Mentre leggevo questo romanzo, acquistato principalmente per la potenza del suo titolo e perché come ormai avrete capito leggo spesso storie legate alle migrazioni, ero convinta che l’autore avesse origini marocchine o perlomeno nordafricane. Poi ho scoperto di no, e questo non ha fatto altro che convincermi ancor di più della sua bravura.
Titolo: La morte di Murat Idrissi
Autore: Tommy Wieringa
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: De dood van Murat Idrissi
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Elisabetta Svaluto Moreolo
Pagine: 124
Titolo: La morte di Murat Idrissi
Autore: Tommy Wieringa
Anno della prima edizione: 2017
Titolo originale: De dood van Murat Idrissi
Casa editrice: Iperborea
Traduttrice: Elisabetta Svaluto Moreolo
Pagine: 124
LA STORIA
Durante un’improvvisata vacanza in Marocco, Ilham e Thouraya (due ragazze olandesi di origine marocchine) incontrano un loro conoscente, Saleh, uno di quelli che definiremmo un “trafficone”. È lui a presentare alle ragazze Murat, un giovane berbero che vive in estrema povertà ed è disposto a pagare pur di nascondersi nel loro bagagliaio ed essere portato in Europa. Come tuttavia il titolo ci ha già avvertito, il piano non andrà come previsto…
COSA NE PENSO
“La morte di Murat Idrissi” riesce a narrare due aspetti, e lo fa in modo convincente: una è la forza che spinge a migrare, a rischiare la propria vita per un viaggio che potrebbe avere successo, ma potrebbe anche avere conseguenze tragiche. L’altra è la duplice appartenenza delle seconde generazioni di immigrati in Europa, che non si sentono europei ma nemmeno nel paese di origine dei loro genitori sono considerati degli autoctoni.
Nonostante fossero nel paese dei loro genitori, alloggiassero da parenti e si riconoscessero nella gente del posto, non erano marocchini. Era questo ad accomunarli. L’essere considerati dei turisti. Che pagavano i prezzi dei turisti. Erano figli di due regni, avevano il passaporto verde del Royaume du Maroc e quello color minio del Regno dei Paesi Bassi, ma in entrambi gli stati erano prima di tutto e soprattutto stranieri.
Lo sfondo è il Marocco, quello lontano dalle zone turistiche, quello della sabbia fitta alzata dal vento e delle lunghe strade che attraversano il nulla; il Marocco e poi la Spagna meridionale accompagnano il viaggio on the road di Ilham e di Thouraya, due protagoniste femminili per un’avventura solitamente narrata al maschile o vissuta da folkloristiche famiglie occidentali. Il confine tra le due nazioni, quello Stretto di Gibilterra da attraversare in traghetto, è ciò che divide i mondi a cui le protagoniste appartengono -perché sì, in realtà dentro di loro ci sono entrambe, l’Africa e l’Europa. L’energia della giovinezza però non dà loro il tempo di rendersene conto, di considerare questa duplicità come ricchezza.
Ilham e Thouraya sono due personaggi ben costruiti. Pur essendo amiche non sono una fotocopia l’una dell’altra, anzi in qualche modo si compensano. Ilham tra le due è la “brava ragazza”, quella che ha scelto la strada dell’assimilazione, della formazione e del successo lavorativo per sentirsi riconoscere come olandese a tutti gli effetti. Ha così spostato in secondo piano la propria identità etnica e familiare, e questo la fa sentire fragile, costantemente sul punto di arrendersi ai piani dei suoi genitori.
C’erano giorni in cui non era molto lontana dalla resa – le bastava un cenno d’assenso e la sua vita avrebbe preso forma. Prima ancora di rendersene conto si sarebbe ritrovata con un marocchino-olandese accanto, avrebbe avuto le mani coperte di tatuaggi all’henné e sarebbe diventata un pancione ambulante. E per quanto suo marito avrebbe spergiurato di essere un uomo moderno, non ci sarebbe voluto molto prima che scoppiasse una discussione sull’hijab. Quella sarebbe stata la sua ultima battaglia. Poi avrebbe conosciuto ancora momenti di rabbia e disperazione, ma in generale sarebbe stato meglio così, più tranquillo e senza problemi. Allo stesso modo era andata anche a sua madre e sua nonna, e a tutte le donne prima di loro i cui scheletri erano ormai parte del fondo roccioso del Rif.
Thouraya è la più impulsiva delle due, quella che ha scelto la via della ribellione, della fuga da casa e della realizzazione di se stessa -realizzazione che considera però da un punto di vista prettamente materiale. È Thouraya ad aver improvvisato quel viaggio on the road per il Marocco, per vivere un’avventura; è lei ad accettare in definitiva di nascondere Murat nel bagagliaio, sedotta dal denaro con cui Saleh la inganna.
È questo che capisci subito quando la guardi, che è fiera di essere una berbera, dura e aspra come le montagne dei suoi antenati. Ma disprezza il padre. Il suo sopportare era quello di un animale che fa ciò che gli viene ordinato e resiste finché non stramazza al suolo.
Wieringa compie una trasformazione nel racconto, e lo fa sul personaggio di Murat. Murat che prima è una persona, un ragazzo magro, dai denti cariati, che sogna di tornare in Europa dopo essere stato rimpatriato dalla Francia. Murat che poi diventa un corpo nel bagagliaio, un corpo martoriato dal tentativo fallito di liberarsi, un corpo che si decompone e che opprime Ilham e Thouraya con il suo odore e la sua presenza, trasformandosi in un loro nemico, in un oggetto del quale liberarsi al più presto. Da morto, Murat assume una consistenza maggiore di quella che ha avuto da vivo: diventa una presenza più ingombrante, diventa il centro dei pensieri di Ilham e Thouraya, che fino a quel momento lo avevano accantonato in un angolo della loro mente.
Chi lui fosse – un figlio, un fratello, un ragazzo dalle lunghe ciglia e dalle dita sottili – non aveva più alcuna importanza. Ormai era solo un corpo di cui bisognava disfarsi. Un corpo morto che con il suo odore trascinava anche loro per metà nel regno dei morti. Dovevano farlo, dovevano liberarsi di lui perché il suo posto era già là mentre il loro era ancora qui. Era stato l’odore, si rese conto Ilham, che alla fine gliel’aveva reso un estraneo.
Wieringa racconta un aspetto violento e drammatico della migrazione, e per certi versi ricorda il potentissimo “Uomini sotto il sole” di Kanafani. Come Kanafani, che raccontava l’esodo verso il Qatar di un gruppo di migranti palestinesi dall’ottica dell’autotrasportatore che li nascondeva nella cisterna del suo mezzo, anche Wieringa lo fa da un punto di vista insolito: non è dagli occhi di Murat che viviamo la sua asfissia, la sua disperata ricerca di ossigeno in quel bagagliaio, ma dallo sguardo sconvolto di Ilham e di Thouraya che prendono coscienza delle conseguenze del loro superficiale aver ceduto a Saleh -Ilham e Thouraya, che prima di allora non avevano preso in considerazione cosa avrebbe potuto andare storto in quel piano messo in piedi tanto in fretta.
Non ci sono colpi di scena ne “La morte di Murat Idrissi”: avrebbero potuto esserci, ma Wieringa ci rende chiaro sin dal titolo che non è il “cosa” che dovremo scoprire, ma sarà il “come” ad esserci raccontato. Questa singolare scelta è, a lettura conclusa, uno degli aspetti più convincenti del romanzo intero: leggiamo della migrazione senza mai nutrire false speranze, guardando in faccia la più cruda realtà, quella di tanti viaggi che sono andati storti e non hanno avuto alcun lieto fine a concluderli, nessuna umanità nemmeno nella morte.
Per questo, e per lo stile di Wieringa che è asciutto e privo di orpelli, vi consiglio assolutamente la lettura di questo romanzo: vi richiederà poco più di un’ora, e sarà memorabile.
Per questo, e per lo stile di Wieringa che è asciutto e privo di orpelli, vi consiglio assolutamente la lettura di questo romanzo: vi richiederà poco più di un’ora, e sarà memorabile.
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