Il primo Stephen King che abbia mai letto aveva Tom Hanks sulla copertina: erano i primi anni duemila, andavo alle medie, odiavo tutto e tutti se non i miei libri e cominciavo ad apprezzare i film. Sull’onda della visione di “Philadelphia” una sera in TV, durante un viaggio verso una meta che, inutile dirlo, detestavo, in una noiosissima sosta in autogrill i miei genitori si lasciarono convincere e mi comprarono “Il miglio verde”. Avevo dodici anni, e probabilmente le spalle più larghe di adesso.
Autore: Stephen King
Anno della prima edizione: 1996
Titolo originale: The Green Mile
Casa editrice: Sperling&Kupfer
Traduttore: Tullio Dobner
Pagine: 552
LA STORIA
Paul Edgecombe è ormai anziano e risiede in una casa di riposo quando decide di mettere su carta i suoi ricordi risalenti al 1932. All’epoca, nel pieno della Grande Depressione, Paul lavorava nel penitenziario di Cold Mountain, in particolare nel cosiddetto “miglio verde” per via del colore del linoleum a terra: vale a dire, nel braccio della morte. È qui che Paul conobbe John Coffey, mastodontico detenuto afroamericano, un uomo che lo cambiò per sempre e che Paul non ha mai dimenticato…
COSA NE PENSO
Nell’introduzione al romanzo (che nel 1996 fu pubblicato suddiviso in sei episodi, fattore al quale dobbiamo la sorta di riassunto con il quale comincia ogni capitolo a partire dal secondo) King spiega che inizialmente la storia che aveva concepito nel corso delle sue notti insonni vedeva protagonista un detenuto nero e gigantesco che si appassionava all’illusionismo. Pensò poi di affiancare a questo primo Coffey un topolino (chi non si è innamorato del Signor Jigles, durante la lettura?) ed infine lo trasformò da illusionista a guaritore: ed eccoci al romanzo che oggi possiamo leggere, lasciando che ci spezzi il cuore.
"Quello
è Steamboat Willy, come quello del filmino. E stato il capo Howell a
chiamarlo così." "E il signor Jingles", insisté
Delacroix. Su qualunque altro argomento ti avrebbe detto che il nero
è bianco, se glielo avessi imposto, ma sul nome del topo fu
irremovibile. "Me l'ha bisbigliato nell'orecchio. Capitano,
potrei avere una scatola dove tenerlo? Potrei avere una scatola per
il mio topo, così può dormire qui con me?"
Ne “Il miglio verde” c’è molto, e da adolescente non avevo saputo coglierlo: c’è la Grande Depressione con la conseguente paura di perdere il lavoro, anche quando il peso emotivo del braccio della morte si fa insostenibile; c’è il razzismo degli stati del Sud dove la vita di un nero non vale granché, e sono proprio gli afroamericani le vittime più frequenti di Old Sparky, la sedia elettrica.
Ci
saranno quelli che non capiranno come mai, nemmeno dopo tutto quanto
ho raccontato, ma saranno senz'altro quelle persone che hanno letto
l'espressione "Grande Depressione" solo nei libri di
storia. Per chi c'era, non era una definizione e basta, chi c'era e
aveva un posto fisso, amici, era disposto a tutto pur di
conservarselo.
Nonostante i ricordi di Paul risalgano agli anni ‘30 del Novecento, “Il miglio verde” parla ancora al presente, attraverso i temi della discriminazione razziale e della pena di morte, condanna ancora in vigore in diversi stati degli USA.
Me
la caverò, non sono assassini, doveva aver pensato. E subito dopo,
chissà, ricordando Old Sparky, poteva aver riflettuto che invece lo
eravamo. Io ne ho giustiziati settantasette, più di quanti ne
abbiano singolarmente uccisi quelli a cui ho stretto la cinghia sulla
sedia, più di quanti siano stati accreditati al sergente York nella
prima guerra mondiale.
Ma oltre ai temi di rilevanza storica e politica, ne “Il miglio verde” emerge prepotentemente la capacità di King di caratterizzare personaggi indimenticabili: la crudele guardia carceraria Percy, giovane ed egoista, il detenuto Delacroix che Percy tanto detesta, Paul e i suoi colleghi, e soprattutto John Coffey. John è un uomo misterioso e dalla mente non brillante, che nella sua cella passa il tempo a piangere, sopraffatto dal dolore del mondo che percepisce su di sé; John ha anche un dono, che condivide generosamente con il prossimo (che sia questo prossimo umano, o animale) e che è tuttavia anche la causa per la quale si trova nel Miglio verde, prossimo all’esecuzione. John è un uomo buono, e fragile, un uomo che ha paura del buio; un uomo che il mondo ha ignorato finché non ha potuto accusarlo, senza perdere troppo tempo a chiedersi se fosse davvero il colpevole.
"Sai,
capo", mi rivelò, "oggi pomeriggio mi sono addormentato e
ho fatto un sogno. Ho sognato il topo di Del." "Ho sognato
che c'erano anche quelle due bambine bionde. Ridevano anche loro. Io
le ho prese in braccio e non c'era sangue che veniva fuori dai
capelli, stavano benissimo. Abbiamo guardato tutti insieme il signor
Jingles che faceva rotolare quel rocchetto e che risate ci siamo
fatti. A crepapelle." "Ma guarda." Stavo pensando che
non ce la potevo fare, escluso, nemmeno a parlarne. Mi sarei messo a
piangere o a gridare o forse mi sarebbe scoppiato il cuore per la
disperazione e sarebbe stata la fine anche per me.
Per Paul e i suoi colleghi Harry e Brutal, l’incontro con John significherà mettere in discussione, per la prima volta, la natura nel loro mestiere: fino ad allora infatti era lo stesso Paul a dichiararsi a favore della pena capitale (da figlio del suo tempo), ma come comportarsi davanti a qualcuno di tanto straordinario, del quale tuttavia è impossibile provare l’innocenza?
"Ho
fatto alcune cose nella mia vita di cui non vado fiero, ma questa è
la prima volta che mi sento veramente in pericolo di finire
all'inferno." Lo guardai per assicurarmi che non stesse
scherzando. Non ebbi questa impressione. "In che senso?"
"Nel senso che ci stiamo preparando a uccidere un dono di Dio",
rispose. "Uno che non ha mai fatto male né a noi, né ad altri.
Che cosa potrò dire se mi dovessi trovare al cospetto del Padre
Nostro Onnipotente e Lui mi chiedesse di spiegargli perché l'ho
fatto? Gli rispondo che era il mio lavoro? Il mio mestiere?"
John cambia Paul, e lo cambia per sempre. Non soltanto attraverso le sue parole, o le azioni alle quali Paul assiste; John lo cambia con il tocco delle sue mani, ed è grazie ad esso che dopo oltre sessant’anni Paul consegnerà alla carta le sue memorie su un uomo che merita di non essere dimenticato, e che ha lasciato un’impronta indelebile dentro di lui.
Ma
naturalmente nel 1932 John Coffey non aveva salvato solo Melly Moores
o il topo di Del, il topolino che sapeva fare quel numero virtuoso
con il rocchetto e sembrava cercare Del ben prima che il cajun
arrivasse... ben prima che arrivasse John Coffey, se è per questo.
John aveva salvato anche me e anni dopo, mentre sotto la pioggia
dell'Alabama cercavo un uomo che non c'era nelle ombre sotto un
cavalcavia, fermo tra bagagli e cadaveri straziati, imparai una
terribile lezione: certe volte non c'è assolutamente differenza tra
salvezza e dannazione.
Darvi un parere oggettivo su questo romanzo mi è oggi assolutamente impossibile. La rilettura a distanza di quasi vent’anni di questo capolavoro, dopo aver amato molti altri romanzi di King (qui trovate un elenco di quelli di cui ho già scritto sul blog), è stata una conferma e una sorpresa al tempo stesso: se il primo incontro con “Il miglio verde” aveva cambiato per sempre i miei gusti letterari, oggi mi ha scavato dentro facendo così male da ridurmi in singhiozzi. Non posso fare altro che consigliarvene la lettura, perché può dimostrarvi come King sia molto più di uno scrittore di romanzi dell'orrore, e sappia invece scavare in profondità nell'animo umano e nelle brutalità di cui è capace di macchiarsi.
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