trovare nonostante ciò la forza di riscattarsi, percorrendo strade a dir poco anticonvenzionali -prima tra tutte la pornografia. 
Derda al maschile invece se la cava come può finché non impara a leggere, e a questo punto la sua vita cambia per sempre: in maniera del tutto inaspettata il nome che impara a leggere su una tomba, quello di un intellettuale turco, diventerà la guida della sua esistenza -nel bene e nel male.
Ogni giorno Derda informava Oğuz Atay dei suoi progressi nella lettura, e ogni mattina leggeva dei brani estratti dai libri di racconti per bambini, ai piedi della tomba. La stagione delle margherite era trascorsa. Adesso era il tempo delle viole. Quando tornava a casa leggendo tutte le insegne che incontrava sulla strada, Derda si sentiva il padrone del mondo. Gli sembrava di volare su un tappeto magico intessuto di lettere.
Günday racconta due distruzioni prima ancora di due formazioni; racconta due percorsi scomodi, pieni di ostacoli, che si superano alla meno peggio. I punti di vista dei due omonimi sono convincenti, potenti: le loro storie non lasciano indifferenti e Günday è capace di costruire una narrazione dal ritmo incalzante, non adatta ai lettori più sensibili. Non sono infatti rare le scene violente e disturbanti, specialmente nella prima parte del romanzo, mentre quella dedicata al protagonista maschile di certo è piena di sofferenza, ma è anche più digeribile. 

Il potere della letteratura e l'importanza di riscattarsi sono il perno attorno al quale ruotano le vite dei due personaggi, e Günday è un autore capace, che tiene alto l'interesse del lettore in una storia poco convenzionale, lontana da quelle a cui siamo abituati. Personalmente ho preferito "A con Zeta" all'ultimo romanzo di Günday, anche se mi sento di consigliarlo solo a lettori dallo stomaco piuttosto robusto; Günday è di certo un autore da tenere d'occhio, e spero che la casa editrice Marcos y Marcos continuerà a portare in Italia la sua produzione letteraria! 

lunedì 4 gennaio 2021

Il sogno della macchina da cucire

Ci sono autori e autrici a cui saremo sempre legati, perché siamo cresciuti con loro. Per questo "Il sogno della macchina da cucire" è stato per me come un ritorno a casa: Bianca Pitzorno è l’autrice della mia infanzia, l’autrice che mi ha trasmesso l’amore per la lettura attraverso i suoi libri e mi ha reso la lettrice che sono oggi.



Titolo: Il sogno della macchina da cucire
Autrice: Bianca Pitzorno
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Bompiani
Pagine: 240


LA STORIA

Siamo nel sud Italia, alla fine dell’Ottocento; la nostra protagonista è un'umile sartina che vive con la nonna e la perde prematuramente. Resta dunque sola a praticare questo mestiere nelle case dei ricchi; proprio in queste case entra in contatto con le vite di persone di estrazione sociale così diversa dalla sua, ma anche loro vittime dei propri dolori e delle maldicenze degli altri.

COSA NE PENSO

"Il sogno della macchina da cucire" è il ritratto di un’Italia che non c’è più: un'Italia dove non c’erano grandi catene di abbigliamento, dove i vestiti venivano confezionati su misura da queste donne che si recavano a domicilio e realizzavano quanto necessario. È anche il ritratto di alcune donne che cercano di vivere la propria vita senza dipendere dagli uomini, e questo era estremamente difficile alla fine dell’Ottocento -ma alle protagoniste intraprendenti e coraggiose Bianca Pitzorno ci ha abituati sin dai tempi di "Ascolta il mio cuore", con le sue giovanissime eroine.

Anche mia nonna si vestiva da gatto per accompagnarmi in piazza a gettare i coriandoli e suonare la trombetta con la lingua retrattile. Rideva anche lei come una bambina. Questa era la nostra grande occasione mondana, il nostro unico lusso.

Mentre leggevo questo romanzo ho pensato più volte che mia nonna lo avrebbe adorato perché ritrae il passato del Meridione, la fascinazione per la regina Margherita, e perché ci racconta l’antico mestiere della sarta, ci racconta i ricami, le stoffe, e li descrive in modo talmente vivido da farceli vedere con gli occhi e toccare con mano. Impossibile non pensare a mia nonna, che giovanissima lavorava da magliaia, alle sue coperte realizzate a mano, ai suoi maglioni, ai centrini: oggetti di un passato che non c’è più e mi manca terribilmente ogni volta che sotto quella coperta a righe colorate trascorro gli inverni.

Sapevamo che al suo arrivo a Roma, giovane sposa, era stata giudicata rustica e inelegante, che le parenti Savoia la chiamavano con disprezzo “la pastora”. La gente umile però l’ammirava, anche da noi una grande folla si schierò lungo i binari della stazione per accoglierla con manifestazioni di omaggio e non mi vergogno di dire che tra la folla c’ero anch’io.


In più "Il sogno della macchina da cucire" è una storia d’amore di quelle che fanno sognare, di quelle romantiche e ingenue, di quelle che devono sfidare le convenzioni e il destino. Bianca Pitzorno però non è una donna dai facili lieto fine, né dai romanzi sdolcinati o scontati, e proprio per questo la storia d’amore di questo romanzo è romantica sì, ma anche dolceamara. Anche l'amore tra Guido e la protagonista è un modo per raccontarci un’epoca in cui queste donne indipendenti, lavoratrici, che addirittura come la protagonista (ma anche come la signorina Ester e come la giovane americana) sapevano leggere, erano vittime di sospetti e antipatie di uomini che non potevano accettare una tale libertà femminile.

 “Tu leggi troppi romanzi, ti sei montata la testa, chi ti credi di essere? Non ricordi cosa ti ha detto il sergente? Cerca di tenere a bada l’immaginazione o finirai male.” 

Anche qui torna dunque l’importanza della letteratura, anche qui torna il potere di un libro, così come in tanti romanzi per l’infanzia di Bianca Pitzorno che hanno proprio grazie a questi temi il potere di rendere lettori i più giovani che ci si avvicinano. Questo è un romanzo per adulti, non per ragazzi, ma lo stile della scrittrice è perfettamente riconoscibile e anche le sue tematiche ricorrenti -come appunto le donne, la letteratura, ma anche la lotta agli stereotipi maschili e femminili- ritornano. Si tratta di una piacevole riscoperta per chi ha già conosciuto l’autrice durante l'infanzia, ma credo che possa costituire una lettura stimolante ed interessante anche per chi dovesse incontrarla per la prima volta.

“Non voglio essere una mascherina. Voglio essere un pirata,” sussurrò Clara contro il petto di Guido. “Non ti piace come ti ho truccato la faccia? Posso fartela meglio, se hai un po’ di pazienza.” “Non voglio la faccia da pirata. Voglio essere un pirata. Come Sandokan. Un vero pirata. Per sempre.” “Quando sarai grande potrai essere un pirata, te lo prometto,” rispose Guido sottovoce.


Nel complesso quindi "Il sogno della macchina da cucire" è un romanzo che mi è piaciuto molto: ci ho trovato un’atmosfera talvolta fiabesca, ma anche molti elementi storici crudi e concreti -come l’epidemia di spagnola o la tubercolosi che affliggeva e troppo spesso uccideva le persone più povere. Se devo trovare un difetto a questo romanzo, ed in effetti l’ho trovato, è la sua brevità: con questo voglio dire che sì, è un romanzo scorrevole che sia legge in poco tempo, ma non avrei trovato fuori luogo qualche pagina in più, per raccontare più nel dettaglio alcune delle storie dei personaggi presentati. Penso per esempio alla giovane americana o ad alcune delle famiglie abbienti che incrociano la strada della protagonista: le loro vicende incuriosiscono molto, ma talvolta sembrano trattate in maniera un po’ sbrigativa. Per quanto riguarda la conclusione invece, sulla quale ho letto pareri contrastanti, ho trovato che fosse piuttosto azzeccata e che senza soffermarsi su dettagli troppo minuziosi desse un quadro coerente di quanto avvenuto. 

"Il sogno della macchina da cucire" è quindi un romanzo che consiglio a tutti coloro che amano le storie del passato e a tutti coloro che vogliono leggere una storia di donne coraggiose come sono state moltissime delle nostre nonne, che meritano di essere onorate e ricordate ogni giorno!