mercoledì 28 aprile 2021

Il deserto dei Tartari

Ci sono libri che semplicemente arrivano al momento giusto, quando sei pronto per comprenderli e per apprezzarli come meritano. Mi è capitato proprio questo con uno dei più famosi romanzi di Dino Buzzati.


Titolo: Il deserto dei Tartari
Autore: Dino Buzzati
Anno della prima edizione: 1940
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 202



LA STORIA

Giovanni Drogo ha appena vent’anni quando, soldato, prende servizio alla Fortezza Bastiani, che si trova in un remoto luogo montuoso ed affaccia su una pianura, a nord, dalla quale si attende da decenni l'arrivo dei Tartari. In realtà i Tartari tanto attesi tardano ad arrivare, e gli anni passano per Giovanni che dapprima è convinto che il proprio servizio alla fortezza sia soltanto temporaneo, di molto breve durata, ma poco a poco si rende conto di come finirà per trascorrervi l’intera esistenza, in attesa di gesta eroiche che non arriverà mai a compiere.

COSA NE PENSO

Leggere a trent’anni compiuti "Il deserto dei Tartari" trasmette un messaggio che non sarei stata in grado di comprendere se lo avessi affrontato in adolescenza, come spesso viene suggerito dagli insegnanti di scuola. Giovanni diventa infatti, una volta giovani adulti, l’occasione per riflettere sulle occasioni della propria vita, sulle possibilità e sulle grandi gioie che attendiamo e pensiamo di trovare sui nostri passi, restando molto spesso delusi. 

Buzzati ha il dono di descrivere con le parole in modo da rendere ogni ambiente ed ogni personaggio vivo e presente. Il lettore vede la Fortezza, ne percorre i bastioni e le ridotte, sente lo scorrere dell'acqua nelle grondaie, il silenzio della neve che la ricopre. E si sente Giovanni Drogo, a cui il tempo scorre addosso, e che si accorge di invecchiare quando non sale più le scale due gradini alla volta.

Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un'occhiata indietro. «Ferma, ferma!» si vorrebbe gridare, ma si capisce ch'è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.

Giovanni Drogo è il simbolo di chi la propria vita l'ha trascorsa ad aspettare. Non uso di proposito il verbo "sprecare", perché Giovanni non spreca la propria vita in maniera consapevole: lascia soltanto che i giorni passino, scrutando l’orizzonte in attesa di un trasferimento prima, di un assalto nemico poi. 

Ma una decisione bisognava pur prenderla, e ciò gli dispiaceva. Egli avrebbe preferito continuare l'attesa, rimanere assolutamente immobile, quasi a provocare il destino affinché si scatenasse davvero.

"Il deserto dei Tartari" è un romanzo sul tempo che passa e su come questo inevitabilmente ci cambi, vedendoci talvolta (come nel caso di Giovanni) immobili all’interno di una fortezza in cui le gerarchie, il peso della società ci portano a commettere atti insensati come lo sparare ad una sentinella rimasta in avvertitamente chiusa fuori dalle mura, oppure morire di freddo com’è il tenente Angustina. In entrambi casi questi due uomini ci rappresentano assai bene: vittime inconsapevoli dei potenti e delle decisioni prese al di sopra della nostra testa, spesso il nome di leggi che non hanno motivo. 

Mi sono sentita Giovanni molto spesso durante questa lettura, e questo mi ha toccata, mi ha turbata perché mi sono resa conto di come anche io abbia dato per tanto tempo per scontato che qualcosa di determinante sarebbe successo, ed invece sono ancora qui alla mia personale fortezza Bastiani, che aspetto i Tartari in arrivo da una pianura del Nord.

lunedì 26 aprile 2021

Assassinio sull'Orient Express

Ci sono autori e autrici arcinoti di cui io ho una scarsissima conoscenza, nonostante siano considerati a dir poco popolari: una di queste è Agatha Christie, una delle scrittrici più prolifiche e famose del ventesimo secolo.


Titolo: Assassinio sull'Orient Express
Autrice: Agatha Christie
Anno della prima edizione: 1934
Titolo originale: Murder on the Orient Express
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Lidia Zazo
Pagine: 216


Ottavo titolo dell'autrice con protagonista l’investigatore belga Hercule Poirot, "Assassinio sull’Orient Express" è un romanzo che si svolge quasi completamente a bordo di un treno, che da Istanbul si dirige verso Calais.

La regina del giallo Agatha Christie pubblicò questo romanzo nel 1934, in un mondo che non era ancora stato sconvolto dalla seconda guerra mondiale e in cui a differenza di oggi le persone si potevano spostare in paesi come la Siria o l’Iraq per motivi di affari o di turismo senza doversi confrontare con terrorismo e guerre civili. 

I protagonisti di questo romanzo provengono da diverse parti del mondo e si incontrano in Turchia: Ci sono cittadini americani, francesi, inglesi, ma anche svedesi e tedeschi, e tutti hanno in comune il fatto di vedere il proprio viaggio sconvolto da una tormenta di neve che lascia bloccati in Jugoslavia e dall’omicidio che avviene in una delle carrozze del treno.

Se scegliessi di rivelarvi qualsiasi altro particolare rischierei di rovinarvi la lettura, perché in giallo classico come questo il bello è proprio seguire ogni singolo indizio e la brillantissima indagine di Poirot, che procede per deduzione ed interrogatori fino alla soluzione del caso -che ne sono sicura finirà per sorprendervi.

Non sono affatto un’esperta di gialli e questo è stato il mio terzo incontro con un romanzo di Agatha Christie, nonostante l’enorme quantità di opere pubblicate dalla scrittrice inglese. Leggendo "Assassinio sull’Orient Express" in una domenica pomeriggio mi sono ricordata dell’incredibile piacere di un’opera letteraria che ti trascina con sé appassionandoti completamente, e grazie ad uno stile semplice e talvolta ironico, sempre arguto, ti lascia alle prese con le tue supposizioni che si riveleranno una dopo l’altra sempre sbagliate. 

Questo breve, scorrevole romanzo mi ha ricordato il piacere di leggere libri che non siano per forza letture emotivamente impegnative, ma storie ben scritte, che fanno godere al lettore del tempo trascorso immerso tra le pagine potendosi dimenticare tutto il resto. Credo che farò tesoro di questa sensazione positiva che Agatha Christie mi ha fatto provare e che nel corso della prossima gita al mercatino dell’usato andrò sicuramente a caccia di qualcun altro dei suoi libri!

mercoledì 21 aprile 2021

Bastava chiedere

"Bastava chiedere" mi corteggiava da un po’ dai banchi esposizione della libreria, e quando finalmente è uscito in edicola per di più ad un prezzo ridotto non ho assolutamente potuto resistere.



Titolo: Bastava chiedere
Autrice: Emma Clit
Anno della prima edizione: 2020
Casa editrice: Laterza
Traduttrice: Giovanna Laterza
Pagine: 186


Emma Clit è una fumettista francese che ha raggiunto la popolarità attraverso il proprio blog. All’interno di "Bastava chiedere" racconta attraverso l'unione di immagini colorate e testi chiari e diretti come sia diventata consapevolmente femminista una volta rientrata al lavoro dopo il congedo maternità. 

Non pensate però che questa sia un’opera rivolta soltanto alle mamme: "Bastava chiedere" infatti tocca nei suoi dieci capitoli argomenti che riguardano tutti, donne e uomini che abbiano a che fare con l’altro sesso e ancor meglio abbiano deciso di convivere. Alla maternità o meglio alla genitorialità è dedicato in esclusiva un solo capitolo; gli altri invece riguardano aspetti della vita come il lavoro, la cura della casa, l'educazione, la sessualità e l’approccio con l’altro sesso attraverso lo sguardo rivolto al corpo della donna. 

Per chi si interessa di tematiche femministe in maniera approfondita questo fumetto potrà sembrare un po’ semplice, talvolta scontato. In realtà, nonostante non sia il primo testo sull’argomento al quale mi avvicino e nonostante abbia un linguaggio senza dubbio diretto e comprensibile a tutti, senza tecnicismi o concetti molto complessi, credo che "Bastava chiedere" saprà offrire spunti di riflessione ad ognuna di noi. 

Nel mio caso il concetto che mi ha colpita di più è stato quello del "carico mentale", ovvero come la gestione della casa e della quotidianità ricada sulla donna anche a livello organizzativo, come se fosse una sua responsabilità esclusiva. Non posso dire infatti che il mio compagno non condivida a livello materiale parte delle attività domestiche, in particolare si occupa quasi esclusivamente lui della cucina; tuttavia l’aspetto organizzativo -gli appuntamenti, le scadenze, i documenti da preparare, l’archiviazione di questi ultimi e così via- sembrano non competergli in alcun modo e viene dato per certo che sarò io a tenere sotto controllo la situazione. Così, da donna economicamente indipendente senza figli che si ritiene piuttosto emancipata, mi sono riconosciuta in una dinamica che io stessa ho sempre dato finora per scontata.

Sono sicura che ognuna di voi saprà cogliere in questi dieci capitoli uno spunto per ripensare a delle norme patriarcali alle quali ci siamo con il tempo abituate, ma che naturalmente hanno bisogno di essere messe in discussione a partire dal nostro piccolo. "Bastava chiedere" ha il grande pregio di parlare in modo chiaro e comprensibile a donne di tutte le età: magari non proprio bambine per via delle tematiche legate anche alla sfera sessuale, ma sicuramente a partire dall’adolescenza è una lettura che mi sento di consigliare. Ho trovato infatti disarmante la statistica secondo la quale un terzo delle studentesse francesi di prima liceo intervistate non avessero idea di dove si trovasse il clitoride! C’è bisogno di parlare del corpo della donna, c’è bisogno di parlare del ruolo della donna, e di farlo in termini di parità, in termini di lotta di classe, in termini di consapevolezza di sé contro lo sguardo maschile autoritario e inamovibile della società che ci circonda. 

"Bastava chiedere" è in questo senso un ottimo punto di partenza, perché affronta tematiche private ma anche pubbliche, mettendo in luce le contraddizioni stesse interne ai diversi movimenti femministi senza dunque idealizzare alcuno schieramento. Porta invece al centro del discorso ciò che è veramente importante: la rivendicazione di un ruolo femminile radicalmente diverso. Non posso fare altro quindi che consigliare questo fumetto a tutte le lettrici, e naturalmente anche a tutti i loro compagni e familiari maschi, il cui impegno è più che mai fondamentale nella lotta che abbiamo deciso di combattere.

lunedì 19 aprile 2021

Il labirinto degli spiriti

Con "Il labirinto degli spiriti" finisce un ciclo; finisce una storia che ho amato per anni e che mi ha accompagnata dall’adolescenza fino a stasera. Non è facile lasciare andare le storie che abbiamo amato e in quest’anno impossibile in cui lo stesso scrittore ci ha lasciati è ancora più doloroso.


Titolo: Il labirinto degli spiriti
Autore: Carlos Ruiz Zafon
Anno della prima edizione: 2016
Titolo originale: El laberint dels esperits 
Casa editrice: Mondadori
Traduttore: Bruno Arpaia
Pagine: 832


LA STORIA 

"Il labirinto degli spiriti" inizia durante il bombardamento su Barcellona nel 1943: le bombe distruggono la città, colpiscono Fermìn, già in fuga da chi lo perseguita, e la piccola Alicia che ne porterà per sempre il segno sul suo corpo.
Il resto della narrazione avviene quasi del tutto tra il 1959 e il 1960, quando in Spagna governa Franco, la giustizia è un’utopia e i giusti finiscono in carcere, torturati, uccisi, privati delle loro famiglie. Seguiamo le vite dei Sempere, che avevamo già imparato ad amare, di Fermìn, che rimane il mio personaggio preferito, e poi di Alicia divenuta adulta, indomita ma imprigionata in un ruolo impostole da un personaggio molto scomodo, il misterioso Leandro.


COSA NE PENSO

"Il labirinto degli spiriti" potrebbe sembrare un thriller, per una buona metà, ma chi ha letto i volumi precedenti della tetralogia dovrebbe aver già capito che Zafon non ha mai scritto romanzi convenzionali, appartenenti ad un unico genere, ma storie a tutto tondo, piene di mistero, che sta noi dotare di un senso e di un significato.
Barcellona, madre di labirinti, alberga nella parte più oscura del proprio cuore un viluppo di vicoli annodati in una barriera corallina di rovine presenti e future in cui viaggiatori intrepidi e spiriti smarriti di ogni condizione restano intrappolati per sempre in un distretto che, in mancanza di una più corretta avvertenza, qualche benedetto cartografo ha voluto battezzare come il Raval.
"Il labirinto degli spiriti" chiude un cerchio e lo fa svelando molto di quello che era rimasto il risolto o incompreso nei precedenti volumi: scopriamo infatti che David Martin ha avuto un ruolo ben più importante nella storia della famiglia Sempere, e che quell’amore di Isabella per lui aveva avuto un frutto che ben conosciamo. Riguardo David molto viene messo in dubbio, e questo mi ha fatto rivalutare il secondo volume di questa saga che avevo trovato troppo d’azione, troppo ricco di elementi surreali: alla luce di questa conclusione credo di averlo male interpretato, e questo fa capire l’importanza e la potenza del quarto volume nel complesso della storia. 
David Martín è un uomo malato che via via ha perso la ragione, sente voci e crede di essere in contatto con un diabolico personaggio di sua invenzione, un certo Corelli. In prigione, i suoi deliri, e il fatto che durante l’ultimo anno della sua vita Valls decida di rinchiuderlo da solo in una cella in cima a una torre del castello, gli valgono fra gli internati il soprannome di Prigioniero del Cielo.

Scopriamo inoltre che Julian -quel Julian che abbiamo seguito nel suo amore per Nuria e che abbiamo creduto morto in un incendio ne "L'ombra del vento" è tutt’altro che morto ed anzi, è pronto a tornare in campo al fianco del suo giovane omonimo e a chiudere il cerchio insieme a lui.
Ritorna anche Maurizio Valls, che ne "Il prigioniero del cielo" dava il tormento a David Martin ed era il crudele carceriere di Montjuic, mentre la mano di carte che riceve questa volta non sono proprio a suo favore -non che non se le fosse meritate! 

Non sono però tutti i fili di storie già note ad intrecciarsi ne "Il labirinto degli spiriti", perché c’è molto di nuovo in questo romanzo, anche se comunque collegato al passato. 
Ci sono infatti indagini, intrighi, crimini di regime; c’è la corruzione di una Spagna pronta a rubare i figli dei suoi oppositori, ma anche il coraggio di coloro che non si arrendono e cercano la verità, che siano essi giornalisti, donne responsabili dell’archivio dell’anagrafe o i nostri beniamini.
Nel 1981, poco dopo il fallito colpo di Stato che stava per riportare la Spagna all’età della pietra o a qualcosa di peggio, Sergio Vilajuana pubblicò una serie di articoli su La Vanguardia, nei quali rivelava il caso di centinaia di bambini rubati ai genitori, in gran parte prigionieri politici scomparsi durante i primi anni del dopoguerra nelle prigioni di Barcellona, che erano stati assassinati per cancellare le tracce.
Ho amato "Il labirinto degli spiriti" quanto "L’ombra del vento": ho amato l’inizio come ho amato la fine. Inutile dire quanto Zafon sia stato uno scrittore capace, dalla penna che ti avvolge dalla prima all’ultima riga, che ti trasporta in una dimensione suggestiva e magica come la sua Barcellona. Ho amato questo romanzo perché sa mettere il punto a tutte le storie le cui porte erano state lasciate aperte: tutto finisce dove era iniziato, al Cimitero dei Libri Dimenticati, che è stato così importante per tutti i personaggi della storia e dove trovare un libro non è mai stato un caso. In fondo questi quattro libri li sentiamo nostri, come se fossero stati proprio i nostri ritrovamenti in quel cimitero di Barcellona; nonostante la loro popolarità sono convinta che parlino ad ognuno di noi in un modo differente, perché come scrive l’autore "ogni libro è una conversazione" e la parte del lettore è proprio ciò che di suo ritrova nel romanzo -e in questo volume forse ho ritrovato me più che in tutti gli altri.
Una storia è un labirinto infinito di parole, immagini ed energie riunite per svelarci la verità invisibile su noi stessi. Una storia è, in definitiva, una conversazione fra chi la racconta e chi l’ascolta: un narratore può raccontare solo fin dove lo sorregge il mestiere, mentre un lettore può leggere solo fino a ciò che porta scritto nell’anima.
È difficile raccontare "Il labirinto degli spiriti" senza rovinare qualcosa a coloro che non hanno ancora letto i capitoli precedenti della tetralogia. Un consiglio che mi sento di darvi è senz’altro quello di non far trascorrere troppo tempo tra la lettura dei volumi precedenti e quest’ultimo, poiché mi sono accorta che avrei colto meglio alcuni dettagli se non avessi terminato "Il prigioniero del cielo" da così tanto tempo. 


Ne "Il labirinto degli spiriti" c’è moltissimo: moltissimi personaggi, decenni di storia, pagine avvincenti dove ci chiediamo chi sopravvivrà e chi invece non potrà farcela contro certi mostri che lo perseguitano e che sono del tutto realistici, come ogni regime con i suoi scagnozzi. Mi sono chiesta, mentre terminavo "Il labirinto degli spiriti", se Zafon sapesse di essere malato quando lo ha scritto; se sapesse e sentisse la necessità di mettere il punto alla sua storia, di portarla a conclusione per i suoi lettori. 
Vorrei che oggi potesse sapere quanto traspare da ogni singola pagina che i suoi personaggi hanno trovato la pace, che ogni tassello del puzzle è andato al suo posto, e che non sono rimaste coppie spaiate senza un equilibrio. Vorrei che sapesse che la sua storia mi arricchito enormemente, mi ha fatto sognare come pochi altri romanzi negli ultimi anni, e che mi ha profondamente commossa tanto da avermi fatto aspettare per mesi prima di trovare il coraggio di leggere questo libro, sapendo che sarebbe stato l’ultimo.
Nel mio lungo periplo attraverso i tunnel del labirinto scelsi un libro intitolato La tunica cremisi, un romanzo appartenente a un ciclo chiamato La città dei maledetti, il cui autore era un certo David Martín, del quale, fino ad allora, non avevo mai sentito parlare. O forse dovrei dire che fu il libro a scegliere me, perché quando alla fine posai gli occhi sulla copertina ebbi la strana sensazione che fosse lì ad aspettarmi da un bel po’, come se sapesse che quell’alba mi sarei imbattuto in lui.
Credo che la maggior parte di voi abbia già letto "L’ombra del vento"; non so se però vi siate spinti oltre e se non l’avete fatto l’unica cosa che posso dirvi è che siete soltanto all’inizio del labirinto, e ci sono moltissime altre storie che vi aspettano nel Cimitero dei Libri Dimenticati. La cosa migliore che possiate fare, il miglior regalo che possiate offrire a voi stessi, è quella di andare a scoprirle.

lunedì 12 aprile 2021

L'amico estraneo

 Ai libri ambientati a Berlino non so resistere, e quando poi li trovo al mercatino dell'usato a meno di due euro mi pare evidente che non valga nemmeno la pena di provare a non cedere alla tentazione...


Titolo: L'amico estraneo
Autore: Christopher Hein
Anno della prima edizione: 1982
Titolo originale: Drachenblut
Casa editrice: E/O
Traduttore: Fabrizio Cambi
Pagine: 176


LA STORIA

Claudia ha 39 anni e vive a Berlino Est: sono gli anni '80 del Novecento e la politica ha un peso molto importante nelle vite dei cittadini tedeschi. Claudia però non le dà importanza; lei è un medico, è divorziata, vive un’esistenza ripetitiva e alienata in cui nulla sembra davvero valere qualcosa per lei, nemmeno la sua relazione con un uomo di nome Henry o la morte di lui, evento che dà inizio al racconto.

COSA NE PENSO

"L’amico estraneo" è un titolo che già di per sé costituisce un ossimoro (anche se il titolo originale significa "sangue di drago" e si rifà al testo epico dei Nibelunghi) è una storia di quotidianità ambientata nella Germania dell’Est e costruita sotto forma di racconto. 

Parte dalla morte dell’uomo che la protagonista ha frequentato per diverso tempo e che sembra lasciarla indifferente, come tutto il resto della sua vita. Claudia ripete continuamente di stare bene, che tutto nella sua vita è in ordine, che la sua pelle è in grado di sopportare ogni dolore e anzi nulla sembra farla veramente soffrire. Questa ripetizione in realtà produce nel lettore la convinzione che Claudia stia tutto tutt’altro che bene, e fa cogliere un profondo malessere, una profonda alienazione nelle sue parole. 

Dopo che se ne fu andato, chiamai i miei genitori. Quando rispose mio padre non seppi che cosa dirgli. Gli telefonavo soltanto perché mi aveva turbata l’attaccamento di Michael a suo padre, ma certo non potevo dirgli che lo chiamavo solo perché altri amano i loro genitori. 

Il testo è narrato in prima persona e racconta una società ingabbiata, a partire dal contesto in cui Claudia vive: un gigantesco edificio fatto di monolocali, dove abitano di fatto soltanto persone sole quanto lei, che muoiono nel disinteresse generale. 

Claudia riempie il libro dei suoi ricordi d’infanzia, di un’amica -l’unica alla quale sembra stata veramente legata e che ha perso a causa del peso della politica nelle vite delle persone nella Repubblica Democratica Tedesca della seconda metà del Novecento. 

Un anno e mezzo prima di quell’estate in cui dovevamo prendere la decisione egli mi pregò con insistenza di mettere da parte tutto quello che aveva a che fare con la chiesa o con la religione. Mi pregò anche di riconsiderare l’amicizia con Katharina perché si preoccupava del mio futuro. Non lo capivo, ma compresi che era seriamente in apprensione e intendeva aiutarmi. Mi rifiutai tuttavia di vedere meno spesso la mia amica o addirittura di tradirla.

Racconta con distacco tutto il resto: Henry, il suo amante sposato che sembra l’unico capace di agire d’istinto, i suoi genitori, sua sorella che ha una storia con il suo ex marito, le due gravidanze che nel passato ha interrotto; e nulla sembra toccarla davvero. L’unica traccia di umanità nei suoi gesti sono le fotografie, che scatta senza mai rappresentarvi persone, ma solo paesaggi o edifici diroccati; queste foto sono l’unico segno di una necessità in Claudia che vada al di là delle fisiologiche esigenze umane.

Il romanzo di Hein è scorrevole e cattura il lettore, nonostante io stessa non sappia dirne con sicurezza il perché: forse perché indaga un’esistenza, forse perché Claudia è credibile in ogni pagina e vogliamo sapere se qualcosa finalmente cambierà la sua vita, anche se non lo riteniamo possibile. 

Oggi non cerco più regali personali. Uno qualsiasi va bene lo stesso. Per di più non so che cosa sia un regalo personale. Credo che se facessi veramente a qualcuno un regalo personale, quello non potrebbe fare a meno di spaventarsi. Non so come potrebbe essere per me un regalo personale, ma sono convinta che se fosse veramente personale, comincerei a piangere. Saprei almeno che ti po di persona sono. A tutt’oggi non lo so ancora. Non so neppure se mi interessa venirlo a sapere. 

Credo che “L’amico estraneo" ritragga molto bene un periodo storico tedesco trascurato in letteratura rispetto all’epoca del regime nazista; l’ho trovata una lettura interessante, grazie ad una protagonista per cui è quasi impossibile provare empatia tanto è fredda e distaccata, ma la cui voce narrante è tuttavia quasi ipnotica per chi legge le sue parole. Se siete appassionati di letteratura tedesca, non posso fare altro che consigliarvi questo brevissimo romanzo!

mercoledì 7 aprile 2021

La malora

Di autori italiani del Novecento so di non leggerne abbastanza: approfondirli si tratta di un ennesimo buon proposito che spero di poter concretizzare, e questo è stato davvero un ottimo inizio.


Titolo: La malora
Autore: Beppe Fenoglio
Anno della prima edizione: 1954
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 90




LA STORIA 

Agostino Braida è un adolescente piemontese di inizio Novecento; la sua è una famiglia umile, di contadini, piena di debiti. Per ripagarli, i figli minori devono lasciare la casa: Emilio per farsi prete, in un seminario dove soffrirà la fame più che in campagna, Agostino per andare a servizio. 

COSA NE PENSO

Fenoglio pubblica "La malora" nel 1954 e vi racconta una storia di povertà, di vita di campagna, una vita di fatica e di miseria, che l'autore non idealizza mai. Agostino narra in prima persona, dagli occhi di un ragazzo giovane, ingenuo, rassegnato: sembra subire il proprio destino, non opporsi alle sventure che lo colpiscono (la morte del padre, che apre il romanzo e viene ripresa dalla metà in poi, un amore interrotto, la povertà estrema). 

C'è il Piemonte in questo lungo racconto, o romanzo breve che dir si voglia: ci sono le langhe, il paesaggio caratteristico delle campagne piemontesi accompagnate dal loro dialetto che impregna il racconto di Agostino, che ne rende al lettore di oggi complessa la lingua -considerata fin troppo semplice ai tempi della prima pubblicazione. L'ambientazione più che rimanere sullo sfondo de "La malora" ne è una parte integrante, un personaggio a sé, che con le sue piogge, i suoi campi da coltivare si racconta. 

I personaggi de "La malora" sono vittime: dei raccolti, dei lavori pesanti, dei debiti. Chi ha più denaro, come la famiglia Rabino dove Agostino è a servizio, soffre comunque per la fatica e i sacrifici che si impone per progetti di espansione che non si sa se si realizzeranno mai. Agostino invece non ha la forza neanche per sognare, per fare progetti -solo in amore ci prova, ma gli va male; quando gli si propone di mollare tutto, cambiare vita, si rende conto che non lo farà mai. 

Io lo lasciavo dire, e guardavo l'acqua perché Mario non mi leggesse negli occhi che non avevo il coraggio di risicare e che neanche lui me l'avrebbe mai messo. Ma era fino, e mi disse subito: "Non ti senti il coraggio? Sei anche tu di quelli che crepano sulle langhe solo perché ci sono nati?"

"La malora" è una lettura breve ed intensa, di quelle che scivolano via pagina dopo pagina mentre ti affezioni ad Agostino e vorresti risparmiargli la fatica, risparmiargli la fame, mandarlo in licenza qualche giorno prima per fargli rivedere il padre ancora in vita. È una lettura dolorosa, che mi ha emozionata e mi ha fatto scoprire Fenoglio, che ora mi piacerebbe davvero molto approfondire. 

lunedì 5 aprile 2021

Dolores Claiborne

Continua l’impresa di leggere integralmente l’opera di Stephen King, e continua con un romanzo in qualche modo legato ad un altro romanzo che ha trovato spazio su queste pagine ovvero "Il gioco di Gerald".


Titolo: Dolores Claiborne
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1992
Casa editrice: Pickwick
Traduttore: Tullio Dobner
Pagine: 297



LA STORIA

Dolores è una donna di sessant’anni, che per tutta la vita ha lavorato come domestica a casa della ormai anziana Vera Donovan. La donna, al momento in cui Dolores rilascia la propria testimonianza in una stazione di polizia, è appena deceduta nel corso di un incidente domestico che ha destato diversi sospetti proprio nei confronti di Dolores. In realtà i veri sospetti nei confronti di Dolores non sono nati con la morte di Vera, bensì moltissimi anni prima, all’epoca in cui il marito di Dolores (un uomo violento ed alcolizzato) morì in circostanze sospette. Proprio la morte di Vera si rivela l’occasione per Dolores di raccontare finalmente la verità su questo increscioso episodio del suo passato...

COSA NE PENSO

Dolores Claiborne è un romanzo assolutamente atipico nella produzione di King: per tutto il libro il punto di vista è soltanto uno, quello di Dolores, che racconta in prima persona e rievoca le proprie memorie in un linguaggio informale molto spesso sgrammaticato, che riproduce proprio il parlato della sua testimonianza raccolta dalla stenografa presente.

In quei giorni credevo ancora che l'amore di un uomo per una donna e di una donna per un uomo erano più forti dell'amore per la bottiglia e la baldoria con gli amici, che prima o poi quell'amore doveva salire in cima come la panna affiora sul latte. Ho aperto gli occhi nei dieci anni dopo. Proprio vero che certe volte il mondo è una scuola dura, no?

Come già ne "Il gioco di Gerald" che lo precede di poco (ed è ad esso legato in un modo che andrò a spiegare tra poco) non ci sono in "Dolores Claiborne" degli elementi dell’orrore o soprannaturali: tutto ciò che viene raccontato è assolutamente umano, ma non per questo è meno doloroso.

In comune con "Il gioco di Gerald" infatti non c’è soltanto l’eclissi del 1962, episodio decisivo in entrambe le trame, ma anche il tema dell’abuso di minore all’interno delle famiglie. Proprio questo elemento terribile che aveva condizionato in modo pesante la vita della protagonista de "Il gioco di Gerald" è in realtà l’elemento che spinge Dolores a reagire, quello che le ricorda la sua forza interiore e cambia così la sua vita, di certo in modo traumatico, ma allo stesso tempo dandole la possibilità di avere un futuro.

«Certe volte bisogna diventare un po' carogne per sopravvivere», mi ha detto. «Certe volte fare la carogna è tutto quello che resta a una donna.»

Il futuro Dolores lo condividerà con Vera Donovan, una donna dal carattere molto difficile, abituata ad essere assecondata in tutto e per tutto da coloro che lavorano per lei e che lei spesso non si cura di trattare nella dovuta maniera. In realtà sotto la superficie di Vera Donovan c’è un terribile segreto, che il lettore scoprirà soltanto alla fine del romanzo e che per me è stata un’enorme sorpresa -un colpo di scena davvero riuscito, ed una conclusione tra le migliori che abbia trovato in un romanzo di Stephen King.

Come ne "Il gioco di Gerald", l'estate del 1962 e l'eclissi che si verificò sono presenti in "Dolores Claiborne". Proprio nel corso dell'eclissi Dolores entra in qualche modo in contatto proprio con Jesse, vede la bambina nella sua mente ed è assolutamente sicura che lei esista, che lei sia reale da qualche parte. Questo contatto psichico inspiegabile tornerà nel secondo momento di maggiore tensione nella vita di Jesse, ovvero quando la donna si trova prigioniera delle manette nella casa sul lago. King non ci dà per questo fenomeno alcuna spiegazione; non c’è alcun dialogo tra le due protagoniste, bensì l'autore si limita a presentarci questa connessione, legando in qualche modo i due romanzi che ha scritto e necessario leggere "Dolores Claiborne" dopo "Il gioco di Gerald" -altrimenti sarà impossibile per il lettore cogliere questi riferimenti.

Tutt'a un tratto ho questo presentimento. E per un momento mi viene un pensiero strano: «Quella bambina è nei guai... quella bambina che ho visto il giorno dell'eclisse, quella che ha visto me. Adesso è adulta, ha quasi l'età di Selena, ma è in un guaio terribile».

Rispetto a "Il gioco di Gerald" ho trovato "Dolores Claiborne" molto più riuscito: è impossibile non immedesimarsi con la protagonista. È inevitabile parteggiare per lei, dispiacersi per tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nella vita e ammirare la determinazione e la forza di questa donna, che per i propri figli è disposta a compiere qualunque gesto possa renderli degli adulti liberi e realizzati. 

Quello che ho fatto, l'ho fatto soprattutto per Selena, non per i ragazzi o per i soldi che suo padre aveva cercato di rubare. È stato soprattutto per Selena se ho fatto in modo che ci restasse e per proteggerla da lui ho pagato con la parte più profonda del suo affetto per me.

Dolores è una donna che ha sopportato e sofferto molto, ma non per questo si è mai persa d’animo, non per questo Il suo carattere è diventato più arrendevole, e tuttavia non ha mai perso la capacità di provare empatia per il prossimo. Nonostante la personalità non sempre piacevole di Vera, Dolores le è sinceramente legata, e nei momenti di crisi dell’anziana donna è l’unica rimanerle accanto, in nome di un rapporto che si è costruito nei decenni ed è stato determinante nelle scelte compiute da Dolores, che in fondo da Vera ha imparato molto.

Avevo un debito con lei fin da quella piovosa giornata dell'autunno 1962 quando mi ero seduta sul suo letto e avevo pianto e singhiozzato con la faccia nascosta nel grembiule. E i Claiborne hanno sempre saldato i loro debiti.

Se siete alla ricerca di una protagonista femminile forte ma anche molto umana, con una scorza dura ma un cuore tenero, "Dolores Claiborne" fa assolutamente al caso vostro: credo che sia diventata addirittura il mio personaggio femminile preferito all’interno di un romanzo di King!