lunedì 31 agosto 2020

I testamenti

Impossibile leggere “I testamenti” senza aver letto precedentemente (e magari riletto a distanza ravvicinata) “Il racconto dell’ancella”: questo non è un romanzo autonomo, che può essere letto e apprezzato da solo. Ne “I testamenti” infatti torniamo a Gilead, stato teocratico che viene contestualizzato e approfondito nel seguito di recente pubblicato da Margaret Atwood.



Titolo: I testamenti
Autrice: Margaret Atwood
Anno della prima edizione: 2019
Titolo originale: The Testaments
Casa editrice: Ponte alle Grazie
Traduttore: Guido Calza
Pagine: 502




Anche parlarvi di questo romanzo senza parlarvi del precedente è davvero difficile, perché il contenuto dei due è strettamente connesso. Le vicende de “I testamenti” si svolgono però una quindicina di anni più tardi, e la protagonista della quale eravamo tanto curiosi di conoscere il destino non comparirà tra queste pagine: di June-Difred cogliamo qualche notizia, ma la donna non partecipa a ciò che avviene ne “I testamenti”. 

Un altro intreccio molto interessante è quello tra “I testamenti” e la serie televisiva “The Handmaid’s Tale”, le cui tre stagioni erano già andate in onda (con la partecipazione di Margaret Atwood alla sceneggiatura) prima che questo romanzo venisse pubblicato. In qualche modo le storie sono collegate, o meglio: la prima stagione della serie televisiva è la trasposizione del romanzo “Il racconto dell’ancella”, le cui vicende proseguono nella seconda e terza stagione -e, si spera, nella quarta in arrivo. “I testamenti” è ambientato successivamente, e quindi mi aspetto che ad un certo punto la serie televisiva si ricongiunga in qualche modo con quello che è avvenuto sulla carta -nulla sembra impedirlo, al momento. 


Tre sono i punti di vista ne “I testamenti”, tre i narratori in prima persona all’interno di questo romanzo. Anche qui la Atwood ricorre all’artificio del manoscritto ritrovato, o meglio delle testimonianze raccolte ed esposte a distanza di tempo in un convegno sulla teocrazia di Gilead, com’era stato ne “Il racconto dell’ancella” per i nastri contenente la voce di Difred.
I punti di vista sono di un personaggio ben noto dall’opera precedente, una cattiva -uno dei personaggi, devo ammetterlo, che più mi ha nauseata in tutta la mia vita di lettrice: Zia Lydia. Ne “I testamenti” approfondiamo il suo passato, la vediamo diventare l’aguzzina che abbiamo visto maltrattare le ancelle; certo impariamo a conoscerla, ma non per questo proviamo per lei un briciolo di simpatia o compassione. La costruzione del personaggio è comunque davvero interessante e ben fatta; aggiunge ad una figura già molto potente nel precedente romanzo una tridimensionalità che la rende ancora più degna di nota.
Nella mia famiglia nessuno aveva mai frequentato l’università, e mi avevano disprezzata per esserci entrata grazie alle borse di studio e ai lavoretti serali. È una cosa che ti tempra. Diventi caparbia. Non avevo nessuna intenzione di farmi eliminare, se appena fossi riuscita a evitarlo.
Gli altri due punti di vista sono quelli di due adolescenti: Agnes, cresciuta a Gilead, e Daisy, cresciuta in Canada. La loro identità non è sorprendente per chi ha guardato le stagioni della serie TV “The Handmaid’s Tale”: lo spettatore collegherà immediatamente le loro voci a quelle di due personaggi che hanno già fatto la loro comparsa (anche se ad un diverso punto delle loro vite). 


Le testimonianze di Agnes e Daisy tuttavia non sono convincenti come il punto di vista di Zia Lydia: le loro voci sono immature, e questo potrebbe imputarsi anche all’età, ma soprattutto non sorprendono, e coinvolgono il lettore fino ad un certo punto. Insieme a loro, relegata ad una posizione raccontata in terza persona, c’è però Becka: e lei è a mio parere l’adolescente più interessante, quella che comprende meglio il mondo che la circonda, quella attraverso i cui occhi possiamo metterlo in discussione e analizzarlo meglio.
«Dio non è come raccontano» rispose. Aggiunse che si poteva credere in Gilead o credere in Dio, ma non in entrambi.
Devo ammettere che la trama de “I testamenti” non è stata per me appassionante quanto avrei sperato: c’è parecchia azione, questo è vero, e ci sono trame e complotti, ma non riescono a tenere il lettore col fiato sospeso. L’aspetto vincente dell’opera non è tanto l’avventura che si propone di raccontare quanto l’approfondimento e l’espansione della repubblica di Gilead, che diventa così sempre meglio costruita e più concreta -e credo che sia questa la ragione che ha spinto la maggior parte degli appassionati a correre in libreria a procurarsi il romanzo appena uscito.
Gilead ha un problema di lunga data, mio lettore: per essere il regno di Dio sulla Terra, ha un tasso di emigrazione imbarazzante. Il lento deflusso delle Ancelle, per esempio: ne sono scappate troppe. Come ha rivelato l’analisi del Comandante Judd sulle fuggitive, non facciamo in tempo a scoprire e bloccare una via di fuga che subito se ne apre un’altra.

Nel complesso quindi è un libro che vi consiglio come lettura complementare al precedente testo della Atwood e alla visione della serie TV: come opera singola credo che non possa avere vita propria, dipendente com’è dal volume che lo precede. Se dunque siete, come me, in trepidante attesa della quarta stagione… ingannare il tempo leggendo “I testamenti” potrebbe essere un’ottima idea! 

lunedì 24 agosto 2020

Le correzioni

“Tutte le famiglie felici sono uguali, mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. L’incipit di Anna Karenina è perfetto per descrivere “Le correzioni”, perché i Lambert non sono certo una famiglia felice.



Titolo: Le correzioni
Autore: Jonathan Franzen
Anno della prima edizione: 2002
Titolo originale: The Corrections
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Silvia Pareschi
Pagine: 718



I genitori, Alfred e Enid, lottano contro l’incipiente Alzheimer da cui lui è afflitto: Alfred vive in un mondo sempre più confuso, preda di allucinazioni, ormai incapace di controllare le proprie funzioni fisiologiche. Enid, sua moglie, sembra prendere i suoi sintomi sul personale, come un dispetto rivolto a lei, e ciò nonostante rifiuta di separarsi dalla casa di famiglia ormai poco funzionale e giorno dopo giorno accudisce il marito al meglio delle sue possibilità.
Nemmeno adesso Enid poteva fare a meno di amarlo. Forse specialmente adesso. Forse aveva sempre saputo, per cinquant’anni, che c’era quel bambino dentro di lui. Forse tutto l’amore che aveva dato a Chipper e Gary, in cambio del quale alla fine aveva ricevuto così poco, era stato soltanto un allenamento per il più esigente dei suoi figli.
Alfred e Enid hanno tre figli: Gary, Chip e Denise. Gary è il primogenito ed è quello che più di tutto ha seguito le orme dei suoi genitori, inseguendo il successo, la ricchezza ed avendo a sua volta tre figli. Naturalmente la facciata della sua esistenza perfetta nasconde ben altro, e Gary è molto lontano dall’essere un uomo soddisfatto della propria vita.
Ma ciò che gli riusciva più odioso era accorgersi di quanto lei lo odiasse. Gary avrebbe potuto mettere fine alla crisi in un minuto se non avesse dovuto fare altro che perdonarla; ma leggerle negli occhi quanto lei lo trovasse repellente lo faceva impazzire, gli avvelenava la speranza.

Chip e Denise non hanno raggiunto neanche un minimo della stabilità del fratello maggiore: entrambi si infilano in relazioni d’amore con persone sposate, e mentre Chip si ostina a scrivere una sceneggiatura per un film che con ogni probabilità non verrà mai girato Denise si afferma come chef di ristorante, se non fosse che le sue frequentazioni le mettono fin troppo spesso i bastoni tra le ruote. 
Chip è forse il più fragile dei due, ed è quello che meno di tutti sa riconoscere l’amore dei propri genitori -perché l’amore dei Lambert non è facile da percepire. 
Alfred si chinò sul piatto di Chipper e con un unico colpo di forchetta tirò su tutta la rutabaga lasciandone soltanto un boccone. Alfred amava quel bambino, e così si mise in bocca la purè fredda e schifosa e la spinse giù in gola con un brivido. – Mangia quello che resta, – disse. – Prendi un boccone di quell’altro, e poi avrai il dolce. – Si alzò in piedi. – Andrò a comprarlo, se necessario.

Enid e Alfred sono genitori esigenti, che spesso sottovalutano la propria progenie o si aspettano da loro che siano diversi da come sono in realtà. Sono genitori che amano e proteggono i loro figli, ma non sono capaci di esprimerlo e dimostrarlo, intrappolando così i tre in una dinamica perversa in cui cercano costantemente di essere all’altezza senza mai sentirsi tali. 
Era lo stesso problema che Enid aveva con Chip e persino con Gary: i suoi figli non erano intonati all’ambiente. Non volevano le stesse cose che volevano lei e tutti i suoi amici e tutti i loro figli. I suoi figli volevano cose completamente e vergognosamente diverse.
Le vicende dei singoli familiari si sviluppano su binari separati, ognuno alle prese con la propria esistenza: con un lavoro non proprio legale in Lituania Chip, con le sue vicende amorose e lavorative Denise, con il suo matrimonio che imbarca acqua Gary, Alfred e Enid in una crociera che rende più che mai evidente come i disturbi di Alfred non siano passeggeri e non si possano più ignorare. Le linee narrative si uniscono in occasione del Natale, la festa tanto attesa in particolare da Enid, che è consapevole del fatto che dopo quel giorno (quando tutti i Lambert, spera, si riuniranno alla stessa tavola) la sua vita dovrà cambiare.

Franzen ne “Le correzioni” scrive uno dei romanzi familiari più convincenti che abbia mai letto. Non è sempre scorrevole, questo va detto: ci sono digressioni sulle avventure lavorative di Chip in Lituania che non sono riuscite ad interessarmi, e anche il passato di Denise non è sempre appassionante. 
I Lambert però sono veri: di letterario hanno ben poco, mentre hanno le caratteristiche di persone in carne ed ossa, con le loro contraddizioni, le loro debolezze e i loro punti forti. Questo rende il romanzo un’ottima lettura, i cui capitoli (che si focalizzano ogni volta su uno o più personaggi) sono tenuti insieme dal filo delle “correzioni” del titolo, quelle che i Lambert hanno cercato di impartire a se stessi o ai propri figli, e che fanno capolino tra le pagine a collegare le tessere del puzzle. 
La loro indole li avrebbe spinti ad abbracciarlo, ma quell’indole era stata corretta.
“Le correzioni” è un romanzo che richiede tempo, e non è una lettura che consiglierei per un periodo stressante in cui si cercano libri che ci alleggeriscano i pensieri. Tuttavia per gli amanti dei grandi romanzi familiari che vogliano passare un po’ di tempo in compagnia degli stessi personaggi… I Lambert riserveranno certo qualche sorpresa

lunedì 17 agosto 2020

Presto torneremo a casa

L’Olocausto raccontato ai bambini: non è un tema semplice da trattare in modo non traumatico, e anche gli adulti non sono sempre a proprio agio ad accostarsi all’argomento. Forse l’opera più popolare in questo senso è il celeberrimo Diario scritto dalla giovanissima Anne Frank prima della sua deportazione: una testimonianza preziosissima -l’unica difficoltà che personalmente incontro è quella di decidere l’edizione più adeguata, esistendo diverse versioni del Diario, tradotte e pubblicate in tempi diversi.



Titolo: Presto torneremo a casa
Autori: Jessica Bab Bonde (testi), Peter Bergting (illustrazioni)
Anno della prima edizione: 2018
Titolo originale: Vi kommer snart hem igen
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Alessandra Albertari
Pagine: 95



“Presto torneremo a casa” è un fumetto che si propone di raccontare l’Olocausto ai bambini, e lo fa proprio dal punto di vista dei bambini. È organizzato in modo chiaro e preciso: si apre con una mappa dell’Europa all’epoca nazista sulla quale sono indicati chiaramente i nomi delle città citate nel volume e i campi di concentramento e di sterminio a cui erano destinate le vittime delle deportazioni. In chiusura vi sono poi una cronologia della Seconda Guerra Mondiale e un glossario dei termini più complessi adoperati nelle storie: questo aspetto lo rende a mio parere un testo molto adatto anche ad un’attività didattica.

Passiamo però alla storia, che come sapete è l’aspetto che mi preme sempre di più. Qui le storie sono sei, e sono raccontate in prima persona dai loro protagonisti: Tobias, Livia, Selma, Susanna, Emerich ed Elisabeth. Provenienti dalla Polonia, dall’Ungheria e dalla Romania, i sei erano bambini o preadolescenti quando la guerra e l’antisemitismo sconvolsero le loro vite. Furono costretti alla vita nei ghetti, ai treni merci, ai campi di concentramento; persero le persone che amavano, furono strappati alla loro infanzia e a tutto ciò che avevano conosciuto fino a quel momento.


Tobias, Livia, Selma, Susanna, Emerich ed Elisabeth (gli ultimi due sono fratelli) sono sopravvissuti, e per questo raccontano in prima persona le loro esperienze. Lo fanno in tavole crude, che mostrano l’orrore del Nazismo senza proteggere eccessivamente il lettore: sono convinta che sia giusto, perché è necessario conoscere certe mostruosità, sarebbe sbagliato addolcirle.
Le illustrazioni in “Presto torneremo a casa” sono davvero potenti, i colori cupi sui toni del grigio che rappresentano le scene nei ghetti e nei campi di concentramento e sterminio contrastano con quelli più vivaci che accompagnavano la loro vita di bambini liberi. Dolcissimi sono i ritratti che chiudono le storie, con poche righe a raccontare cosa ne è stato dei sei protagonisti dopo le terribili esperienze vissute: tutti sono entrati in Svezia come rifugiati e qui per un motivo o per l’altro sono rimasti, testimoni per le nuove generazioni. 

“Presto torneremo a casa” è infatti un progetto svedese, e la sua autrice ne illustra chiaramente le motivazioni nel prologo: troppe persone sono state indifferenti, troppe persone hanno voltato la testa dall’altra parte nella prima metà del Novecento, permettendo al Nazismo di prendere piede e permettendo che l’Olocausto avvenisse. Anche oggi troppe persone scelgono di voltare la testa, di essere indifferenti davanti alla sofferenza altrui: lo scopo di “Presto torneremo a casa” è fare sì che questo non accada, e spingere i più giovani a mettersi nei panni degli altri, per imparare che non è mai troppo presto per difendere ciò che è giusto. 


Nonostante sia espressamente pensato per un pubblico di lettori in età da scuola media inferiore, da lettrice adulta ho apprezzato moltissimo questo fumetto: sia perché il tema mi interessa sempre molto, sia perché l’aspetto grafico dell’opera è davvero riuscito ed emoziona quanto le parole dei protagonisti. Immedesimarsi in loro è assolutamente spontaneo, e le loro voci sono quelle di bambini autentici, rappresentati in modo credibile e non filtrati e rivisitati dalla lente di uno sguardo adulto.In sostanza… vi consiglio assolutamente di leggerlo! 

lunedì 10 agosto 2020

Cronache di un venditore di sangue

Della letteratura orientale conosco ben poco: leggevo spesso i romanzi di Banana Yoshimoto quando ero al liceo, ho letto qualche titolo di Murakami Haruki, ed è più o meno tutto qui, anche se ho in lista diversi titoli che mi incuriosiscono. Questo è uno dei primi autori cinesi ai quali mi avvicino, ed è stato un vero successo!



Titolo: Cronache di un venditore di sangue
Autore: Yu Hua
Anno della prima edizione: 1995
Titolo originale: Xu Sanguan Mai Xue Ji
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Maria Rita Masci
Pagine: 231



LA STORIA

Xu Sanguan è un uomo di umili origini, che vive nella Cina rurale e lavora in un setificio. Nel paesino dal quale proviene, vendere il sangue (atto che frutta un’ingente somma di denaro) è sinonimo di sana e robusta di costituzione; è grazie alla vendita del proprio sangue che Xu Sanguan sposa Xu Yulan, ed è vendendo il proprio sangue che per trent’anni resiste alle difficoltà della vita.


COSA NE PENSO

Nel romanzo di Yu Hua ci sono trent’anni di storia cinese: dalla fine degli anni ‘40 vediamo Xu Sanguan diventare uomo, sposarsi, avere tre figli, lo vediamo resistere alla carestia ed alla Rivoluzione Culturale con le sue pratiche di critica e di lavoro della terra, lo accompagniamo nell’invecchiamento.
Dagli occhi di Xu Sanguan osserviamo la Cina: quella delle campagne, dove le fabbriche scarseggiano e le superstizioni e la saggezza popolare si intrecciano al punto da avere più peso di qualunque informazione scientificamente provata -per esempio la convinzione di dover vendere il sangue soltanto a vescica colma.
Ora siamo nel 1958, l'anno della Comune popolare, del Grande balzo in avanti, del movimento per la produzione dell'acciaio, e che altro ancora? Al villaggio di mio nonno e del Quarto zio le terre sono state requisite. D'ora in avanti nessuno avrà più la proprietà della terra, che apparterrà tutta allo Stato, e se uno la vorrà coltivare dovrà prenderla in affitto.

La vita di Xu Sanguan non è semplice: ad una decina d’anni dal proprio matrimonio scopre che il suo primogenito, Felice Uno, è in realtà figlio del precedente corteggiatore di sua moglie; e sorge così un rapporto difficile, diviso tra l’umiliazione di essere considerato da tutti un cornuto e l’affetto sincero che prova per Felice Uno -che ci regala brani di grande dolcezza.
- Avete visto tutti ? Questo sangue esce da una ferita fatta con un coltello. D'ora in avanti, chi di voi... - e poi, puntando il dito sulla moglie di He Xiaoyong, - compresa tu, chi di voi oserà dire ancora che Felice Uno non è il mio vero figlio, lo prenderò a coltellate. Ciò detto, buttò via il coltello e prese Felice Uno per mano: - Torniamo a casa.
Per la sua famiglia Xu Sanguan è disposto a tutto, e tollera la vergogna di Xu Yulan esposta sulla pubblica piazza, additata di fornicazione dalle pratiche della critica comunista, con i capelli rasati e un cartello al collo; Xu Sanguan sopporta, non si sente mai superiore alla moglie, e nonostante le maldicenze non le volta le spalle
Darle da mangiare cose buone, - rispose Xu Sanguan indicandola, - vorrebbe dire assolverla. Invece cosi, dandole solo riso, continuo a criticarla... Mentre Xu Sanguan parlava con questa gente, Xu Yulan restava a capo chino, senza avere nemmeno il coraggio di masticare il riso che aveva in bocca. E solo quando si erano allontanati, ricominciava a masticare. Vedendo che nelle vicinanze non c'era nessuno, Xu Sanguan le disse a bassa voce: - Ho nascosto la pietanza sotto il riso. Ora non c'è nessuno, mangiane un boccone, svelta.

È integerrimo Xu Sanguan, e quando vende il sangue lo fa per altruismo: per permettersi il matrimonio prima, poi per sfamare la famiglia durante la carestia, e una volta cresciuti i figli venderà il sangue per accorciare il periodo di lavoro obbligatorio in campagna di Felice Due e per permettersi le cure per Felice Uno, che proprio in campagna ha contratto l’epatite. In cambio Xu Sanguan non chiede nulla; e ben poco riceve in effetti, dai figli quasi mai disponibili, sempre pronti al sarcasmo e a prendere le distanze. 
Solo una volta Xu Sanguan vorrebbe donare il sangue per se stesso, per concedersi il lusso di mangiare fegato di maiale con il vino di miglio caldo al ristorante; ed è in quel momento che Xu Sanguan, padre di tre figli ormai adulti e sposati, Xu Sanguan che è già nonno, ha i capelli bianchi e diversi denti mancanti si accorge di essere invecchiato, e che per lui non è più tempo di vendere il sangue.

Yu Hua racconta un’intera generazione attraverso Xu Sanguan: attraverso quest’uomo, per il quale è spontaneo provare empatia, ripercorre un’epoca e accompagna il lettore (specialmente se occidentale) in una dimensione lontana che d’un tratto ci sembra a portata di mano.
Yu Hua fa un evocativo ritratto di un uomo e di una nazione, nelle sue zone più povere e dimesse, e scrive un romanzo sorprendente ed istruttivo, che mi sento di consigliarvi di cuore. 

lunedì 3 agosto 2020

Caduto fuori dal tempo

David Grossman è uno dei miei autori del cuore, forse il mio preferito in assoluto. Ho letto gran parte della sua produzione -del più recente romanzo vi ho parlato qui; ho intenzione di recuperare anche i pochi volumi che ancora mi mancano, e anche di rileggerne alcuni altri.



Titolo: Caduto fuori dal tempo
Autore: David Grossman
Anno della prima edizione: 2012
Titolo originale: Nofel michutz lezman
Casa editrice: Mondadori
Traduttrice: Alessandra Shomroni
Pagine: 183



Dieci personaggi popolano queste pagine, nessuno di loro ha un nome proprio: tutti hanno perso i propri figli, bambini di pochi mesi, di pochi anni oppure giovani adulti. Ci sono un Centauro che si ostina a scrivere ed è impossibilitato ad allontanarsi dalla sua scrivania, il Duca del paese e sua moglie, una donna in cima ad una torre campanaria ed una avviluppata da reti da pesca, una levatrice, un ciabattino, un maestro di matematica, e il protagonista, l’uomo che cammina.
È lui che un giorno decide di lasciare la sua casa e mettersi in marcia finché non raggiungerà un luogo dove incontrare suo figlio, che è morto ragazzo, da soldato in un conflitto armato.
chi muore in guerra è chiamato “caduto”. E tu sei così: sei caduto fuori dal tempo, il tempo in cui mi trovo io ti scorre davanti.
In ognuno dei personaggi, le cui voci sembrano comporre il coro di una tragedia classica, c’è qualcosa di David Grossman. La somiglianza più evidente è senz’altro quella tra l’autore e l’uomo che cammina, perché il figlio dell’autore, come il figlio del personaggio, è morto in guerra: nel 2006, nel conflitto israeliano-libanese. 


È per elaborare questo lutto che Grossman scrive “Caduto fuori dal tempo”, e lo scrive alternando alla prosa la poesia: perché “la poesia è la lingua del mio dolore”, come ha dichiarato in numerose interviste. E gli riesce benissimo, la poesia come la prosa: con pochissime parole, con frasi spezzate, tutto il significato arriva dritto al cuore, asciutto e privo di abbellimenti come si addice al contenuto di quest’opera. 
In capo al mondo andrei con te, lo lo sai. Ma tu non vai da lui, tu vai altrove, e laggiù non verrò, non posso. Non verrò. È più facile andare che restare.
“Caduto fuori dal tempo” è un romanzo doloroso, uno tra i più dolorosi che abbia mai letto. È intriso di sofferenza, pagina dopo pagina la si respira, al punto che nonostante la sua brevità questa lettura mi ha richiesto diverso tempo per essere portata a termine. L’uomo che cammina e gli uomini e le donne che si uniscono al suo cammino soffrono terribilmente, intrappolati nel loro lutto, nella perdita che ha segnato per sempre le loro vite. Nonostante quel percorso serva proprio per elaborare quel dramma, per poter tornare con la mente ai ricordi senza sentirsi andare in pezzi e poter continuare a vivere in qualche modo, non è sollievo quello che trasmettono, né leggerezza: è dolore nella sua forma più pura, per me inimmaginabile. 
Gemono, cadono, si rialzano, si aggrappano gli uni agli altri, sostengono i dormienti, cadono loro stessi in preda al sonno, di notte, di giorno, girano intorno alla città, infaticabili, con la pioggia e il freddo o sotto un sole rovente. Chissà fino a quando cammineranno e cosa accadrà quando si riscuoteranno dalla loro follia. 
Non vi consiglio di avvicinarvi a “Caduto fuori dal tempo” a cuor leggero, improvvisando: forse è un romanzo che saprà essere di grande aiuto nel superare una tragedia come la perdita di un figlio, ma al tempo stesso è anche una lettura intensa, emotivamente molto impegnativa, che mette il lettore a dura prova. 


È stata una lettura difficile, sì: ma anche bellissima, e terribile, e significativa. È stato un incontro faccia a faccia con gli aspetti più dolorosi dell’esistenza, ma anche con un’opera che mette a nudo il suo autore come mai prima (ce n’era un accenno ne “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, dove per esorcizzare la paura di perdere Uri partito nell’esercito faceva compiere un viaggio ad una madre, per evitarle di apprendere della morte del figlio): quel soprannome, quell’Ui bambino che viene ricordato tra le pagine, quei mucchi di giocattoli e vestiti e zainetti e ricordi, è stato un po’ come entrare nella sua casa, nella sua mente. 
Sappiate a cosa andate incontro prima di leggere “Caduto fuori dal tempo”, dunque: ma una volta che vi sentirete pronti, leggetelo: perché è un’opera letteraria ed umana di enorme valore