sabato 7 novembre 2020

Anche noi l'America

Di letteratura americana se ne legge e se ne traduce molta: scrittori nordamericani, spesso maschi, che raccontano una certa faccia degli Stati Uniti. Per uscire da questa equazione ormai nota, ho scelto un romanzo che racconta gli Stati Uniti dal punto di vista di una famiglia di immigrati messicani alla ricerca di una vita migliore. Se siete interessati al tema da un punto di vista di non narrativa, vi consiglio di leggere però "Dimmi come va a finire" di Valeria Luiselli, di cui ho scritto qui


Titolo: Anche noi l'America
Autrice: Cristina Henriquez
Anno della prima edizione:
Titolo originale: The Book of Unknown Americans
Casa editrice: NN Editore
Traduttore: Roberto Serrai
Pagine: 320


LA STORIA

Alma e Arturo, dal Messico, emigrano nel Delaware affinché la loro figlia Maribel abbia la possibilità di frequentare una scuola adatta alle sue necessità. Qui si stabiliscono in un palazzo abitato da emigrati da numerosi paesi dell’America Centrale, e scopriranno che anche lontano da casa è possibile costruirsi una nuova famiglia… Nonostante le non poche difficoltà.

COSA NE PENSO

La mia opinione riguardo il romanzo di Cristina Henriquez è cambiata a più riprese nel corso della lettura -che ci tengo a specificare è durata soltanto due giorni, perché non riuscivo a separarmi dal volume.

In “Anche noi l’America” le voci sono numerose, anche se le predominanti sono senza dubbio quelle della famiglia di Maribel e quella dei loro vicini di origine panamense, con il loro figlio Mayor. Centrale per lo sviluppo della narrazione è il dolcissimo primo amore tra Mayor e Maribel, osservato dai punti di vista dei genitori dei ragazzi e da quello di Mayor -mentre Maribel, che in un certo senso è la protagonista vera e propria del romanzo, viene sempre descritta dall’esterno.

Non sarebbe stato un problema, pensai, se non mi avesse trovato. Era come aveva detto lei: per trovare una cosa prima devi perderla. Da allora in poi saremmo stati lontani migliaia di chilometri e saremmo andati avanti con le nostre vite e saremmo cresciuti e cambiati e invecchiati, ma non avremmo mai dovuto cercarci. Dentro ciascuno di noi, ne ero sicuro, c’era un posto per l’altro. Niente di ciò che era successo e niente di ciò che sarebbe mai successo avrebbe reso tutto questo meno vero. 

“Anche noi l’America” racconta l’emigrazione. Racconta il sogno di un Paese dove la felicità è un diritto costituzionale, dove si potrà fuggire dalle lotte armate, dal narcotraffico e dalle dittature militari, dove saranno nuove opportunità, dove i figli potranno frequentare il college, non conoscere più la povertà. L’emigrazione è raccontata però senza troppo facile ottimismo: i personaggi infatti si ritrovano a vivere nello stesso edificio, in una città dove le varie comunità si dividono i quartieri, e a ricercare nei vicini ispanofoni una sorta di nuova famiglia con cui sentirsi veramente “a casa” -perché da emigrati è difficile sentirsi a casa in un nuovo Paese.

Una spiaggia, però, non è tutte le spiagge. E una patria non è tutte le patrie. E secondo me lo sentivamo tutti, su quella spiaggia, quanto eravamo lontani dal posto da dove eravamo venuti, in un modo che era bello ma anche brutto. «Com’è bello» disse mia madre, fissando l’oceano. Poi sospirò e scosse la testa. «Questo paese».

Degno di nota è il titolo, scelta del traduttore Roberto Serrai: l’originale è infatti “The Book of Unknown Americans”, cioè “Il libro degli americani sconosciuti”, i cittadini statunitensi lontani dai riflettori, quelli che non ci verrebbero in mente al pensiero dell’aggettivo “americano” -e tra di loro ci sono, per primi, i latinos, poi gli asiatici, infine forse anche i neri, nonostante i secoli di storia afroamericana in terra statunitense. Il traduttore opta per una traduzione che si discosta dall’originale, e lo fa al fine di evidenziare l’aspetto corale della narrazione di Cristina Henriquez, citando una poesia di Langston Hughes (“I, Too”) e di mettere in luce come tutti i suoi personaggi, con le loro peculiarità, siano parte della nazione -consapevolezza che dovrebbe far parte del nostro bagaglio oggi più che mai. 

Noi siamo gli americani invisibili, quelli che a nessuno importa nemmeno di conoscere perché gli hanno detto di avere paura di noi e perché forse, se facessero lo sforzo di conoscerci, si renderebbero conto che non siamo poi così cattivi, e forse addirittura che siamo molto simili a loro. E chi odierebbero allora?

“Anche noi l’America” è un romanzo che emoziona. I sentimenti passano dalla tenerezza all’indignazione in un attimo, e altrettanto velocemente si passa dal sorriso alla commozione. Proprio a questo proposito la mia opinione è cambiata molto nell’ultima parte del romanzo, che fino ad allora avrei consigliato come una di quelle letture che ci fanno sentire bene; invece la sensazione che mi è rimasta addosso una volta chiuso questo romanzo è stata una profonda malinconia, un senso di ingiustizia e di insoddisfazione, pur riconoscendo che il finale rende la narrazione molto più realistica e racconti gli Stati Uniti di oggi assai meglio della conclusione che avrei tanto voluto leggere. 

La vita che ti stringe coi suoi tentacoli, ti prende all’amo il cuore, e di colpo ti svegli come fosse la prima volta e ti ritrovi in una parte della città dove l’aria è dolce – col viso rosso, il petto che ansima, lo stomaco un pianeta, il cuore un pianeta, ogni organo di per sé un pianeta, e tutto è un meccanismo anche se i pezzi girano ognuno per sé, Oh silenziosi accenni all’inevitabile, mentre tra i limiti naturali dell’inverno e del buon senso la vita ti disfa tra le sue braccia.

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