lunedì 29 giugno 2020

Il gioco dell'angelo

In seguito alla lettura de L'ombra del vento, che dopo aver visitato Barcellona ha assunto per me una sfumatura ancor più romantica ed evocativa, ho deciso di proseguire in quella che negli anni è diventata una tetralogia con il secondo volume della saga del Cimitero dei Libri Dimenticati.



Titolo: Il gioco dell'angelo
Autore: Carlos Ruiz Zafón
Anno della prima edizione: 2008
Titolo originale: El juego del ángel 
Traduttore: Bruno Arpaia
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 466



LA STORIA

David Martin è un giovane amante della letteratura, figlio di un uomo analfabeta ed ostile a tutto ciò che, come i libri, gli sembra una perdita di tempo. Una volta perduto il padre, ucciso in circostanze misteriose, David inizia il proprio lavoro nella redazione di un giornale e tutte le opere che pubblica portano sempre il nome di qualcun altro -l'unico romanzo a suo nome invece non riscuote alcun successo. La sua vita però è destinata a cambiare quando un misterioso editore in arrivo dalla Francia, Andreas Corelli, gli commissiona un'opera assai ben pagata; in seguito a questo incarico David trasloca anche in una nuova, lugubre dimora ricca di segreti dal passato… che non sono sepolti quanto si potrebbe pensare.


COSA NE PENSO

Innanzitutto è necessario inquadrare a livello temporale questo romanzo, che si svolge tra gli anni Venti e Trenta del 1900. Non è quindi ancora scoppiata la guerra civile spagnola, e rispetto all'ambientazione de L'ombra del vento ci troviamo nel passato.
Erano anni in cui il sangue e la violenza per le strade di Barcellona cominciavano a essere pane quotidiano. Giorni di volantini e bombe che lasciavano resti di corpi tremanti e fumanti per le strade del Raval, giorni di bande di figure nere che vagavano nella notte spargendo sangue, di processioni e sfilate di santi e generali che puzzavano di morte e di inganni, di discorsi incendiari in cui tutti mentivano e tutti avevano ragione. [...]  La notte apparteneva alla luce a gas, alle ombre dei vicoli spezzate dai bagliori degli spari e dai lampi azzurrati della polvere bruciata. Erano anni in cui si cresceva in fretta, e quando l'infanzia si sbriciolava tra le loro mani molti bambini avevano già lo sguardo da vecchi.
La presenza del Cimitero dei Libri Dimenticati non è predominante in questo romanzo, ma la famiglia Sempere alla quale ci siamo affezionati ne L'ombra del vento ritorna: in questo caso si tratta sempre di una coppia padre-figlio, ma Daniel nascerà solo al termine del romanzo, mentre i personaggi nella storia sono suo nonno e suo padre.


Un altro ruolo non centrale nella vicenda, ma piuttosto comprimario a quello di David, è quello del personaggio di Isabella: una ragazza che si propone di fargli da assistente in cambio di poter apprendere da lui l'arte della scrittura, ma mostra in modo evidente di provare per lui un amore profondo che tuttavia non viene mai ricambiato dal tormentato autore. David infatti è da sempre innamorato di Cristina, che conosce fin da bambino ma per convenienza ha preferito sposare un uomo facoltoso a cui anche David deve molto, condannandosi ad una perpetua infelicità.
Ci guardammo in silenzio e seppi che non potevo né volevo mentire a quella donna, a nessun costo. «Sto cercando di capire cosa accadde a suo marito, signora Marlasca.» «Perché?» «Perché credo che a me stia succedendo la stessa cosa.»
Isabella è insieme a David il personaggio meglio caratterizzato del romanzo, che mostra la propria forza insieme alle proprie indubbie debolezze, ed avrei desiderato per lei maggiori fortune; il matrimonio con Sempere infatti, nonostante le stesse dichiarazioni di lei, continua a sembrarmi una scelta in mancanza d'altro -di David, nella fattispecie.

Il mistero attorno al quale ruota "Il gioco dell'angelo" è però senz'altro Andreas Corelli, presunto editore che paga profumatamente gli scrittori affinché inventino per lui una religione. Questo elemento che pare all'inizio del romanzo fondamentale in realtà va perdendosi nello svolgimento, a vantaggio di scene rocambolesche, inseguimenti, omicidi e chi più ne ha più ne metta. "Il gioco dell'angelo" è infatti un romanzo ricco di azione, specialmente nella seconda metà, mentre l'aspetto delle indagini e del mistero da svelare diventa via via meno importante -il che è un peccato.
«Da dove vuole che inizi?» «È lei il narratore. Le chiedo solo di dirmi la verità.» «Non so qual è.» «La verità è quella che fa male.»

Oltre che un romanzo avventuroso però nel secondo volume della tetralogia non mancano gli elementi fantastici: infatti il misterioso Corelli non invecchia, e la stessa trasformazione capita a David dopo che proprio Corelli pare guarirlo magicamente da una gravissima malattia che lo avrebbe altrimenti condotto in breve alla morte. Questi aspetti, come l'identità di Corelli, restano di fatto privi di una spiegazione, come se capitassero per caso: trovo che questa sia una vera e propria debolezza della trama, così come la conclusione che vorrebbe essere romantica ma aggiunge un ulteriore tassello privo di contestualizzazione -Corelli sarebbe infatti in grado di ricreare gli individui a suo piacimento e riportarli sulla Terra….
Diverse sono quindi le critiche che ho da muovere a "Il gioco dell'angelo", nonostante lo stile di scrittura di Zafón resti appassionante e le sue descrizioni di una Barcellona cupa e suggestiva aggiungano alla storia un tocco in più.
«I visitatori occasionali credono ingenuamente che ci siano sempre caldo e sole in questa città» disse il principale. «Ma, come amo dire, prima o poi l'anima antica, torbida e oscura di Barcellona si riflette in cielo.»
Ho di gran lunga preferito il primo romanzo della tetralogia fino ad oggi, ma ho intenzione di continuare nella lettura del terzo e del quarto per potervi dare un'opinione più completa!

lunedì 22 giugno 2020

Vicolo del Mortaio

Come ormai avrete capito, la letteratura araba mi affascina molto, in particolare quella egiziana di cui trovate qui tutti gli articoli -più che altro perché mi pare più semplice da reperire, non leggendo io l’arabo in lingua originale. Di Nagib Mahfouz avevo già letto e apprezzato alcune opere minori (qui trovate l’articolo dedicato a Canto di nozze) ed ero interessata a leggerne una delle più antiche e più conosciute.




Titolo: Vicolo del Mortaio
Autore: Nagib Mahfouz
Anno della prima edizione: 1947
Titolo originale: Zoqaq al-Midaq
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttore: Paolo Branca
Pagine: 254


LA STORIA

Vicolo del Mortaio è una viuzza del Cairo, animata da botteghe e caffè, dove vivono i personaggi che popolano questo libro. Ci sono giovani e meno giovani, ragazze attraenti, donne che cercano marito e altre che organizzano matrimoni; ci sono uomini dalla condotta riprovevole, dediti a mestieri non convenzionali. Il tutto avviene sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale che sta per finire.


COSA NE PENSO

Nagib Mahfouz è l’unico autore di lingua araba ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura: lo vinse nel 1988, quando “Vicolo del mortaio” aveva visto la luce da molto. Pubblicato infatti nel 1947, questo romanzo corale è ambientato nel quartiere di Khan-el-Khalili, il principale suq (mercato arabo) della parte antica della capitale egiziana, sul finire della Seconda Guerra Mondiale.

L’imminente sconfitta di Hitler non viene accolta con la gioia che la accompagna in Europa, perché diversi cittadini del Cairo si sono arruolati per denaro nell’esercito inglese e speravano che questa opportunità di guadagno sarebbe durata per lungo tempo – il monarca che regnava all’epoca, Re Faruq, aveva infatti concesso al Regno Unito di utilizzare l’Egitto come base militare nel corso del conflitto mondiale.
Liberati dalla vista di quel cadavere di Kamil e vieni nell’esercito inglese. É un pozzo senza fondo, il tesoro del gran santo! Questa guerra non è una sventura, come dicono gli ignoranti. É una benedizione del Signore per toglierci da un abisso di miseria e di indigenza. Ben vengano le incursioni aeree, visto che ci bombardano d’oro. Non ti ho già detto di entrare nell’esercito? Ti ripeto che è il momento buono. Se l’Italia è stata sconfitta, la Germania resiste ancora, e poi c’è il Giappone… la guerra durerà vent’anni.
Vicolo del Mortaio è evidentemente una zona povera della città: vi abitano persone modeste, che tirano a campare e spesso non lo fanno con i mezzi più leciti. C’è chi si improvvisa dentista, ma si procura le dentiere sottraendole ai cadaveri da poco sepolti; chi compie atti di violenza per mutilare i mendicanti su loro richiesta, in modo da renderli veramente disabili. C’è chi quel Vicolo non lo sopporta, e non vede l’ora di cambiar vita, di andar via; e c’è chi invece tutto sommato ci è affezionato, ma non ha il coraggio di ammetterlo ad alta voce.
 “Non è necessario attendere la fine della guerra. Saremo gli abitanti più felici del Vicolo”. Lei aggrottò la fronte ed esclamò con disgusto: “Il Vicolo del Mortaio.” Al-Helwu la guardò imbarazzato, non osava prendere le difese di quel luogo che pure amava e che preferiva ad ogni altro al mondo.
Mahfouz costruisce un affresco di un luogo e dei suoi abitanti; il personaggio che più spicca tra di essi, che è stato meglio caratterizzato, è un personaggio femminile: quello di Hamida. Hamida è una giovane donna attraente, orfana, cresciuta da una donna che l’ha trattata come una figlia e che di mestiere organizza matrimoni per la gente della zona. Hamida però non vuole accontentarsi del ragazzo proprietario della bottega di barbiere, sogna un’esistenza di abiti eleganti, di appartamenti con la luce elettrica e l’acqua corrente; così sarà logico farsi sedurre dalle facili ricchezze, che però non sempre conducono alla felicità.
“Perché disprezzi questa vita?” “Ma è davvero vita? In questo vicolo ci sono solo morti, se ci resterai non avrai neppure bisogno di esser seppellito e che Dio abbia pietà di te”.
La lingua di Mahfouz è spesso ironica, tagliente, non risparmia un giudizio spietato nei dialoghi in cui si discute di un personaggio o dell’altro; sembra dirci che il Vicolo del Mortaio non ha compassione per nessuno, che per nessuno dei suoi abitanti ci sarà salvezza in questa vita o nella prossima.
Ma come tutte le altre anche questa notizia passò, per l’ineluttabile disposizione del Vicolo all’oblio e all’indifferenza. Al mattino, se era il caso, si piangeva, ma alla sera già si sghignazzava tra le porte e le finestre che si aprivano e si chiudevano con un medesimo cigòlio.

Io l’ho trovato un romanzo di non semplicissima lettura, specialmente nella sua prima parte in cui ho faticato ad ingranare e ad entrare in empatia con gli abitanti del Vicolo; il ritmo accelera però man mano che la vicenda di Hamida e del suo innamorato Abbas si sviluppa, e anche il coinvolgimento del lettore aumenta.

“Vicolo del Mortaio” è senz’altro un ottimo esempio della tradizione letteraria del realismo arabo, e rappresenta un Egitto che oggi non esiste più in questa sua forma, ma che è facile immaginarsi grazie alle descrizioni dell’autore. Lo consiglio a tutti coloro che sono interessati alla storia della Seconda Guerra Mondiale, poiché il fronte al di là del Mediterraneo è un’area che raramente viene presa in considerazione; se poi cercate un romanzo a più voci, che vi tenga compagnia senza togliervi il sonno, “Vicolo del Mortaio” fa certamente al caso vostro.

lunedì 15 giugno 2020

Donne che parlano

Negli scorsi anni ho letto alcuni libri dalle tematiche che si potrebbero definire femministe: mi riferisco a "Ragazze elettriche" di Naomi Alderman e "Vox" di Christina Dalcher, entrambi romanzi di genere distopico. Di femminista in queste letture ho trovato ben poco: entrambe si sono rivelate infatti delle delusioni, con mio dispiacere dal momento che l'argomento è davvero di mio interesse.
Per fortuna ci sono anche libri di ben altro livello che diano voce alla questione femminile, e questa volta sono riuscita a scovarne uno!



Titolo: Donne che parlano
Autrice: Miriam Toews
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Women Talking
Traduttrice: Maurizia Balmelli
Casa editrice: Marcos y Marcos
Pagine: 253



LA STORIA

In una ristretta comunità mennonita del Nord America, avviene qualcosa di molto strano: le donne durante la notte sognano di essere visitate da demoni e spiriti maligni di ogni sorta. Quando una di loro però resiste al sonno, scopre che la realtà è ben diversa: le donne della comunità sono state narcotizzate dagli uomini, che hanno fatto irruzione nelle loro stanze da letto per violentarle -giovani e meno giovani, addirittura bambine di pochi anni.
La comunità però prevede stringenti regole morali, e così -mentre gli uomini si trovano in carcere, per la loro incolumità e non per punizione- ci si aspetta che le donne perdonino e voltino pagina. Non è però una decisione semplice da prendere, ed infatti molte di loro sono combattute: restare, oppure ricorrere alla vendetta, o semplicemente trovare il coraggio di andarsene?
Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni - per forza che siamo sognatrici.

COSA NE PENSO

Nonostante siano le donne a parlare in questo romanzo, come già viene introdotto dal titolo, è in realtà un uomo a far loro da portavoce: si tratta di August, che nell'infanzia ha fatto parte della comunità di Molotschna, finché lui e la sua famiglia ne sono stati allontanati. Da adulto ha fatto ritorno ed è un uomo diverso dagli altri mennoniti che lo circondano: tormentato dai propri fantasmi, rifiuta l'ideologia patriarcale che usa violenza fisica e psicologica sulle donne, ed è infatti loro alleato.

Quella di Miriam Toews non è un'opera di fantasia, o perlomeno non del tutto: l'autrice ha infatti trascorso i primi diciotto anni della sua vita in una rigida comunità mennonita da cui poi ha scelto di fuggire -e conosce pertanto per esperienza diretta le dinamiche all'interno di simili gruppi. Per i fatti narrati nel romanzo inoltre si è ispirata ad un drammatico caso avvenuto realmente in Bolivia, tra il 2005 e il 2009: le donne di una comunità mennonita venivano narcotizzate con anestetici veterinari e stuprate quando incoscienti. Nella nota introduttiva alla sua opera, l'autrice scrive in proposito:
Donne che parlano è insieme una risposta narrativa a questi fatti di vita vissuta e un atto di immaginazione femminile.
Per il lettore, il romanzo di Miriam Toews è una lettura appassionante. L'autrice non presenta una ad una le sue protagoniste, non le descrive da un punto di vista esterno; le inserisce in una lista introduttiva ai verbali redatti da August e poi ce le lascia conoscere attraverso le loro parole, attraverso le loro interazioni. Ci sono donne anziane come Greta e Agata, anziane ma non rassegnate; c'è l'indomita Salomè, pronta a lottare, Ona che nessun uomo ha mai preso sul serio ma che August non ha mai smesso di amare. Ognuna di loro ha una voce, la propria voce inconfondibile e ben caratterizzata; ognuna di loro spicca tra le pagine e ha un'individualità che mostra quanto l'autrice abbia pensato ad ognuno dei suoi personaggi.
Sono incalzato dal tempo, e distratto perché ricordo come il defunto marito di Greta si facesse quasi venti chilometri verso sud in cerca d'alcol, e poi, ubriaco fradicio, qualcuno lo avvolgeva in una coperta e lo caricava sul calesse, confidando che i suoi cavalli avrebbero trovato la strada, cosa che puntualmente accadeva. Dopodiché Greta srotolava il marito dalla coperta e lo metteva a letto. E capisco meglio il suo profondo amore per Ruth e Cheryl, e ripenso a Frint, ai suoi grandi occhi dalle lunghe ciglia, al suo naso di velluto.
Sono donne forti quelle di Molotschna, provate dagli anni e dalla vita di privazioni e violenze a cui sono state costrette; sono donne poco abituate a parlare ed ancor meno a farsi domande, ma sono anche donne pronte a mettere tutto in discussione e a ricominciare, costi quello che costi. 
Nessuna di noi ha mai chiesto alcunché agli uomini, osserva Agata. Neanche la benché minima cosa, nemmeno che ci passassero il sale, nemmeno un centesimo o un momento di solitudine o di ritirare il bucato o di aprire una tenda o di andarci piano coi puledri piccoli o di metterci la mano sulle reni mentre di nuovo, per la dodicesima o tredicesima volta, cerchiamo di spingere un neonato fuori dal nostro corpo. Non vi pare interessante, dice, che la sola e unica richiesta che le donne avrebbero da fare agli uomini sia quella di andarsene?

Il romanzo di Miriam Toews è uno di quei romanzi capaci di sconvolgere i lettori, e forse ancor più le lettrici. È un romanzo potente ed intenso, che dalla violenza fa nascere una nuova possibilità, e più dei romanzi distopici citati in apertura di questo post è capace di ricordare la forza delle donne, la capacità femminile di reinventarsi e riscoprirsi. 
Non si tratta di una tematica semplice, e l'autrice non ci risparmia dettagli dolorosi, in grado di turbare profondamente. 
Non dobbiamo essere perdonate dagli uomini di Dio, urla, per aver protetto i nostri figli dalle azioni perverse di uomini malvagi che spesso sono gli stessi identici uomini a cui dovremmo chiedere perdono. Se Dio è amorevole sarà Lui a perdonarci. Se Dio è vendicativo, allora ci ha create a Sua immagine e somiglianza. Se Dio è onnipotente, allora perché non ha protetto le donne e le ragazze di Molotschna? Se Dio, nel Vangelo di Matteo, stando a Peter, il nostro saggio pastore, chiede: Lasciate che i bambini vengano a me e non impediteglielo, non dovremmo forse considerarlo un impedimento, il fatto che vengano stuprati? 
Nonostante ciò (e anzi, in parte proprio per questo) mi sento di consigliarvi questo libro come un potentissimo antidoto al maschilismo tossico, alle prevaricazioni della cultura patriarcale in cui ci troviamo immersi, anche se ben lontani dalle comunità mennonite di una cinquantina di anime; perché non si è mai abbastanza informati, non si è mai abbastanza preparati alla lotta e alla resistenza.

lunedì 8 giugno 2020

Misery

Che Stephen King sia uno dei miei autori preferiti ormai non è un mistero per chi frequenta questo blog. Molti anni fa, quando ero al liceo, lessi "Misery" e poi commisi l'imprudenza di prestare la mia copia -non ricordo a quale compagna di classe- che non me la restituì mai più. Avendo ormai perso le speranze di riaverla, quest'anno ho deciso di ricomprare "Misery" -e di rileggerlo.



Titolo: Misery
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione:
Casa editrice:
Traduttore:
Pagine: 




LA STORIA


Paul Sheldon è un affermato scrittore, famoso soprattutto per la sua serie di romanzi rosa dedicati al personaggio di Misery -a cui ha deciso di porre fine con la morte della protagonista.
Tra le ammiratrici di Paul c’è Annie Wilkes; il caso vuole che una notte, alterato dall’alcool, Paul abbia un incidente lungo una strada poco battuta del Colorado e sia proprio Annie a trovarlo. Tuttavia, invece di portarlo in ospedale, Annie lo sequestra in casa sua… costringendolo tutt’altro che con le buone a riportare in vita Misery.


COSA NE PENSO


Stephen King scrisse Misery nei primi anni Ottanta, in un periodo di profonda dipendenza dall'alcol e dalle droghe; trovò l'ispirazione in un sogno che fece in aereo mentre con la moglie si recava a Londra, e lo scrisse di getto, nella notte, ad una scrivania nella hall dell'albergo -la stessa a cui pare fosse morto Kipling.
Allora, benché fossi quasi costantemente imbottito di droghe e annegato nell'alcol, a scrivere quel romanzo me la sono spassata un mondo. (Stephen King, On Writing)

In Misery, l’orrore a cui Stephen King ci ha abituato non ha alcuna componente soprannaturale: non ci sono creature fantastiche come ne “Le notti di Salem”, non ci sono poteri paranormali come in “Carrie”, non ci sono cadaveri riportati in vita come in “Pet Sematary”. In “Misery” l’orrore è del tutto umano, e sta nella brutalità con cui Annie si accanisce sulla psiche e sul corpo di Paul, nella tensione che pervade il romanzo, nella cattività in cui Paul è costretto a subire violenze inimmaginabili. 


Come in “Pet Sematary” King ha saputo raccontare l’esperienza del lutto e della sua necessaria ma dolorosa elaborazione, in“Misery” racconta la malattia mentale attraverso il personaggio di Annie. Questa ex infermiera ha un passato complesso, una vita segnata dalle crisi di cui è vittima e che non sa controllare; nel suo isolamento Annie perde il contatto con la realtà, preda di allucinazioni e manie persecutorie, al punto di concepire la morte come una liberazione -perlomeno quella altrui. 
Annie Wilkes, l'infermiera che tiene prigioniero Paul Sheldon in Misery, può sembrare una psicopatica a noi, ma è importante ricordare che lei si vede perfettamente equilibrata e razionale; è, anzi, una donna minacciata che cerca di sopravvivere a un mondo ostile pieno di burbe e caccolicchi. La vediamo passare attraverso pericolosi cambi di umore, ma ho cercato di non scrivere mai frasi esplicite come: «Quel giorno Annie era depressa, forse con inclinazioni suicide», oppure: «Quel giorno Annie sembrava particolarmente felice». Se sono io a dovervelo dire, ho perso. Se viceversa vi presento una donna taciturna e dai capelli sporchi che fagocita dolci con accanimento, spingendovi a concludere che Annie è nella fase depressiva di un ciclo maniaco-depressivo, vinco. E se sono capace, anche per breve tempo, di offrirvi uno scorcio del mondo attraverso gli occhi di Annie Wilkes, se riesco a farvi comprendere la sua follia, allora forse faccio di lei un personaggio con il quale simpatizzare o nel quale persino identificarsi. (Stephen King, On Writing)

L’intero romanzo ruota attorno a Paul e Annie: nonostante i protagonisti non siano ragazzi -e sappiamo dalla lettura di “It” che nel caratterizzare i più giovani il talento di King è pressocché insuperabile- ci troviamo davanti a due personaggi ben costruiti, il cui contrasto dà vita a una relazione carceriere-vittima del tutto credibile.
L’ambientazione è il microcosmo costituito dalla stanza in cui lPaul è tenuto prigioniero; raramente si allarga all’intero piano dell’abitazione, e non ne oltrepassa mai i confini. Il lettore vi è confinato quanto Paul, l’angoscia e una sensazione di claustrofobica oppressione sono palpabili pagina dopo pagina.
Scoprì tre cose quasi simultaneamente, dieci giorni circa dopo essere uscito dalla nube scura. La prima era che Annie Wilkes aveva un'ingente scorta di Novril (nonché di molti altri medicinali di vario genere). La seconda era che lui aveva sviluppato dipendenza dal Novril. La terza, che Annie Wilkes era pericolosamente pazza.

“Misery” non è però solamente un romanzo sulla prigionia, bensì è anche un romanzo sulla scrittura: fa parte una lunga serie di testi di King in cui i suoi protagonisti sono scrittori come lui, e proprio al potere dello scrivere dà voce attraverso il punto di vista di Paul -l’unico a cui il narratore, in terza persona ma onnisciente, dia voce.
Sarebbe lecito domandarsi, immagino, se il Paul Sheldon diMisery sono io. Di certo sono io in alcune parti... ma credo che scoprireste, continuando a scrivere, che ogni personaggio che create è in parte voi. (Stephen King, On writing)

La scrittura infatti tiene in vita Paul ben più delle pillole per il dolore da cui diviene in breve tempo dipendente; sebbene ridare vita al personaggio di Misery sia all’inizio un obbligo impostogli da Annie, pagina dopo pagina diventa il senso delle sue giornate, il fulcro a cui la sua sopravvivenza ruota attorno nonostante le sofferenze a cui è sottoposto -oltre al desiderio di vendetta nei confronti della sua carceriera, che si mescola al terrore che prova nei suoi confronti.
Perché gli scrittori ricordano tutto, Paul. Specialmente quello che fa male. Denuda uno scrittore, indicagli tutte le sue cicatrici e saprà raccontarti la storia di ciascuna di esse, anche della più piccola. E dalle più grandi avrai romanzi, non amnesie. Un briciolo di talento è un buon sostegno, se si vuol diventare scrittori, ma l'unico autentico requisito è la capacità di ricordare la storia di ciascuna cicatrice.  

“Misery” è più di tutto un romanzo che appassiona: impossibile posarlo, impossibile non provare una bruciante curiosità nei confronti del destino del povero Paul. In “Misery” ci sono momenti in cui la tensione arriva al punto di far avvertire la necessità di interrompere la lettura per riprendere fiato, per ritornare alla confortevole realtà e ricordarsi di non essere prigionieri di Annie Wilkes in una fattoria del Colorado: proprio per questo “Misery” è un romanzo potente e davvero riuscito
Se amate i romanzi di Stephen King, non potete perdervelo; se invece dovete ancora avvicinarvi a questo autore, potrebbe essere un ottimo modo per cominciare! 

lunedì 1 giugno 2020

Io so chi sei

La trilogia ideale di Paola Barbato inizia con questo volume e prosegue con "Zoo"; si concluderà con un terzo titolo, "Vengo a prenderti". In realtà l'ordine di lettura non è così rigido, poiché le storie raccontate dai volumi già pubblicati sono cronologicamente parallele: io infatti ho letto per primo "Zoo" (di cui ho già scritto qui) e mi sono goduta moltissimo gli intrecci scoperti nel corso della lettura di "Io so chi sei".




Titolo: Io so chi sei
Autrice: Paola Barbato
Anno della prima edizione: 2018
Casa editrice: Piemme
Pagine: 520




LA STORIA

Lena lavora come receptionist d'albergo a Firenze. Da qualche anno la sua vita è radicalmente cambiata: da ragazza precisa e ordinata che era si è trasformata in una piuttosto trasandata, che porta i dreadlocks e indossa vestiti informi, per conformarsi ai desideri del suo innamorato Saverio. Saverio, che aveva problemi di droga ed era un animalista convinto, innamorato del suo molosso Argo; Saverio, che due anni prima è scomparso da un ponte sull'Arno e che tutti credono morto. Finché un giorno a Lena non viene recapitato un misterioso cellulare su cui appaiono messaggi che solo Saverio potrebbe aver scritto...

COSA NE PENSO

Per chi come me ha anteposto la lettura di "Zoo" a quella di "Io so chi sei" è chiaro sin dall'inizio dove si trovi Saverio; impossibile avere altrettanto chiare le identità dei colpevoli in questo romanzo, perché ciò che l'autrice sembra ripeterci pagina dopo pagina è che nessuno può dirsi davvero innocente.
Lena infatti, l'indiscussa protagonista del romanzo, non si può affatto definire un'eroina -caratteristica in comune con Anna, la protagonista di "Zoo". Lena è accecata dal suo amore per Saverio ed è disposta a tutto, a sacrificare chiunque (anche le amiche più care) nella speranza di riaverlo con sé; di Saverio non vede i lati oscuri, pare non ricordare la manipolazione e la violenza psicologica a cui era stata sottoposta, ricorda solo i bei momenti e il sentimento che vorrebbe disperatamente riconquistare.
«Tu dici che non giudichi mai nessuno, che sei uno spirito libero, però mi hai fatto cambiare il modo di vestirmi, di pettinarmi, di mangiare e pure di scopare. Perché così come ero io non ti andavo bene. Perché sei tu che vedi il dritto e lo storto, non io.» «E allora perché lo hai fatto?» l’aveva rintuzzata. «Perché potevo permettermelo. Perché non erano cose che mi definivano. Forse perché dei due quella davvero libera sono io.»
Accanto ad Anna ruota un universo di personaggi minori, tutti pedine sacrificabili sulla scacchiera della ragazza; spicca Francesco, poliziotto di origine napoletana, sotto la cui superficie brucia il fuoco della rabbia e della violenza ma anche della determinazione nel risolvere un caso a cui nessun altro avrebbe prestato tanta attenzione.
E allora qualcosa era scattato, perché pure lui era prigioniero della propria e forse lei sì, forse lei era il suo angelo redentore, forse se la salvava poteva salvare anche se stesso e spegnere il fuoco della furia ed ergersi a eroe e salvatore e Uomo Retto, Pulito, Giusto. Non ne era certo, si dibatteva, e poi nostro Signore benedetto gli aveva mandato un segno enorme, come un faro nella notte, la convocazione dal sovrintendente e «Caparzo, tu sei forse il più bravo in queste cose, dovresti seguire una persona per un caso di Ridenti, ma è una situazione delicatissima, Caparzo, capisci?

Impossibile giudicare la storia nel suo complesso prima della conclusione. Per ora mi sento di affermare che "Io so chi sei" è un thriller più classico rispetto a "Zoo", meno angosciante ma comunque avvincente, nonostante la tensione non si mantenga sempre costante e qualche volta avrei apprezzato un paio di pagine in meno -difetto giustificato però dalla grande quantità di personaggi presenti, sui quali ogni volta il lettore è portato a fare congetture fino all'immancabile colpo di scena.
Uno degli aspetti che ho preferito di questa lettura è stato l'insieme di indizi che Paola Barbato dissemina tra i due titoli della sua trilogia, come in una ragnatela che avvolge i personaggi e li lega in maniere imprevedibili; il lettore sobbalza ogni volta che riconosce uno di loro già incontrato nel libro precedente, accorgendosi di come c'è ancora molto da scoprire nelle vite di Lena, Anna di quello che le aspetta.
In conclusione non posso che consigliarvi la lettura di "Io so chi sei" e di "Zoo" (sarebbe un peccato leggere l'uno senza l'altro... mentre io non vedo l'ora di iniziare "Vengo a prenderti" e di chiudere il cerchio!