lunedì 25 novembre 2019

L'italiano

Continuano i consigli di lettura provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente, questa volta con il romanzo che nel 2015 ha vinto il più prestigioso dei premi letterari per scrittori di lingua araba: l'Arabic Booker Prize



Titolo: L'italiano
Autore: Shukri Al-Mabkhout
Anno della prima edizione: 2014
Titolo originale: Al Italyeny
Casa editrice: E/O
Traduttrice: Barbara Teresi
Pagine: 368



LA STORIA

L'italiano si chiama Abdel Nasser, e in Italia non ha mai messo piede: vive in Tunisia, negli anni '80, ed è uno studente di giurisprudenza politicamente molto attivo. La sua è una bellezza particolare, quasi irresistibile per le donne che lo circondano, ed ai suoi tratti non comuni deve il suo soprannome "l'italiano"; deve loro anche l'amore di Zaina, brillante filosofa e aspirante professoressa.
Sullo sfondo c'è la Tunisia: la censura governativa, la presidenza di Bourguiba in lento declino fino al silenzioso colpo di stato di Ben Ali. Sullo sfondo c'è anche un mistero: l'aggressione di Abdel Nasser all'imam che celebra il funerale di suo padre, avvenimento che dà inizio al romanzo. 



COSA NE PENSO

"L'italiano" è un romanzo corposo, che racconta l'amore e la politica in un insieme coeso, dal ritmo pacato che fa immergere il lettore nella realtà del protagonista. 
Si tratta di un romanzo ricco di riferimenti letterari e non solo, dove intravediamo le opere di scrittori arabi, di sociologi e studiosi di vario tipo; è un romanzo poi estremamente politico, che dà grande importanza ai sindacati, alle unioni studentesche, alla coscienza di classe, all'etica del giornalismo e alle limitazioni imposte dai poteri dello stato.
"Non mi aveva detto che il vero giornalista è quello che ha agganci con la polizia?" "Giusto, ma per sapere come gira il vento, non per piazzarti nudo davanti alle folate... C'è una bella differenza. Altrimenti chi ti proteggerà?" "Un giornalista si limita a raccontare la verità dei fatti, a trasmettere la notizia. Si tratta di un'inchiesta, non di un articolo d'opinione". Si Abdel Hamid sorrise, e il suo era con ogni probabilità un sorriso sarcastico: "Stammi a sentire, figliolo. La verità, in Tunisia, ha un un'unica fonte, ovvero lo Stato... E di questi tempi il ministro dell'Interno è lo Stato".
Nonostante infatti le vicende personali di Abdel Nasser siano pura finzione, Al-Mabkhout racconta attraverso il suo protagonista la storia degli anni '80 in Tunisia, le tensioni politiche nel paese, il controllo imposto dal governo in tutti gli ambiti della società -molto evidente nella redazione del giornale in cui Abdel Nasser lavora dopo la laurea.
Il tutto è raccontato in prima persona da un narratore interno misterioso, che si intromette molto raramente e ci racconta di Abdel Nasser e Zeina dal punto di vista di chi li ha conosciuti -conferendo al romanzo un tono di grande realismo.
Su richiesta di entrambi io feci da testimone a Zeina. Non si fidavano di nessuno, e poi io ero un amico d'infanzia dell'Italiano e l'accompagnatore ufficiale di Zeina in facoltà.
Il maggior punto di forza del romanzo di Al-Mabkhout è proprio la sua credibilità: le storie, le vite di Abdel Nasser e di Zeina ci sembrano vere. Abdel Nasser è la pecora nera della famiglia, appartenente all'alta borghesia cittadina; suo fratello maggiore è emigrato in Svizzera ed è un affermato economista, ha sposato un'italiana del Canton Ticino e manda ad Abdel Nasser in Tunisia tutto il denaro che può, per sostenere i suo studi in giurisprudenza e il suo attivismo che portano a pochi risultati.
Zeina invece ha origini molto umili, non ha avuto le possibilità che sono state offerte ad Abdel Nasser e per questo lotta con le unghie e con i denti per essere la migliore tra le studentesse sperando di ottenere poi una cattedra all'università.
Sono sempre stata attratta da qualunque pagina scritta. Leggevo persino i fogli di giornale con cui il droghiere avvolgeva i prodotti. [...] Sono stata fortunata: quando mia madre ha scoperto la mia passione per la lettura ha cominciato a portarmi ogni giorno due quotidiani che trovava in casa della sua datrice di lavoro. Poi ha scoperto in cantina un'enorme quantità di libri e riviste in francese. Erano abbandonati lì, invecchiati dall'umidità e coperti di polvere, tanto che alcune pagine erano appiccicate e si riusciva a sfogliarle a stento, e a volte si strappavano. [...] Lei me li portava di nascosto e io li divoravo subito perché non vedevo l'ora di averne altri.
Negli alti e bassi della loro relazione si vorrebbe rimproverare prima l'una e poi l'altro, come faremmo con due conoscenti che vediamo innamorarsi ma non saper gestire i propri sentimenti perché troppo concentrati su se stessi: per Zeina infatti la carriera accademica verrà sempre al primo posto, e seppure Abdel Nasser desideri essere un buon marito davanti alla freddezza della compagna finirà per approfittare largamente della propria avvenenza.
La loro relazione diventa nel romanzo di Al-Mabkhout lo specchio della Tunisia, che passa dalle intense prese di posizione ad una passiva accettazione del passaggio del potere nelle mani di Ben Ali; i sogni e gli idealismi dei protagonisti vengono accantonati, ed emergono traumi del loro passato che non hanno mai elaborato completamente e li portano a sentirsi falliti nel proprio presente. 
Aveva pensato di dirglielo ma, dopo averci riflettuto per un po', aveva cambiato idea. In lui si era risvegliato l'uomo arabo che deve provvedere al sostentamento della donna. A metterlo in imbarazzo era il fatto che lei non facesse nessuna osservazione al riguardo. Abdel Nasser si rimproverava di averla abituata a gestire i suoi soldi, tanto da dover chiedere a lei il denaro per le sue spese quotidiane.
"L'italiano" è il romanzo d'esordio di Al-Mabkhout, che abbonda con i dialoghi e le descrizioni e lo arricchisce di molti dettagli; volutamente non chiude la propria opera in maniera netta (anzi, l'ho trovata un po' troppo frettolosa), perché la vicenda di Abdel Nasser dovrebbe trovare uno sviluppo nei prossimi anni -e mi aspetto che in esso troveremo la Primavera Araba e gli ultimi decenni della storia della Tunisia, mentre qui la lasciamo al 1990.
Per chiunque sia appassionato di letteratura araba e di politica dei paesi del Mediterraneo, questo primo volume è già imperdibile: le mie aspettative nei confronti del seguito sono ancora più alte!

lunedì 18 novembre 2019

Vita

Il romanzo di oggi non è soltanto un romanzo: è piuttosto un percorso, romanzato, che l’autrice compie nella memoria della propria famiglia. Questo percorso viene intrapreso dalla scrittrice quando è già una donna adulta e il suo antenato -padre di suo padre, che è uno dei due protagonisti del libro che si appresta a scrivere- è ormai già morto, quindi non c’è per lei un modo di raccogliere una sua testimonianza diretta. Nasce così, tra queste pagine, la storia di Vita e di Diamante.


 

Titolo: Vita
Autrice: Melania Mazzucco
Anno della prima edizione: 2003
Casa editrice: Einaudi
Pagine:462




LA STORIA 

La storia inizia nel 1903, con una nave inglese che salpa dall'italia diretta New York. Su questa nave sono molti i membri della famiglia Mazzucco: tra loro c’è Diamante, che è un ragazzino di undici anni, accompagnato da Vita, che di anni ne ha soltanto nove. Sbarcare a Ellis Island sarà l'inizio della loro infanzia americana, e la base su cui costruiranno le loro esistenze di adulti emigrati in un paese molto lontano dal "sogno americano" nel quale riponevano le loro speranze di bambini.

COSA NE PENSO

All’epoca in cui il romanzo ha inizio, avere undici anni in Italia era molto diverso da oggi: Diamante infatti è già considerato un uomo, che può andare in America a trovare un lavoro con cui aiutare la sua famiglia che è estremamente povera - i suoi fratelli addirittura muoiono di fame. Ci ricorda forse i tanti minori non accompagnati che arrivano oggi con un barcone sulle nostre coste, sperando di diventare una risorsa per le famiglie nei loro paesi d'origine?
Ovviamente per Diamante, come oggigiorno per questi ragazzi, non sarà così facile trovare il lavoro che la sua famiglia si aspetta, anzi tutt'altro: all'inizio sarà pressoché impossibile e anche quando dopo un paio di anni in America troverà un impiego nelle ferrovie, questo sarà un lavoro fisicamente devastante, che lo lascerà con una malattia cronica e tutt’altro che ricco. Per questo nel cuore di Diamante resta soprattutto l’Italia, non tanto il sogno americano; dell’America, Diamante conserverà più che altro una grande delusione.
Poi si fece triste e disse in tono malinconico che non sarebbero mai dovuti venire. Questo era un posto bruttissimo, non era vero niente di quello che si raccontava dall'altra parte. L'unica differenza fra l'America e l'Italia erano i soldi: i soldi qui c'erano, ma non erano destinati a loro. Anzi, loro servivano proprio per farli fare a qualcun altro. Dovevano tornare subito in Italia. Lui, se avesse potuto, sarebbe partito anche adesso. Solo che non poteva. A volte è difficile tornare indietro. Dall'altra parte, tutti credevano che fosse diventato ricco.




Molto diverso è il personaggio di Vita -che, incontrato dopo la lettura della saga della Ferrante, ricorda inevitabilmente il personaggio di Lila. Entrambe le due ragazze sono di estrazione estremamente umile, ma dotate di un grande ingegno e di una grande vitalità; sebbene Vita non abbia alcuna fascinazione verso l'istruzione (a differenza di Lila), è una ragazza capace di cavarsela in ogni situazione e che incarna il sogno americano perché in America trova se stessa e trova la libertà che non avrebbe mai potuto avere nel minuscolo paesino della Sicilia dal quale proviene. 
Mentre Diamanti quindi allo scoppiare della prima guerra mondiale sta ancora sognando l’Italia, deluso dall’America dove è cresciuto, Vita si sente appartenere all’America e sarà qui che poi si realizzerà come donna.

Il romanzo della Mazzucco non è affatto lineare: abbiamo infatti dei grossi salti temporali, che a partire dal 1903 ci fanno incontrare i protagonisti una volta adulti, una volta ragazzi e poi infine di nuovo bambini, nella notte dell’inizio del viaggio verso l’America. 

Questo in qualche modo ci fa seguire il loro percorso nell'arco di un’intera vita, ma lo fa in modo discontinuo,  tanto che la più recente informazione su ciò che è stato di Vita e di Diamante il lettore la ricava più o meno verso la metà del libro. Questo andamento non è sempre semplice da seguire, e in più vi si aggiungono delle intromissioni dell’autrice che non ho trovato sempre piacevoli. Mentre infatti seguivo le vicende dei personaggi, l’intervento della scrittrice con fonti documentarie, statistiche oppure citazioni di articoli di giornali dell’epoc,a in qualche modo mi interrompeva e disturbava nella lettura, nonostante ne abbia apprezzato la capacità di conferire un maggiore realismo ai fatti raccontati.
Negli anni Quaranta, mi spiegò un giovane dottore, la maggior parte dei ricoverati erano italiani. Gli italiani erano la minoranza etnica più miserabile della città. Più miserabili degli ebrei, dei polacchi, dei rumeni e perfino dei negri. Erano negri -mi disse - che non parlavano nemmeno l'inglese.
Oltre alle vicende di Diamante, di Vita, di Agnello -che è il padre della ragazza, dei loro numerosi i cugini che si trovano come loro a New York e di altre persone che incrociano il loro cammino, all’interno del libro della Mazzucco troviamo anche la storia degli emigrati italiani negli Stati Uniti all’inizio del Novecento.
Per un'intera generazione di ragazzi l'America non fosse una meta né un sogno. Era un luogo favoloso e insieme familiare - dove si compiva, con il consenso degli adulti, un rito di passaggio, un rito di iniziazione. Altre generazioni ebbero il servizio militare, la guerra in trincea, le bande partigiane, la contestazione. I ragazzi nati negli ultimi decenni dell'Ottocento ebbero l'America.
Vi troviamo gli appartamenti fatiscenti e sovraffollati, vi troviamo la criminalità organizzata -questa mano nera di cui molto si racconta soprattutto nella prima parte del libro, che fa brillare bombe, esplodere esercizi commerciali, che giustizia le persone per strada e colpisce specialmente appunto gli emigrati italiani, gli stessi che la gestiscono. 
Troviamo anche il pregiudizio che all’epoca colpiva i nostri connazionali emigrati, come oggi le vittime sono altri emigrati in Occidente: all'epoca nessuno desiderava affittare abitazioni agli italiani, nessuno aveva fiducia nelle loro capacità e quando possibile si cercava di sfruttarli al massimo e discriminarli. Questo aspetto è estremamente interessante, proprio perché reso molto umano dalle storie vissute in prima persona da Diamante e dagli altri membri della famiglia.

Nel complesso, "Vita" è un romanzo che mi è piaciuto, sebbene abbia trovato la sua struttura qualche volta un po’ dispersiva: i salti temporali non mi sono sembrati sempre costruiti nel modo migliore e talvolta si resta disorientati. 
Rimangono inoltre nel lettore numerose curiosità riguardo le esistenze di Vita e Diamante una volta cresciuti. Veniamo a conoscenza di alcuni avvenimenti, ad esempio scopriamo che entrambi si sono sposati, che entrambi hanno dato il nome dell’altro ai loro primogeniti, ma sappiamo anche che Vita ha sposato il cugino Geremia: come questo sia successo non riusciamo ad immaginarcelo per quanto ci è stato raccontato.
Sulla porta d'ingresso c'era la targhetta con inciso il suo - il loro nome. Le venne in mente che una delle ragioni per cui aveva sposato Geremia era perché portava in dote il loro duro nome - una sorta di sasso scagliato da una fionda.
Confesso che avrei desiderato qualche risposta in più, ma considerando i tanti buchi nella ricostruzione fatta dall'autrice è accettabile che non ogni particolare sia stato raccontato. Suo padre Roberto infatti è stato un uomo piuttosto silenzioso, di conseguenza ricostruire i percorsi di vita del padre di lui, Diamante, è stata un'impresa molto difficile, che ha richiesto all’autrice anche diversi viaggi negli Stati Uniti alla ricerca di prove documentali tutt’altro che semplici da reperire.

Una perplessità mi è nata dopo aver letto che questo romanzo è stato accusato di plagio: la Mazzucco infatti avrebbe copiato interi brani da un'edizione di "Guerra e pace" di Tolstoj. Non avendo io mai letto questo classico non sono stata in grado di accorgermene, ma non sarebbe certo un punto a suo vantaggio. 
Nonostante ciò il libro è stato molto apprezzato ed ha anche vinto il Premio Strega nel 2003; anche a me è piaciuto, e lo consiglio se siete interessati al tema dell'emigrazione italiana del secolo scorso: un argomento che io trovo molto stimolante ma del quale ho letto, finora, assai poco. "Vita" è comunque un ottimo punto di partenza!

lunedì 11 novembre 2019

Canta, spirito, canta

Jesmyn Ward è un'autrice pluripremiata: unica donna ad aver vinto per due volte il National Book Award, racconta gli Stati Uniti del Sud (in particolare il Mississippi di cui è originaria), l'uragano Katrina e le sue conseguenze; i suoi protagonisti sono afroamericani che non se la passano troppo bene. Quella ambientata a Bois Savage è una trilogia che inizia con "Salvare le ossa", romanzo molto crudo che ho letto e apprezzato nel 2018 -ne trovate qui la recensione.



Titolo: Canta, spirito, canta
Autrice: Jesmyn Ward
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: Sing, Unburied, Sing
Traduttrice: Monica Pareschi
Casa editrice: NN Editore
Pagine: 266



LA STORIA

Jojo ha tredici anni. I suoi punti di riferimento sono i suoi nonni materni, Mam e Pop; lei sta morendo, divorata dal cancro, mentre lui è l'unico a poter dare un esempio da seguire al nipote. Leonie, la madre di Jojo, infatti ha problemi di droga e di dipendenza affettiva da Michael, padre di Jojo e della piccola Kayla -che nel fratello maggiore e nei nonni trova il suo universo.
All'inizio del romanzo Michael sta per uscire dal carcere; Leonie carica allora in auto Jojo e Kayla per un rocambolesco viaggio dove emergono i problemi del presente, ma anche i fantasmi del passato.

Illustrazione di Tomer Hanuka
COSA NE PENSO

La scrittura di Jesmyn Ward è potente; l'autrice delinea personaggi che spezzano il cuore, Esch in "Salvare le ossa" lo era stata ma il protagonista di questo romanzo lo è ancora di più: impossibile non provare tenerezza per Jojo, padre bambino della sua sorellina, figlio trascurato da una madre troppo giovane ed instabile, profondamente amato dal nonno Pop che vorrebbe poterlo difendere da tutto.
Mi racconta le storie. Le storie di quando mangiavano le radici di tifa che il loro papà andava a raccogliere dalla palude. Le storie di quando sua mamma e la sua famiglia usavano il muschio spagnolo per i materassi. A volte mi racconta la stessa storia anche tre o quattro volte. Quando racconta, la sua voce è come una mano tesa che mi accarezza la schiena, e posso schivare la paura di non riuscire mai a stare a testa alta come lui, a essere sicuro di me come Pop lo è di se stesso.
Jojo è sensibile, talmente sensibile che i capitoli raccontati dalla sua voce sono toccanti e dolorosi, mentre confesso di aver provato un certo fastidio leggendo il punto di vista di Leonie, egoista, incapace di crescere ed assumersi le proprie responsabilità di madre -anche se proprio questo la rende un personaggio credibile e ben costruito.
"Sono stufa di questa merda" dico io. Non so perché lo dico. Forse perché sono stufa di guidare, stufa della strada che si allunga davanti a me all'infinita, con Michael sempre all'estremità opposta, non importa quanti chilometri faccio, quanto mi spingo lontano. [...] Forse perché vorrei che venisse a rannicchiarsi contro di me, che si facesse proteggere da me invece che da suo fratello. Forse perché Jojo nemmeno mi guarda, tutta la sua attenzione è per il corpo che ha tra le braccia, quel piccolo essere che sta cercando di consolare, mentre la mia è altrove. Il mio amore materno: incostante, come sempre.
La terza voce narrante è poi quella di Richie, che insieme a River (il fratello defunto di Leonie) è l'elemento di rivoluzione nel nuovo volume della trilogia di Bois Savage: mentre "Salvare le ossa" è un romanzo intriso di verità, con l'incombente uragano Katrina e la concretezza della terra, dell'acqua e del sangue, qui ritroviamo gli stessi elementi mescolati con una particolare percezione dei personaggi che li mette in comunicazione con gli spiriti di chi non c'è più, in un realismo magico che mi ha ricordato molto "Amatissima" di Toni Morrison.
Abbraccio Pop come abbraccio Kayla. Lui affonda la testa tra le ginocchia, gli trema la schiena. Rimaniamo chini l'uno sull'altro, mentre Richie diventa sempre più scuro, finché non è che un buco nero in mezzo al prato, come se avesse assorbito tutta la luce e tutto il buio di quei chilometri, di quegli anni, finché non è altro che nero combusto, e poi non è più. Al suo posto c'è un'aria soave e sole giallo e polline portato dal vento, e io e Pop abbracciati nell'erba. Tra i brontolii, gli sbuffi, i guaiti, gli animali si stanno calmando. Grazie, dicono. Grazie grazie grazie, cantano. 
Come nel capolavoro dell'autrice premio Nobel, c'è anche in "Canta, spirito, canta" il passato di soprusi a cui i neri sono stati sottoposti negli Stati Uniti, in particolare negli stati del Sud; c'è la violenza dei bianchi che non fa distinzioni tra adulti e bambini quando la loro pelle è del colore sbagliato, e spinge a commettere azioni che non si sapranno mai perdonare a se stessi.
Rispetto a "Salvare le ossa", questo secondo volume della trilogia potrà piacere ad un pubblico più ampio: rispetto a Esch, Skeetah e gli altri (che qui appaiono, per un attimo, strizzando l'occhio a chi ha già letto Jesmyn Ward) è più immediato provare empatia per Jojo, affezionarsi a Mam e Pop, sentirsi parte della loro famiglia.
"Mi odia" dico. "No, ti vuole bene. Solo non sa dimostrarlo. E il suo amore per se stessa e il suo amore per Michael... be', è ingombrante. La confonde". [...] Mam mi guarda dritto in faccia."Tu non avrai mai quel problema".
Confesso di aver preferito "Canta, spirito, canta" anche perché l'ho trovato, seppure intenso ed emotivamente impegnativo, meno disturbante; ne sono stata rapita senza provare la repulsione che avevo avvertito tra le pagine del volume precedente. 
Vi consiglio dunque questo titolo anche come romanzo singolo, dal momento che la continuità con il precedente non è necessaria, e le tematiche del secondo potrebbere esservi, come a me, più congeniali. 

lunedì 4 novembre 2019

Amatissima

Terza lettura per la sfida dello scaffale strabordante a cui partecipo nel disperato tentativo di ridurre la quantità di libri non ancora letti che invadono ogni centimetro delle mie librerie. Da molto avevo acquistato questo titolo, che avevo affrontato su consiglio della professoressa di Antropologia ai tempi dell'università; mi aveva colpita come uno schiaffo in pieno viso, e a distanza di anni sentivo di doverlo rileggere. Finalmente mi sono decisa a farlo.



Titolo: Amatissima
Autrice: Toni Morrison
Anno della prima edizione: 1987
Titolo originale: Beloved
Casa editrice: Frassinelli
Traduttore: Giuseppe Natale
Pagine: 410



LA STORIA

Le protagoniste di questo romanzo sono madre e figlia, Sethe e Denver. Vivono nel diciannovesimo secolo negli Stati Uniti; Sethe è stata una schiava per più di metà della sua vita ed è riuscita a sfuggire ai suoi padroni solo dopo aver subito atroci sofferenze; ha portato con sé i propri figli sino a Cincinnati, ma non è riuscita a sfuggire ai fantasmi del suo passato, che non hanno mai smesso di perseguitarla.
«Quando le cose morte tornano in vita, fanno sempre male.»
COSA NE PENSO

Il romanzo "Amatissima" vinse il Premio Pulitzer nel 1988, e la sua autrice, purtroppo recentemente scomparsa, fu insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1993. Già da queste due informazioni è evidente come la qualità della scrittura in "Amatissima" sia eccellente, e che difficilmente deluderà i lettori.

Si parla di schiavitù, in "Amatissima", e si parla di libertà. Si parla di quanto gli schiavi abbiano dovuto subire negli Stati Uniti dell'800, senza risparmiare al lettore alcun dettaglio delle atrocità a cui sono stati sottoposti: frustate, strumenti di tortura, roghi, stupri, gabbie sotterranee solo per citarne qualcuno. 
Due o tre mesi. Era più o meno quello il periodo massimo che resisteva in un posto. Dopo l’esperienza del Delaware e, ancora prima, ad Alfred, in Georgia, dove dormiva sottoterra e scivolava fuori, alla luce del sole, al solo scopo di spaccar pietre, andarsene quando gli pareva era l’unico modo per convincersi che non doveva più starsene sempre incatenato a dormire, pisciare, mangiare o pestare con la mazza.
Alla protagonista Sethe nulla è stato risparmiato: sulla sua schiena c'è un albero, l'insieme delle cicatrici lasciatele da una frusta; degli otto figli che ha partorito, soltanto Denver è ancora accanto a lei nel tempo della libertà -ed è una ragazza insicura, che vive rinchiusa nella casa al 124, in funzione della madre e del suo ingombrante passato.
«Scusa tanto, ma non sopporto nemmeno una parola contro di lei. Ci penso io a punirla. Tu lasciala stare.» Rischioso, pensò Paul D, molto rischioso. Per una ex schiava, amare a quel modo era pericoloso, soprattutto se l’oggetto dell’amore erano i suoi figli. La cosa migliore da farsi, lo sapeva, era amare un pochino, amare tutto, però solo un pochino, così quando gli spezzavano la schiena, o lo ficcavano in un sacco di iuta, be’, forse restava un po’ d’amore per chi veniva dopo.
Il romanzo di Toni Morrison è infatti una storia familiare, dove tre generazioni condividono una casa, dopo aver ottenuto a caro prezzo la libertà. Al 124 infatti hanno vissuto Baby Suggs (la madre dell'unico uomo che Sethe abbia amato, e da cui sia stata amata), Sethe e Denver; è qui che il passato di Sethe torna a bussare alla porta e la obbliga a confrontarsi con ciò che si è lasciata alle spalle per poter sopravvivere.

«L’ho fatta io, quella canzone», disse Sethe. «L’ho fatta io e la cantavo ai miei bambini. Quella canzone non la conosce nessun altro, solo io e i miei bambini.» Amata si voltò a guardarla. «Io la conosco», disse.
Sethe è una donna spezzata da ciò che ha subito, da tutto ciò che le è stato portato via: l'amore, i suoi figli, la sua integrità fisica e morale. Sethe è il simbolo dell'orrore della schiavitù, di ciò che i bianchi hanno inflitto ai neri pensando che fosse un loro diritto, credendosi superiori. Sethe rappresenta una pagina di storia che è necessario ricordare, che è necessario raccontare -anche perché i tempi delle battaglie per i diritti civili non sono affatto trascorsi da molto. 
ogni accenno alla sua vita passata le faceva male: in quella vita tutto dava dolore o era andato perduto. Lei e Baby Suggs, senza neppure avere bisogno di parlarne, si erano trovate d’accordo sul fatto che non c’erano parole per descriverlo. Alle domande di Denver, Sethe dava sempre delle risposte brevi, oppure divagava fornendo delle fantasticherie incomplete. Perfino con Paul D, con cui aveva condiviso in parte quello stesso passato e con cui poteva parlarne perlomeno con una certa tranquillità, il dolore era sempre lì – come all’angolo della bocca, tutto piagato, nel punto in cui prima c’era il morso.
Toni Morrison costruisce un romanzo attorno a Sethe, anche se si è ispirata ad un terribile fatto di cronaca, in cui una donna di nome Margaret Gardner, in fuga dalla schiavitù, aveva compiuto la stessa dolorosissima scelta che in "Amatissima" compie la sua protagonista. Difficile non rimanere sconvolti, una volta intrapresa la lettura di questo romanzo; impossibile restare indifferenti a ciò che ci racconta un'opera di finzione, ma è stato del tutto reale.
"Amatissima" è un romanzo duro, che ripercorre passi tra i più oscuri della storia americana, le peggiori violazioni dei diritti umani; è un romanzo che contiene grandi, terribili verità ma le mescola al realismo magico dando vita ad un insieme perfettamente calibrato, poetico ed appassionante.
Ho iniziato a scoprire questa scrittrice da quella che è probabilmente la sua opera più famosa, ma di una cosa sono certa: è stato solo l'inizio, e se il buon giorno si vede dal mattino... mi aspettano molte altre ottime letture.