Sullo sterminio nazista
nel corso del secondo conflitto mondiale sono stati scritti molti
libri, ma di solito si tratta di opere biografiche o di saggistica.
Credo che questo sia il primo romanzo di finzione sull'Olocausto che io abbia mai letto: e si tratta di un'opera coraggiosa, di altissima qualità.
Titolo: Io non mi chiamo Miriam
Autrice: Majgull Axelsson
Anno della prima edizione: 2016
Titolo originale: Jag heter inte Miriam
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Laura Cangemi
Pagine: 576
LA STORIA
In
una tranquilla località della Svezia, il giorno del suo
ottantacinquesimo compleanno Miriam riceve dal suo amatissimo figlio
Thomas e dalla nipote Camilla un bracciale d’argento con inciso il suo
nome. La reazione della donna lascia però i familiari senza parole:
“Io non mi chiamo Miriam”, afferma.
Il
passato di Miriam infatti (il cui vero nome era Malika) è un completo
mistero per tutti coloro che la circondano; è un segreto che la
donna si è portata dentro, ben nascosto, da quando si trovava ancora
nel campo di concentramento di Auschwitz dove era stata deportata
perché appartenente ad una famiglia rom tedesca.
Scambiata
poi la sua uniforme troppo consumata con quella di una prigioniera
ebrea ormai deceduta, dopo aver perso tutti i suoi familiari
(compreso l’adorato fratellino Didi), Malika diventa per tutti Miriam.
Una cicatrice maschera la Z del tatuaggio sul suo braccio, e la sua
nuova identità di sopravvissuta di religione ebraica sostituisce quella vecchia nella nuova vita che
Miriam si costruisce in Svezia, ospite di Hannah, una donna fredda ma generosa che le insegnerà
come inserirsi in una società pacifica e ricominciare.
Anche
se Auschwitz, Bergen Belsen e soprattutto il volto di Didi non la
abbandoneranno mai, e non se ne andranno mai dai suoi incubi…
COSA NE PENSO
Miriam
è una donna spezzata, una donna la cui vita è stata scandita dai
traumi. Una deportazione quando era giovanissima, le tremende
condizioni di vita nei campi di concentramento, l’assistere alla
morte di Didi (vittima del sadismo del nazista Mengele) sono aspetti
che le sono entrati in profondità, lasciando tracce impossibili da
cancellare.
Vede che anche altri bambini oppongono resistenza, che Raul addenta il guanto di una signora e ottiene in risposta uno schiaffo, che Anuscha cerca di liberarsi a calci con scarsi risultati e che Didi è in braccio a una donna in uniforme e tende disperato le braccia alla Miriam che si chiama ancora Malika. Sa che per amor suo deve ricomporsi e smettere di strillare ma non ci riesce, perché nello stesso tempo sa che niente tornerà più come prima, che l'ultimo secondo della vita che ha vissuto è arrivato e trascorso. E poi sa che il nonno si è sbagliato, ma non glielo direbbe mai, né a lui né a suo padre né a Didi e nemmeno a se stessa.
Nella
sua vita in Svezia, Miriam ha sempre fatto attenzione a non farsi
notare, a non contravvenire alle regole, ad inserirsi al meglio. Ha
cresciuto Thomas, rimasto orfano di madre appena neonato, e poi ne ha
sposato il padre: un uomo con il quale ha condiviso l’esistenza
senza mai un litigio, e senza mai rivelargli chi fosse davvero.
Il segreto è infatti ciò che contraddistingue la vita di Miriam, che le ha fatto nascondere la propria vera identità: nella civile e pacifica Svezia i tattare (un gruppo nomade simile ai rom) vengono spesso maltrattati; con ogni probabilità essere la vera se stessa non le avrebbe reso possibile una vita soddisfacente quanto quella che ha in quanto Miriam, e lei ne è consapevole. Miriam ha scelto di mantenere il suo segreto, ha scelto di vivere.
"Io non mi chiamo Miriam" non è però soltanto un romanzo sull'Olocausto, ma anche un romanzo sull'identità e su ciò che significa vivere un'intera esistenza nei panni di qualcun altro, con un segreto impossibile da rivelare finché non si arriva al punto di rottura - nella fattispecie al bracciale ricevuto in dono, a ricordarle la gabbia dorata di menzogne nella quale ha vissuto.
A quel punto sceglie di fidarsi, Miriam, o forse non ha più alternative, ha bisogno di riappropriarsi di ciò che è stata e si fida di Camilla, la sua giovane, indipendente nipote. Tra nonni e nipoti è più facile trovare un terreno comune di quanto non lo sia trovarlo tra figli e genitori, ed infatti attraverso il doloroso racconto condiviso con Camilla Miriam e Malika si fondono in un'unica donna, custode di tante esperienze e tanti dolori, finalmente in pace con se stessa senza alcun segreto da nascondere.
Ho terminato questa lettura mesi fa, e ancora oggi ne conservo un ricordo estremamente vivido; mi ha colpita come non mi sarei aspettata, e di certo si tratta di una delle letture migliori affrontate negli ultimi anni. Cosa aspettate a procurarvene subito una copia?
Miriam è una moglie per Olof, è una madre per Thomas: la maternità emerge spesso in questo romanzo ma non è una maternità biologica, è un istinto materno che si mostra nei più diversi contesti. Sono madri per Miriam Else nel lager, Hannah che in Svezia le insegna come comportarsi; lei lo è per Thomas una volta rimasto orfano, ma fino a quando sarà un uomo adulto neanche lui avrà accesso al segreto di sua madre.Olof fa il dentista e nessun dentista di Nässjö guadagna quanto lui, e lei è sul suo bel divano Carl Malmsten a lavorare a maglia quando d'un tratto scompare tutto. La gonna scozzese diventa un vestito a righe da prigioniera, le calze svaniscono e le scarpe scivolano via nel nulla, il parquet sotto i suoi piedi è di colpo cemento grezzo e non resta altro che il grigio crepuscolo invernale fuori dalla finestra e la neve che cade, e per un breve istante è di nuovo a Ravensbrück ed Else fissa il vuoto con gli occhi sbarrati per la febbre e Miriam grida, grida e sente se stessa gridare e si tappa la bocca con le mani per costringersi a tacere.
Il segreto è infatti ciò che contraddistingue la vita di Miriam, che le ha fatto nascondere la propria vera identità: nella civile e pacifica Svezia i tattare (un gruppo nomade simile ai rom) vengono spesso maltrattati; con ogni probabilità essere la vera se stessa non le avrebbe reso possibile una vita soddisfacente quanto quella che ha in quanto Miriam, e lei ne è consapevole. Miriam ha scelto di mantenere il suo segreto, ha scelto di vivere.
Per un secondo aveva desiderato di poter tornare indietro nel tempo e sussurrare al suo io prigioniero che quel giorno sarebbe arrivato. Un giorno in cui non avrebbe avuto fame, né nausea né mal di testa e al momento di svegliarsi non si sarebbe sentita stanca da morire, un giorno in cui avrebbe aperto gli occhi in una stanza con le rose gialle alle pareti e un pechinese morbido accanto, un giorno in cui avrebbe saputo che in cucina c'erano pane e marmellata e formaggio e uova e che nessuno, non una sola persona, le avrebbe impedito di mangiare. Poi si era trattenuta. Non voleva pensare al suo io prigioniero.La storia di Miriam e della sua sopravvivenza ruotano attorno al dramma dell'Olocausto: l'autrice sceglie in particolare due elementi sui quali focalizza l'attenzione del lettore. Il primo è lo sterminio sistematico dei rom e la loro rivolta ad Auschwitz, una delle poche che ci siano mai state in un campo di concentramento, che attraverso la resistenza passiva fu in grado di vincere per un giorno sulle SS: un episodio raccontato molto di rado, che meriterebbe di far parte della memoria collettiva e di essere celebrato. Il secondo elemento è l'orrore degli esperimenti di Mengele, crudele e sadico, subdolo al punto da essere chiamato dai bambini rom del lager "il dottore delle caramelle" -il solo soprannome fa accapponare la pelle. Le brutalità messe in pratica da quest'uomo non meritano secondo l'autrice alcun perdono, e devono essere ricordate.
"Io non mi chiamo Miriam" non è però soltanto un romanzo sull'Olocausto, ma anche un romanzo sull'identità e su ciò che significa vivere un'intera esistenza nei panni di qualcun altro, con un segreto impossibile da rivelare finché non si arriva al punto di rottura - nella fattispecie al bracciale ricevuto in dono, a ricordarle la gabbia dorata di menzogne nella quale ha vissuto.
A quel punto sceglie di fidarsi, Miriam, o forse non ha più alternative, ha bisogno di riappropriarsi di ciò che è stata e si fida di Camilla, la sua giovane, indipendente nipote. Tra nonni e nipoti è più facile trovare un terreno comune di quanto non lo sia trovarlo tra figli e genitori, ed infatti attraverso il doloroso racconto condiviso con Camilla Miriam e Malika si fondono in un'unica donna, custode di tante esperienze e tanti dolori, finalmente in pace con se stessa senza alcun segreto da nascondere.
"Io non mi chiamo Miriam" è un romanzo di rara intensità, che emoziona, indigna, commuove; impossibile non identificarsi con una coraggiosa ragazzina che resiste a tutto, che trova in se stessa una forza inimmaginabile. Questo romanzo è un'originale opera di finzione su un tema completamente vero, ed è un modo non banale per parlarne, del tutto rispettoso dei suoi superstiti e opera di una scrittrice dall'enorme talento.«Guarda, lo so che tu e la tua generazione ritenete molto utile che si parli di tutto, ma per noi non era così. Abbiamo imparato a dimenticare. Lo dicevano tutti, allora: dimentica e guarda avanti! Non stare a rimuginare sul passato…» S'interrompe e s'incurva leggermente, ma appena se ne accorge raddrizza le spalle. «E poi non c'era nessuno che fosse così interessato ad ascoltare quello che avevamo da raccontare. La gente non voleva sentire e basta.»
Ho terminato questa lettura mesi fa, e ancora oggi ne conservo un ricordo estremamente vivido; mi ha colpita come non mi sarei aspettata, e di certo si tratta di una delle letture migliori affrontate negli ultimi anni. Cosa aspettate a procurarvene subito una copia?
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