mercoledì 24 febbraio 2021

Doppio sogno

Nei miei anni di studio mi hanno assegnato la lettura di numerose opere della letteratura tedesca. Da adolescente però ero nella mia fase ribelle e oppositiva, e così non sono riuscita ad apprezzarne quasi nessuna... Solo ora, a distanza di più di dieci anni dal diploma, la sto riscoprendo: e mi riserva davvero delle belle sorprese!


Titolo: Doppio sogno
Autore: Arthur Schnitzler
Anno della prima edizione: 1926
Titolo originale: Traumnovelle
Casa editrice: Adelphi
Traduttore: Giuseppe Farese
Pagine: 131


LA STORIA

Fridolin e Albertine sono due coniugi nell’Austria asburgica del primo Novecento. Lui è un medico, lei una madre e una moglie; una sera decidono di confessarsi una reciproca tentazione in seguito ad un ballo in maschera a cui hanno partecipato. Questo è l’avvio di un percorso che vedrà protagonista Fridolin, incerto sul destino della propria unione coniugale e tentato da una dimensione in bilico tra il sogno e la realtà...

COSA NE PENSO

"Doppio sogno" è un racconto ambientato nell’Austria del primo Novecento che racconta la possibile crisi di un matrimonio. La racconta alternando oniriche avventure di Fridolin alla realtà di Albertine che riposa nel suo letto e che rivela come una confessione i propri sogni al marito, incapace di accettarli. Quello di Albertine è l’unico sogno che viene davvero raccontato nel romanzo, il cui titolo scelto dalla traduzione italiana non è del tutto fedele all’originale -e nemmeno al suo significato.

Arthur Schnitzler è stato un corrispondente e conoscente di Freud, oltre ad essere egli stesso un medico che si è interessato di ipnosi ed inconscio. Proprio questi elementi della psicanalisi si riflettono nel romanzo "Doppio sogno", i cui capitoli affrontano proprio la dimensione della realtà conscia e dell’inconscio vissuto nei sogni dai suoi personaggi. 
"[...] la realtà di una notte, sì, non dico nemmeno quella di un’intera vita umana, rappresenti al contempo anche la sua più intrinseca verità». «E nessun sogno», sospirò piano lui, «è completamente sogno»."
"Doppio sogno" è un’opera estremamente simbolica dove i personaggi stessi incarnano degli archetipi: questo vale in particolare per il pianista Nachtigall (il cui nome significa "usignolo") che trasporta Fridolin in una dimensione molto lontana dalla sua quotidiana realtà, fatta di doveri professionali e coniugali. 
Altrettanto simbolico è poi il personaggio della donna travestita da suora, che Fridolin incontra in questa dimensione sospesa della villa in piena notte dove si svolgono rituali dai quali lui è di fatto escluso -anche perché vi entrato con uno stratagemma. Questa donna che compie il suo sacrificio per Fridolin, del quale non conosciamo né l’identità né le motivazioni, è la molla che porta il protagonista ad abbandonare la dimensione di medio conscio nella quale si è lasciato trasportare e lo riporta alla sua vita completamente reale. 
"Se anche la donna che egli aveva cercato, bramato – e per lo spazio di un’ora forse anche amato – fosse stata ancora in vita e avesse continuato comunque a vivere la sua vita, quello che giaceva là, dietro di lui nella sala dal soffitto a volte, sotto la luce delle vacillanti fiammelle a gas, ombra fra le ombre, privo di senso e di mistero come quelle... per lui rappresentava, non poteva rappresentare altro che il pallido cadavere della notte appena trascorsa, ormai destinato a un’irrevocabile decomposizione."
Il sacrificio della donna infatti è quello che ricorda a Fridolin le motivazioni per tornare a casa, per tornare alla sua reale moglie che è, in fondo, la donna che ha sempre voluto. Proprio per questo, nonostante trasporti il lettore in ambientazioni oniriche misteriose e difficilmente comprensibili e prenda il via da un matrimonio apparentemente in crisi a causa delle fantasie dei due coniugi, la novella di Schnitzler è in realtà un ricongiungimento, un ritorno alla dimensione coniugale.


Il romanzo di Schnitzler è breve ma anche estremamente complesso. Con Fridolin si compie un percorso nel quale il lettore è portato, come il protagonista, a chiedersi quanto ci sia di vero e quanto sia solo sognato; l’introduzione è a mio parere assolutamente necessaria per cogliere gli aspetti psicoanalitici e simbolici dei personaggi e delle vicende che si trovano a vivere. 
È qui che Schnitzler, da poeta, tenta la grande metafora: i sogni ad occhi aperti sono notturni balli in maschera in pieno giorno.
Personalmente ho trovato questa novella molto riuscita, appassionante proprio per quanto confonde il lettore e per quanto lo disorienta, ma anche per la capacità dello scrittore di rendere del tutto credibili gli avvenimenti che racconta. Non ero sicura che avrei saputo apprezzare quest’opera, a cui mi ero già avvicinata senza successo anni fa: questa volta invece ne sono stata capace e penso che coglierò l’occasione per approfondire la produzione di Schnitzler!

lunedì 22 febbraio 2021

L'illusione monarca

La letteratura latino-americana è una di quelle in merito a cui sono più ignorante, a causa di alcune esperienze premature che mi avevano lasciata piuttosto confusa e non mi avevano invogliata a continuare. Mi sono però ripromessa di superare questo limite!


Titolo: L'illusione monarca
Autore: Marcelo Cohen
Anno della prima edizione:
Titolo originale:
Casa editrice: Gran Via
Traduttrice: Francesca Lazzarato
Pagine: 135

LA STORIA

Su un’isola in un paese non identificato dell’America Latina c’è un carcere. In questo carcere si trovano dei prigionieri che sono dei criminali comuni, per esempio ladri, truffatori o spacciatori, insomma degli uomini che non hanno commesso dei reati particolarmente efferati e non hanno quindi riportato delle condanne particolarmente lunghe. Questo carcere affaccia sul mare, e i detenuti si trovano a trascorrere le loro giornate confrontandosi con la possibilità (e la tentazione) di evadere appunto via mare, oppure la prospettiva di attendere che il tempo passi sull’isola.

COSA NE PENSO

Il primo termine che mi viene in mente per parlare di questo breve romanzo di Cohen è "poetico", perché la scrittura dell’autore, meravigliosamente tradotta dallo spagnolo, è una lingua musicale, che passa dal presente al passato remoto, che riempie pagine di flussi di coscienza e descrive l’ambientazione in modo così vivido che ci si sentiamo anche noi davanti a quel mare.

Il mare è forse il vero protagonista del romanzo: è infatti il mare il personaggio con tutti, sull'isola, si trovano a confrontarsi quotidianamente. È al mare che vengono dedicati da Cohen alcuni dei passaggi più toccanti e che più fanno riflettere di tutto il romanzo.

Il mare è un’illusione di continuità che a ogni istante si disintegra in violenze. La sabbia stessa, per cominciare, è un cimitero che a mezzogiorno si intiepidisce. A volte, quando la marea cala, lo sguardo scopre la tempesta mortale rappresa nella quieta gelatina delle meduse spiaggiate. A parte simili reliquie, l’energia criminale del mare usa nascondersi negli odori che esala.

Il detenuto che seguiamo più da vicino per tutta la storia è Sergio, l'unico del quale ci viene fornito il punto di vista. Attorno a lui ci sono le guardie, fantocci armati sui bastioni; attorno a lui ci sono altri detenuti, per esempio i gemelli, il coreano molto agguerrito e violento, il santone che accerchia attorno a sé dei seguaci in senso religioso. Cohen riesce a delineare ognuno di loro e a raccontare il loro passato in modo molto evocativo con pochissime parole

Cohen racconta degli uomini fragili, dal passato sì criminale, ma dalla personalità spesso spezzata dall’isolamento e l’incertezza in cui si trovano. Uomini che lottano per la sopravvivenza, per il rispetto e per essere lasciati in pace dagli altri detenuti, e che quindi mostrano la loro debolezza al lettore, lontani dallo stereotipo invincibile del criminale.

I detenuti conoscevano bene, non per niente erano detenuti, quel cumulo di impotenze: la forzata apatia del venditore ambulante, lo stecchino all’angolo della bocca del tornitore disoccupato, l’indifferenza dello speculatore (alcuni detenuti avevano speculato, a modo loro), la brutalità dell’infermiere stanco, l’ultima banconota, la cruda desolazione delle farmacie e dei negozi di frutta e verdura. Alcuni avevano assaltato supermercati, e non per portarsi via semplici scatole di carne. O farmacie, all’occorrenza. E anche se adesso stavano pagando i loro crimini, in realtà li pagavano con un periodo di ozio sorprendentemente benigno. Ma gli avevano messo il mare davanti agli occhi. E dal mondo si erano portati dietro, insieme al ricordo della minestra insipida, inestinguibili nozioni sulla forza, la crescita, la capacità di superare sé stessi, la vittoria.

"L'illusione monarca" ha l'enorme pregio di suscitare numerose riflessioni sulla libertà e sulla cattività, ma anche e soprattutto sull’attesa. Molte sono le domande che restano in sospeso: non sappiamo molto di questo carcere, non si capisce quanto l’unico personaggio che sembra avere delle informazioni a riguardo sia veramente affidabile o quanto invece sia impazzito. Comprendiamo da alcuni dettagli che fuori da questo carcere si sta svolgendo una sorta di guerra civile, o comunque c’è una profonda instabilità politica; il perché questi detenuti comuni siano confinati su quest’isola rimane nel romanzo di Cohen un mistero irrisolto e il lettore può soltanto formare le proprie opinioni le proprie congetture a riguardo. Il messaggio che "L'illusione monarca" mi ha trasmesso è proprio che non sono le risposte ad essere importanti, quanto le domande che ci poniamo e l’obiettivo al quale ci portano; non è importante tanto conoscere la verità su ciò che ci circonda, quanto quella su noi stessi -ed è proprio questo il percorso che compie Sergio.

Nelle ore di bassa marea, sulla sabbia traslucida, copiavano immagini per mescolarle in enormi collage del mondo altrui. Quei disegni di un identico marrone erano sintesi della memoria e parodie del futuro sognato: le linee svelte di una Ferrari coupé, l’abito di una stella del cinema, una bottiglia di whisky, il mento categorico di un leader sindacale o una vacca svizzera si mescolavano a cerchi e trapezi, con verosimiglianza tanto maggiore in quanto la marea, inflessibile, li cancellava dopo poche ore, come un’emozione violenta cancella un semplice stato d’animo.

"L’illusione monarca" è stato per me un magnifico primo incontro con la letteratura argentina: ho amato la scrittura di questo autore e la capacità di trasportarmi altrove con la sua penna. Si tratta di una lettura breve ma intensa, che in conclusione mi sento di consigliare a tutti coloro che siano amanti di stili non troppo semplici e di storie dal significato più nascosto rispetto a quello che si percepisce alla prima lettura.

giovedì 18 febbraio 2021

Storia della nostra scomparsa

Per la prima volta ho letto un romanzo ambientato a Singapore; l'elemento che mi ha attirata è stato il tema, già incontrato in un fumetto del quale ho scritto di recente -"Le Malerbe".


Titolo: Storia della nostra scomparsa
Autrice: Jing-Jing Lee
Anno della prima edizione: 2019
Titolo originale: How We Disappeared
Casa editrice: Fazi
Traduttore: Stefano Tummolini
Pagine: 397


LA STORIA

I protagonisti di questa storia sono due: Kevin, un impacciato ragazzino delle scuole medie spesso vittima di bullismo, e Wang Di, una ormai anziana signora che è stata vittima delle violenze dell’esercito giapponese durante l’occupazione dell’isola di Singapore. Wang Di infatti è stata una "donna di conforto", rapita all’età di soli 17 anni, strappata dalla sua famiglia e costretta a soddisfare i soldati dell’esercito giapponese fino alla fine della guerra. La storia di Kevin e di Wang Di si intreccia quando l’amata nonna di Kevin muore e il bambino scopre riguardo al suo passato informazioni delle quali tutta la famiglia era all’oscuro...

COSA NE PENSO

"Storia della nostra scomparsa" è un romanzo meraviglioso, che dà voce ai suoi protagonisti a capitoli alterni. Alcuni sono infatti dedicati a Kevin che racconta in prima persona e altri a Wang Di, le cui vicende sono raccontate in prima persona quando ambientate nel passato ed invece in terza persona quando si tratta del giorno d’oggi. 
Quello che emerge da "Storia della nostra scomparsa" non è soltanto la storia di Singapore durante l’invasione giapponese e l’occupazione britannica, che hanno condotto la popolazione a soffrire la fame, i bombardamenti, la violenza, i rapimenti e gli stupri: è soprattutto l’incastro di due solitudini, ed è un incastro imperfetto e imprevisto, che non si svela come ci si potrebbe aspettare ad un certo punto della lettura.

Ci sono numerose ricerche all’interno di "Storia della nostra scomparsa": c’è Kevin che cerca la verità sul passato di sua nonna, e sull’identità propria e di suo padre; c'è Wang Di che rimasta sola alla morte dell’amatissimo marito cerca di colmare il vuoto. Al marito Wang Di non ha mai trovato il coraggio di raccontare integralmente la propria storia, e nemmeno quello per ascoltare la storia di lui. Il dolore infatti non la ha mai abbandonata: sopravvissuta a terribili angherie, si è ritrovata poi ad essere respinta e allontanata dalla propria famiglia, che era incapace di tollerare quello che aveva subito e che loro interpretavano come un’umiliazione. 
Restai lì seduta per quasi mezz’ora, assaporando ogni cucchiaiata della zuppa di patate dolci, fissando le impronte d’umido lasciate dalle loro ciotole sul legno. Chiedendomi che cosa fosse quel vuoto che sentivo nello stomaco, anche se ormai ero piena. Come una specie di nostalgia. Poi capii di cosa. Era la mia casa che avevo perso. l’idea che ne avevo. Il mio posto lì dentro. 

Il marito di Wang Di invece, pur consapevole di quanto vissuto dalla donna nonostante non ne abbiamo mai parlato apertamente in un matrimonio di oltre cinquant’anni, è un uomo che comprende l’importanza del silenzio e delle parole. L'uomo sa l’importanza di raccontarsi, ma anche quella di accettare l’incapacità della moglie di dare voce al proprio passato.
Alla veglia funebre, gli ospiti – per lo più vicini di casa – continuarono a ripeterle la stessa cosa: «Lo zio Chia ha avuto una lunga vita». E ogni volta, lei annuiva e rispondeva «Novantatré», come per assicurare agli altri, e a se stessa, che avevano ragione, che novantatré erano abbastanza. E intanto si chiedeva quanto tempo sarebbe riuscita ad andare avanti, senza di lui. In seguito, dopo la cremazione, mentre se ne stava stesa al buio, decise che novantatré anni non erano niente. Gliene aveva promessi di più.
C’è anche un’altra ricerca in "Storia di una nostra scomparsa", che ruota attorno ad un bambino nato proprio negli anni della seconda guerra mondiale. Alla fine del suo romanzo, un incredibile esordio di un’autrice assolutamente talentuosa e da tenere d’occhio, la scrittrice rievoca un bambino perduto che la sua famiglia sta ancora cercando; nel suo romanzo questo bambino c'è, e questo bambino viene trovato -ma non è proprio detto che colui che lo cerca sia la persona a trovarlo, e nemmeno che l’oggetto della ricerca sia davvero quello che si aspetta il lettore.
"Storia della nostra scomparsa" è un romanzo intenso, pieno di sentimento senza mai divenire retorico. È un libro che sa raccontare l’amore: l’amore tra coniugi, che sono andati in pezzi e che hanno saputo ricostruirsi tenendo insieme i cocci dei loro rispettivi dolori; sa raccontare l’amore di un nipote verso una nonna, che sia quella che lo ha cresciuto o quella che si trova sulla strada ad un certo punto della vita. "Storia della nostra scomparsa" sa raccontare la forza interiore di coloro che, privati di tutto, trovano Il coraggio per sopravvivere, per ricostruirsi una vita a dispetto dei giudizi altrui e delle cicatrici che si portano dietro. 
Il Vecchio girava la testa dall’altra parte ogni volta che lei tornava con qualche cianfrusaglia: una boccetta di vetro, una collezione di tappi di bottiglia. Infilava tutto nei pensili della cucina e nei cassetti sotto al letto o sopra all’armadio sghembo. Come per riempire gli angoli vuoti della loro vita, il silenzio che li separava, e togliere ogni spazio ai pensieri.

"Storia della nostra scomparsa" riesce a rendere benissimo entrambi i suoi punti di vista. L’autrice sa rendere credibili le voci di un preadolescente e di un’anziana signora: sembra di averli entrambi davanti agli occhi, sembra di ascoltare le voci e ad entrambi ci si affeziona dalle primissime pagine e si lotta con loro nella speranza di un lieto fine -che in qualche modo la scrittrice concede, ma lo fa in maniera coerente con la brutalità della storia narrata. 
“Oh”, disse il ragazzo, per niente stupito, come se già sapesse che così va il mondo, come se alla sua età (quanti anni poteva avere? Dieci? Undici?) si fosse già rassegnato alle delusioni, al fatto che certi dettagli non combaciano mai, che certe domande non trovano risposta, e non possiamo mai sapere ciò che ci riserva il futuro.
Ho amato questo libro, di cui sentivo parlare da mesi e che finalmente sono riuscita a leggere. L’ho amato e ho amato i suoi personaggi, ho amato la storia che racconta, il modo che ha di farlo, le lettere che inserisce all’interno del testo rendendolo ancora più sfaccettato e coinvolgente. Nonostante ai suoi protagonisti la scrittrice non conceda mai una risoluzione perfetta, una volta terminata questa lettura il lettore si sente in qualche modo completo: questa capacità trovo che sia propria soltanto delle storie migliori, quelle raccontate meglio e quelle che tutti dovrebbero leggere -proprio come questa.

lunedì 15 febbraio 2021

Il gioco di Gerald

Come ormai sapete molto bene Stephen King è uno dei miei scrittori preferiti, dei quali sto cercando di leggere l’opera omnia -anche se nel suo caso è particolarmente difficile, visto quanto è prolifico! Questa volta mi sono dedicata ad un'opera pubblicata all'inizio degli anni '90, considerata negli ultimi tempi soprattutto per l'uscita su Netflix del film che ne è stato tratto.


Titolo: Il gioco di Gerald
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1992
Titolo originale: Gerald's Game
Casa editrice: Sperling&Kupfer
Traduttore: Tullio Dobner
Pagine: 367


LA STORIA

Due coniugi, Jessie e Gerald, il cui matrimonio è messo a dura prova dal tempo e dalle differenze caratteriali, si trovano nella loro casa sul lago per passare una giornata in tranquillità. Gerald ha organizzato un gioco erotico con il quale divertirsi, ovvero ammanettare la moglie al letto; Jessie però cambia idea e, dal momento che il marito non la prende sul serio davanti al suo rifiuto, lo allontana con forza. Qui la situazione degenera, perché Gerald è colpito da un infarto e Jessie rimane ammanettata al letto, in una casa isolata e deserta, preda dei fantasmi della propria mente... e non solo.

COSA NE PENSO

"Il gioco di Gerald" non è un romanzo horror. Antepongo questa a qualunque altra riflessione, perché nella produzione di King c’è molto altro rispetto ai mostri, ai vampiri e alle creature di fantasia; "Il gioco di Gerald" è infatti un thriller psicologico in piena regola.

Qui la protagonista che si trova vivere una situazione di estrema difficoltà e a lottare per la propria sopravvivenza; il suo presente si alterna a numerosi flashback, che raccontano un episodio avvenuto molti anni prima, quando Jesse era soltanto una bambina. Nel 1963 infatti, il giorno in cui si verificò un’eclissi totale, la piccola fu vittima di un fatto terribile: questo ricordo la perseguita da tutta la vita. Anche se Jesse ha infatti cercato di rimuoverlo il più possibile, nel momento di massima crisi, in cui si trova a temere per la propria vita, il trauma riemerge. Stephen King è bravissimo a scrivere di traumi ed incubi: sa perfettamente come mettere sulla carta le paure più recondite dell’essere umano e materializzare i fantasmi del passato in qualcosa di molto concreto, proprio come succede a Jesse nella stanza in cui si trova. 

Esistono incubi che non scompaiono mai del tutto. In qualche angolo nascosto della sua mente, i bulli lo strapazzavano ancora in sala lettura, lo deridevano ancora della sua inettitudine ginnica all’ora di educazione fisica e c’erano certe parole, per esempio stupido e ridicolo, che facevano riemergere quei ricordi come se il liceo fosse finito solo ieri…

Nella camera della donna infatti appare un’ombra, una sorta di mostro dalle membra sproporzionate e dal sorriso spaventoso, che porta con sé una borsa colma di ossi umani e di anelli rubati alle sue probabili vittime. Per Jesse è difficilissimo sopportare questa visione, che anche per il lettore è piuttosto spaventosa; tuttavia proprio questa creatura sarà il colpo di scena del romanzo che io ho trovato il suo punto più riuscito.

Devo ammettere che "Il gioco di Gerald" non è entrato a far parte dei miei preferiti dell'autore: forse perché non mi sono affezionata a Jess come ad altri protagonisti, e al tempo stesso la staticità di questa ambientazione (nella camera da letto della casa sul lago) non è riuscita a togliermi il fiato come in altri romanzi. 

È innegabile però che Stephen King sappia come fare male al lettore, e lo fa in diverse maniere in questo romanzo: ogni lettore ha il proprio punto debole, e nel mio caso il nervo scoperto sono i personaggi animali -per esempio la scena che più mi aveva disturbato in It era stata legata a le torture atroci inflitte ad alcuni piccoli animali da uno dei cattivi del libro, appena adolescente. Ne "Il gioco di Gerald" c’è l’ex Prince, un cane abbandonato la cui solitudine e sofferenza vengono descritte da King in un modo che mi ha spezzato il cuore -e la conclusione riservata a questo personaggio non ha contribuito ad alleggerire la sofferenza. 

L’aspetto però sicuramente più delicato ne "Il gioco di Gerald" è quello degli abusi su minori, specialmente all’interno della famiglia. Mi sento di rivelarlo in questo articolo perché credo che si debba arrivare in qualche modo preparati alla lettura di certi argomenti, che potrebbero essere particolarmente disturbanti per un lettore e che vanno letti in maniera consapevole. King fa un ottimo lavoro nel raccontare queste violenze, perché descrive proprio le dinamiche più pericolose che avvengono in queste situazioni attraverso la colpevolizzazione della vittima stessa che per via della sua età non è in grado di elaborare in maniera corretta quanto si trova vivere e per questo riporta un trauma estremamente difficile da superare.

Le sembrava che solo gli adulti sapessero fondere le emozioni nelle maniere più stravaganti: se le emozioni fossero state pietanze, quelle degli adulti sarebbero state qualcosa come bistecche ricoperte di cioccolato, puré di patate con dentro pezzetti di ananas, fette di torta cosparse di peperoncino invece di zucchero. Aveva pensato, e non per la prima volta, che essere adulti sembrava più un castigo che un premio.

In conclusione ho trovato "Il gioco di Gerald" un romanzo riuscito, che tocca temi importanti e che allo stesso tempo è in grado di terrorizzare il lettore quanto basta, mentre si immedesima in Jesse ammanettata alla testata del letto. È un romanzo piuttosto breve per gli standard di Stephen King e, ne consiglio la lettura a tutti gli amanti dell’autore, anche se non suggerisco di iniziare da questo a fare la sua conoscenza!

giovedì 11 febbraio 2021

Suite francese

Una delle mie scoperte del 2021 è senza dubbio Irene Nemirovsky: autrice che a dire la verità avevo già avvicinato, ma attraverso un'opera minore, e che questa volta mi ha lasciata invece davvero folgorata. 


Titolo: Suite francese
Autrice: Irene Nemirovsky
Anno della prima edizione: 2004
Titolo originale: Suite française
Casa editrice: Adelphi
Traduttrice: Laura Frausin Guarino
Pagine: 415



LA STORIA

"Suite francese" è un romanzo meraviglioso, pur essendo incompiuto: quello che ci troviamo oggi fra le mani è costituito da due parti, la prima intitolata "Pioggia di giugno", la seconda "Dolce". 
Nella prima parte troviamo una descrizione corale degli abitanti di Parigi che cercano di sfuggire all’arrivo dei tedeschi in città nel 1941, e così raccolgono tutto quello che possono, caricano le automobili e cercano di allontanarsi dalla città che rischia di essere distrutta dai bombardamenti nel giro di pochi giorni. In "Dolce" invece troviamo i tedeschi che sono arrivati in un paesino della campagna francese, e vengono qui ospitati dai francesi che non hanno altra scelta se non accoglierli nelle loro case. 
«Ha mai sentito parlare, signora, di quei cicloni che infuriano nei mari del Sud? Se ho ben capito quello che ho letto, formano una specie di cerchio costellato di tempeste lungo i bordi ma con un centro immobile, tanto che un uccello o una farfalla che si trovassero nel cuore dell’uragano non ne soffrirebbero affatto, le loro ali non ne riporterebbero il minimo danno, mentre tutt’intorno si scatenerebbero le peggiori devastazioni. Guardi questa casa! Guardi noi stessi mentre gustiamo vino di Frontignan e biscottini e pensi a quello che sta succedendo nel mondo!».
Non bisogna concepire queste due opere come separate: ci sono infatti dei legami tra i loro personaggi. La prima parte si focalizza su personaggi perlopiù avidi, appartenenti all’alta borghesia francese se non per una eccezione (una coppia di coniugi di mezza età, i Michaud, il cui figlio è stato mandato a combattere nell’esercito francese e del quale attendono notizie -mentre il lettore attraverso i capitoli dedicati proprio al giovane Jean-Marie è a conoscenza di dove egli si trovi). Da notare come i Michaud, uniche figure positive di "Pioggia di giugno", portino il cognome di Cécile, che fu la bambinaia delle figlie di Irene Nemirovsky.
In "Dolce" invece ci troviamo ad avere a che fare con dei personaggi più umili, in gran parte contadini, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di questi giovani soldati tedeschi. 

Al centro di "Dolce" c’è anche un’attrazione, quella tra Lucille (ragazza che avevamo già conosciuto in "Pioggia di giugno" poiché aveva accolto in casa sua la coppia dei Michaud scappati da Parigi) e il giovane tedesco che abita in casa sua con lei e la suocera, Bruno. Bruno è un tedesco che suona il piano, è più colto e sensibile del marito di Lucille, prigioniero in Germania che la ragazza non ha mai amato; al tempo stesso però incarna l'esercito degli invasori, e quindi all'attrazione di Lucille si mescola una certa repulsione.


COSA NE PENSO

Irene Nemirovsky era una penna eccezionale: questo ambizioso progetto avrebbe dovuto essere costituito da cinque parti, non soltanto da due, ed è doloroso pensare che un’opera letteraria sia stata stroncata sul nascere dalle deportazioni e dalla seconda guerra mondiale. L’autrice infatti racconta in "Suite francese" quello che le sta accadendo attorno, quello che vede man mano che la guerra avanza, ed è consapevole del fatto che per lei le cose non si metteranno bene essendo di origini ebraiche.

"Suite francese" è un romanzo pieno: è pieno di sentimenti, di personaggi costruiti alla perfezione nel giro di pochissime pagine, che l’autrice rende a tutto tondo descrivendone i tratti fondamentali e dando vita a dei dialoghi indimenticabili, talvolta ironici nonostante la drammaticità della situazione. 
Il vecchio aveva un modo alquanto irritante di non precisarne mai l’ammontare. Quando una pietanza non gli era piaciuta o i bambini facevano troppo chiasso, usciva all’improvviso dal suo torpore e diceva con voce flebile ma chiara: «Lascerò cinque milioni ai Piccoli Redenti». Seguiva un penoso silenzio.
In "Suite francese" trova spazio l’amore, trova spazio la resistenza, e trova spazio soprattutto l’umanità che non viene negata neanche ai soldati tedeschi, così pericolosi per la stessa scrittrice, che tuttavia riesce a riconoscere in loro dei giovani fragili che vorrebbero in gran parte solo riavere la propria vita in tempo di pace.
In tutto il paese, nei caffè, nelle case che avevano occupato, quanti tedeschi, in quel momento, stavano scrivendo alle mogli, alle fidanzate, e si separavano dalle loro proprietà terrene come si fa prima di morire? Lucile ne provò una profonda pietà.
L’edizione Adelphi che ho letto è corredata da un’appendice che ho trovato assolutamente fondamentale per comprendere appieno l'importanza di "Suite francese". 
Nella sua prima parte riporta gli appunti di Irene Nemirovksy durante la stesura del romanzo, che comprendono anche la pianificazione di quelli che avrebbero dovuto essere i tre volumi successivi: in qualche modo quindi il lettore riesce ad apprendere come la storia sarebbe finita se l’autrice avessi avuto il tempo di scriverla. È commovente oggi leggere questi appunti, sapere che Irene fosse consapevole dell’avvicinarsi della sua fine; troviamo questa consapevolezza anche nella corrispondenza riportata nell’appendice del testo, dove è riportata la lotta di suo marito, che cercò di muovere mari e monti pur di farla rilasciare una volta arrestata ma dovette poi subire la stessa sorte -anche lui fu assassinato nelle camere a gas immediatamente dopo il suo arrivo ad Auschwitz nel 1942. 


In appendice scopriamo anche che questo romanzo è arrivato fino a noi grazie al fatto che la scrittrice lo nascose nella valigia delle figlie, che riuscì ad affidare a una donna di sua fiducia: nonostante le enormi difficoltà fu in grado di salvare loro la vita.
Nella loro fuga, la tutrice e le bambine portarono sempre una valigia che conteneva fotografie, documenti e l’ultimo manoscritto di Irène, redatto con una grafia minuscola per risparmiare l’inchiostro e la pessima carta del tempo di guerra.
Questa appendice a "Suite francese" è commovente quanto e più del romanzo, perché ci permette di cogliere quanto la sua stesura nel mezzo di un conflitto, con la minaccia della deportazione e della morte che incombono, deve essere stata difficile e al tempo stesso fondamentale per la sua autrice, che in queste pagine ha riversato tutto ciò che poteva.
Ho amato "Suite francese" moltissimo: Irene Nemirovsky scriveva in un modo eccellente, con una penna tagliente, descrittiva, evocativa, che mi ha conquistata dalla prima all’ultima pagina e mi ha fatto venire voglia di recuperare tutti i suoi romanzi prossimamente. 
Non posso fare altro che consigliarvi quest’opera e suggerirvi di non farvi scoraggiare all’idea che sia incompleta, perché pur non arrivando ad una vera e propria conclusione è in realtà un romanzo che funziona già così, e di opere scritte in questo modo magnifico se ne incontrano davvero molto poche.

mercoledì 10 febbraio 2021

Le Malerbe

Le opere letterarie che mi insegnano qualcosa e che mi fanno venire voglia di imparare di più sono sempre le mie preferite: rientra a pieno titolo nella categoria questo fumetto, che tratta una pagina davvero poco nota della storia della Corea del Sud.


Titolo: Le Malerbe
Autrice: Keum Suk Gendry-Kim
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: Grass
Casa editrice: Bao Publishing
Traduttrice: Mary Lou Emberti Gialloreti
Pagine: 477


Yi Okseon è appena una ragazzina nella Corea del Sud degli anni ‘40, quando il suo Paese è una colonia del Giappone e la popolazione è ridotta allo stremo. Lei, i suoi fratelli e i suoi genitori soffrono la fame ed è per questo che Yi Okseon viene affidata, con l’inganno, ad un’altra famiglia che dovrebbe prendersene cura e mandarla a scuola: invece quella che è a tutti gli effetti una vendita si rivela per la protagonista di questa storia l’inizio dell’inferno.

Yi Okseon è una donna realmente esistita, oggi impegnata in numerose battaglie per il riconoscimento delle violenze che le comfort women hanno subito: è infatti questo il ruolo che Yi Okseon è stata costretta a ricoprire per i soldati dell’esercito giapponese, vivendo vittima di malattie e di abusi all’interno di un bordello in Cina dove era stata portata, ancora adolescente ed ingenua. 

Yi Okseon è oggi una donna anziana, che vive in una struttura di donne che hanno condiviso le sue esperienze del passato, perché il reinserimento nella società è stato per lei impossibile: rifiutata dalla sua famiglia, rinnegata dalle autorità -sono ancora in corso le battaglie della Corea del Sud per ottenere dal governo giapponese scuse e risarcimenti. La testimonianza di Yi Okseon, raccolta dall’autrice, diventa dunque portavoce del traumatico vissuto di migliaia di donne che ancora oggi vengono ascoltate a fatica -e a cui è importante dare risonanza anche in Occidente, dove della loro storia non si sa proprio nulla.


“Le malerbe” è dunque una biografia a fumetti, che segue Yi Okseon dall’infanzia alla terza età, ed illustra non solo il suo passato ma anche gli incontri nel presente con la scrittrice e disegnatrice che riversa sulle tavole la sua storia. L’intero fumetto è in bianco e nero, e spesso il nero prevale: l’oscurità delle violenze, della sporcizia, della povertà che sembra offuscare le immagini rappresentate, l’innocenza del bianco dei volti, dei cieli. Intere pagine sono lasciate a paesaggi dalle linee imprecise, sfumate, che ricordano campagne perse nella memoria, nella confusione di Yi Okseon che spesso nella sua esistenza non ha avuto che una vaga idea di dove si trovasse, ed aveva proprio per questo ancora meno possibilità di sfuggire ai soprusi che le venivano imposti. 

“Le malerbe” è una storia intrisa di sofferenza e di dolore, ed è inevitabilmente un libro toccante, che colpisce il lettore come uno schiaffo e lo mette davanti alla propria ignoranza -totale in materia, nel mio caso. Tuttavia è anche un fumetto privo di elementi retorici o scontati, ed è molto lontano dalla spettacolarizzazione della violenza nella quale sarebbe così facile cadere visto il materiale trattato: molto è stato celato o rimosso dalla memoria di Okseon, e sebbene molto si possa dedurre, non troppo ci viene mostrato

“Le malerbe” dunque è un fumetto che mi sento di consigliare a tutti i lettori in età adulta, nonostante si tratti senza dubbio di una  lettura impegnativa, tutt’altro che di intrattenimento: è però una storia necessaria dal momento che se ne conosce troppo poco, e che le donne come Yi Okseon meritano di essere ascoltate, in modo che dalla loro testimonianza non possano più ripetersi simili orrori sui corpi delle persone. 

lunedì 8 febbraio 2021

La lettrice testarda

Ci sono letterature di cui viene tradotto molto poco e ciò che ci arriva è prevalentemente pensato per un ampio pubblico. Un tentativo in questo senso è "La lettrice testarda", il cui titolo è in realtà piuttosto fuorviante: attraverso di esso, come spesso capita, la casa editrice ha cercato di renderlo interessante per il pubblico di lettori che si sa amano i cosiddetti "books on books", ovvero libri che parlano di libri. Va considerato infatti che il titolo originale non è quello che è stato scelto in traduzione, e questa scelta è stata fatta evidentemente proprio per ragioni di marketing!


Titolo: La lettrice testarda
Autrice: Amy Witting
Anno della prima edizione: 1989
Titolo originale: I for Isobel
Casa editrice: Garzanti
Traduttrice: Katia Bagnoli
Pagine: 165


LA STORIA

La protagonista di questa storia è Isobel, che incontriamo bambina nel primo capitolo del romanzo e giovane donna diciottenne che accompagneremo per un anno nei successivi. Isobel è una bambina che ama leggere, una lettrice appunto, come dice il titolo; ma è anche una bambina non amata da una madre fredda, una donna crudele che la confronta continuamente alla sorella e la sminuisce in qualunque cosa Isobel faccia. Una volta cresciuta questa mancanza di amore e di comprensione accompagnano Isobel, che continua a credersi una ragazza indesiderabile e cattiva senza accorgersi invece delle proprie buone qualità. 

COSA NE PENSO

"La lettrice testarda", ambientato nella Sydney degli anni '80, è un romanzo di formazione che parte dall’infanzia e arriva all'età adulta della protagonista. Il capitolo iniziale, quello dedicato all’infanzia, è forse il più riuscito: il lettore si trova immediatamente immerso nella storia, davanti ad una situazione familiare tutt’altro che rosea, grazie alla penna della scrittrice capace di indagare i rapporti familiari senza tralasciarne gli aspetti più scomodi. Questo primo capitolo è anche quello più coinvolgente, perché è impossibile non essere inteneriti da Isobel e provare compassione per lei, che è soltanto una bambina senza alcuna colpa e si ritrova ad avere a che fare con una madre che nessuno vorrebbe avere, una madre che naturalmente non le permette di formare in modo sereno la propria personalità.

Vide che la rabbia della madre era un animale vivo che la tormentava, e che lei, Isobel, rappresentava uno sfogo che le procurava sollievo; il fatto che non reagisse era una tortura.

 C’è poi un salto temporale di una decina di anni dopo il quale Isobel, ormai cresciuta, deve trovare il proprio posto nel mondo e, senza nessuno a sostenerla, lavora come impiegata in un ufficio di spedizioni e alloggia in una pensione. La sua vita sociale è scarna, composta dalle sue colleghe, dagli altri pensionati e poi da un gruppo di giovani che incontra in un caffè il sabato mattina, dove si reca a leggere i suoi libri -poiché la passione per la lettura non la ha mai abbandonata.

Frequentare l’istituto commerciale le aveva fatto conoscere il piacere di mangiare fuori. Di sedersi al caffè a mangiare fish and chips, con il libro aperto accanto al piatto, e leggere a proprio agio, senza nessuno che badasse a lei, sentendosi, per la prima volta da tempo immemorabile, davvero a casa.

Più di metà del romanzo non è esattamente avvincente: racconta sì di un personaggio che suscita la nostra comprensione, perché è molto sola e smarrita, però d'altra parte non è certo piena di sorprese. Anche l'aspetto della letteratura è sì presente, ma spesso marginale: Isobel si confronta con gli altri ragazzi del caffè sui libri che leggono (anche perché loro sono, a differenza di lei, studenti universitari) ma a parte qualche accenno a Dostoevsky, George Eliot e alcuni libri di poesie la lettura e la letteratura non sono componenti predominanti del romanzo. 

Un aspetto però sicuramente degno di nota è la scrittura di Amy Witting, un’autrice che in patria sembra essere piuttosto apprezzata: l'ho  trovata una bravissima scrittrice, dallo stile molto scorrevole, capace di tratteggiare in poche parole i personaggi e rendere interessante anche una storia che di coinvolgente ha ben poco. Ho poi scoperto che questo libro fa in realtà parte di una serie in patria, e avrebbe un seguito:   perciò giudicare la storia come a sé stante è forse anche un po’ prematuro -non so se però Garzanti abbia intenzione di pubblicare anche il seguito, che a me piacerebbe leggere per dare una conclusione alle vicende di Isobel. 

Personalmente avevo ricevuto questo libro in regalo, e devo ammettere che probabilmente da sola non l’avrei acquistato.  Sono però molto contenta di aver portato a termine la lettura e di aver approfondito la letteratura australiana, della quale in questi mesi ho per la prima volta letto alcuni testi. Il mio consiglio per voi è quello di non farvi ammaliare dal titolo in copertina, e non aspettarvi quindi un romanzo incentrato su biblioteche, librerie e testi fondamentali; avvicinatevi invece a "La lettrice testarda" soltanto se siete alla ricerca di un romanzo di formazione di una giovane donna di fine anni '80!

mercoledì 3 febbraio 2021

Amsterdam

Prima o poi anche un romanzo di McEwan doveva rivelarsi una delusione! Dopo averne apprezzati quasi una decina, ho letto questo titolo forse al momento sbagliato, senza averne davvero voglia, e questo ha pregiudicato la mia opinione in proposito.


Titolo: Amsterdam
Autore: Ian McEwan
Anno della prima edizione: 1998
Casa editrice: Einaudi
Traduttrice: Susanna Basso
Pagine: 181



LA STORIA

Vernon e Clive sono due amici di lunga data. Si frequentano sin da quando erano giovani, nonostante abbiano poi seguito carriere completamente diverse: Clive è un compositore affermato, Vernon invece un giornalista. In comune hanno anche l’amicizia con Molly, una donna coraggiosa e fuori dagli schemi, che viene purtroppo a mancare proprio nel giorno in cui questo romanzo ha inizio.

COSA NE PENSO

"Amsterdam" comincia come una storia d’amicizia. Seguiamo le vite dei due protagonisti, uomini inglesi di successo di mezza età, che compiangono la scomparsa dell’amica e con essa probabilmente la fine della parte più spensierata delle loro vite. In qualche modo la morte di Molly è la fine della giovinezza, o della stessa vitalità: i due infatti si promettono a vicenda che qualora capitasse loro ciò che è capitato a Molly (ovvero una lunga malattia che li rendesse incapaci di porre fine alle proprie vite) si aiuterebbero l’un l’altro a mettere fine alle reciproche sofferenze. 

Sappiamo così poco gli uni degli altri. Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero, dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente.

Questa promessa sembra essere sofferta in una forte amicizia come quella tra Clive e Vernon; tuttavia in questo romanzo l’amicizia viene sezionata, fatta a pezzi dai fatti della vita, dalle scelte compiute spesso per vigliaccheria e per egoismo dai due protagonisti. Non esce certo il ritratto di due personaggi integerrimi, per i quali è facile provare empatia: anzi sin dall’inizio ho provato un forte fastidio per i due uomini, una totale distanza nei loro confronti, un disinteresse verso i loro destini, ma la maestria con la quale McEwan ne racconta le vicende è riuscita comunque a tenermi attaccata alle pagine. 

Il ritmo dalla metà del romanzo in poi si fa più incalzante, ed è chiaro che i protagonisti si trovano su un piano inclinato che non li porterà a nulla di buono. Il finale ricorda dei classici di McEwan come "Cortesie per gli ospiti" o la rivelazione contenuta in "Espiazione" ed è folgorante, inaspettato, beffardo nei confronti dei suoi stessi personaggi verso i quali l’autore non prova alcuna pietà.

All'inizio della settimana, quando Vernon lo aveva chiamato per scusarsi di avergli mandato la polizia, - sono stato un idiota, troppo lavoro, una settimana da incubo, e così via - ma soprattutto quando gli aveva proposto di raggiungerlo ad Amsterdam per una riconciliazione ufficiale, Clive era riuscito a mantenersi accettabilmente cortese, ma aveva le mani che gli tremavano dopo aver messo giù la cornetta.

Degno di nota è il titolo: "Amsterdam" è la città nella quale solo parte della conclusione è ambientata, ed il titolo ne sottolinea l’importanza. Amsterdam è descritta tra queste pagine come una città ordinata, piacevole, una città dove le esistenze di Clive e Vernon ed il rapporto tra i due arrivano al proprio culmine. Aspettiamo a lungo Amsterdam tra queste pagine e sembra non arrivare mai; quando arriva pare una boccata d’aria fresca, ma si rivela invece qualcosa di completamente diverso.

Che conforto procedere su strade attraversate da vie d'acqua. Un posto così tollerante e aperto, così maturo: le splendide rimesse in legno e mattoni trasformate in appartamenti eleganti, i piccoli ponti cari a Van Gogh, gli arredi urbani discreti, e tutti quegli olandesi dall'aria disponibile e intelligente in giro in bicicletta con i bambini seduti dietro. Persino i bottegai parevano professori, e gli spazzini, jazzisti. Non doveva essere mai esistita una città più razionale di Amsterdam.

Devo ammetterlo: "Amsterdam" non mi è piaciuto quanto altre opere dell'autore, nonostante ne riconosca il valore (è stato anche premiato con il prestigioso Booker Prize nell'anno della sua pubblicazione). Ho riletto spesso dei romanzi di McEwan, sempre con soddisfazione; temo che invece questo finirà archiviato insieme agli altri a far parte della collezione, ma dubito che lo riprenderò in mano molto presto. Sono comunque consapevole del fatto di averlo letto probabilmente nel momento sbagliato, in cui la pulizia, la precisione e quella particolare crudeltà dello scrittore non erano ciò che andavo cercando in una storia; non escludo perciò di poterne avvertire di nuovo il richiamo in futuro!

lunedì 1 febbraio 2021

Da Haiti venne il sangue

La letteratura latinoamericana è una di quelle che conosco di meno e questa è stata la prima volta in cui mi è capitato di leggere un romanzo appartenente alla letteratura caraibica.


Titolo: Da Haiti venne il sangue
Autrice: Mayra Montero
Anno della prima edizione: 1992
Titolo originale: Del rojo de su ombra
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttore: Gianni Guadalupi
Pagine: 166


LA STORIA

"Da Haiti venne il sangue" è un romanzo ambientato tra Haiti e la Repubblica Dominicana, che ha al centro l’aspetto culturale del voodoo e della ritualità ad esso collegata. La protagonista è Zulé, una giovane ragazza dotata di straordinari, precoci poteri che le conferiscono all’interno del suo clan il ruolo di "padrona", cioè di capo spirituale a cui ci si rivolge per essere protetti o guariti. Sin dall’inizio di questo romanzo Zulé si appresta ad affrontare un uomo che lei stessa ha salvato molto tempo prima, ma che poi ha giurato di ucciderla...

COSA NE PENSO

Il romanzo è raccontato in modo molto avvincente, alternando flashback del passato della protagonista sin da quando era bambina ad Haiti e poi una giovane donna nella Repubblica Dominicana, alla preparazione di Zulé e tutti quelli che la circondano allo scontro finale. Si tratta di un romanzo piuttosto crudo, dove oltre a scorrere il sangue scorrono fiumi di rum, dove i corpi e la sensualità hanno molto spazio e dove si parla di sacrifici e di rapporto tra il mondo dei morti e quello dei vivi

 “Quando si è così vicini alla morte come te, non è bene ricordare i defunti che abbiamo amato molto. Tu sai che i morti attirano a sé.” Lei lo sa e ne ha sempre avuto paura. Soprattutto da bambina, quando faceva il bagno nel torrente e aveva la sensazione che tutti gli annegati della sua famiglia venissero a risucchiarla dal fondo.

È un romanzo quindi intriso di cultura caraibica e di riti dei quali nel nostro contesto non si parla praticamente mai: questo è uno degli aspetti che ho trovato più interessanti. Un altro elemento degno di nota è la tensione che l’autrice riesce a costruire e la specularità tra la violenza, il sangue e lo scontro ed invece dall’altro lato il sentimento amoroso che la ragazza prova per colui che ora ne desidera la morte. Il crescente nervosismo si accompagna ai contenuti più emotivi del libro, che è ricco di allontanamenti e di addii, di lutti da elaborare e di amati perduti, e culmina in un colpo di scena finale che non mi sarei assolutamente aspettata -e che quindi rende la storia a mio parere ancor meglio costruita.

Non si sono mai abbracciate e non lo faranno adesso. Ma Zulé sa che se rimarrà un minuto di più a fissare quella donna di sabbia, si sgretolerà davanti ai suoi occhi. Perciò le volta le spalle, perciò finge ancora una volta che non le importi.

Una descrizione molto realistica, oltre a quella dell'universo spirituale del voodoo e dei suoi sortilegi, è dedicata alla condizione dei lavoratori migranti da Haiti alla Repubblica Dominicana, che si trovano impiegati come braccianti nei campi di agave o canna da zucchero, in condizioni faticosissime, spesso disumane. Questi ritratti della realtà compaiono qua e là nel romanzo, mettendo il lettore a contatto con un contesto lontano dai riflettori delle notizie trasmesse in Europa.

Avrebbe giurato che al mondo non ci fosse niente di più tagliente che lavorare fra i solchi dell’agave maturo; circondato da quelle lingue spinose che si piantavano nella pelle dei braccianti e aprivano ferite in cui poi si insediavano le zanzare per giorni interi.

Una difficoltà che ho incontrato durante la lettura e che mi sento di segnalarvi è la grande quantità di terminologia specifica, indicata con delle note a pié di pagina ma non in un unico glossario conclusivo. Questo talvolta si è rivelato dispersivo, e potrebbe disorientarvi come mi è capitato diverse volte, quando avevo dimenticato il significato di una parola e non riuscivo più a ritrovarlo all’interno del libro. 

Certo questo aspetto non è determinante nel giudizio complessivo su "Da Haiti venne il sangue", che avevo acquistato per pochi spiccioli al mercatino dell'usato e ho trovato una lettura scorrevole e appassionante che ho apprezzato soprattutto perché mi ha permesso di entrare in contatto con una letteratura che non conoscevo per nulla. Vi consiglio questo libro se siete interessati alle storie di nicchia, tutte da scoprire, che sappiano farvi viaggiare accanto ai loro personaggi!