Di Helga Schneider ho letto, negli anni, diversi libri: tra romanzi e testi autobiografici (di “Lasciami andare, madre” avevo scritto qui), l’autrice tedesca naturalizzata italiana non mi ha mai delusa, e così ho acquistato a scatola chiusa questo titolo che fa parte della produzione volta a narrare la vita della scrittrice.
Autrice: Helga Schneider
Anno della prima edizione: 2004
Casa editrice: Adelphi
Pagine: 154
LA STORIA
Kurt Linke ha tredici anni nel 1949, quando sulle rive del lago di Attersee, in Austria, trascorre l’estate con Helga, suo fratello Peter e gli amatissimi nonni della ragazzina, all’epoca dodicenne. Kurt è taciturno, scontroso, pieno di incubi e di fantasmi che tornano a perseguitarlo: insieme alla mamma Ludwika infatti è scampato all’avanzata dell’armata sovietica nei territori prussiani dell’Europa dell’Est, dove in una spietata vendetta contro il nazismo tanti innocenti hanno perso la vita.
COSA NE PENSO
Della pagina di storia che Helga Schneider racconta attraverso la biografia di Kurt non sapevo nulla: i territori dell’Europa dell’Est dove tanti cittadini tedeschi si erano trasferiti con l’espansione nazista vennero riconquistati dall’Armata Rossa negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, e i soldati sovietici non ebbero pietà per nessuno, accecati dall’odio per ciò che i nazisti avevano fatto subire loro.
Nella loro avanzata verso occidente, i soldati sovietici avevano attraversato città e villaggi distrutti, avevano visto forche innalzate dai tedeschi e le fosse comuni di russi uccisi dai tedeschi. Avevano incontrato, in Polonia, i primi campi di sterminio. Avevano visto centinaia di migliaia di compagni cadere in battaglia, spesso così giovani da poter essere considerati ancora dei ragazzi. E avevano sentito storie raccapriccianti di vecchi inermi torturati a morte, di bambini prima terrorizzati e poi costretti a prendere le armi, e di un numero spaventoso di donne e ragazzine violentate. Per anni era stato inculcato in loro l'odio per tutto quanto fosse tedesco. Ai loro occhi i tedeschi non erano creature umane, ma solo bestie meritevoli di essere abbattute.
Kurt Linke è uno di quei bambini prussiani nel gennaio del 1945, quando lui, il suo amatissimo nonno, la mamma e il fratellino Nikolas di pochi mesi si mettono in viaggio con una carovana di profughi a bordo di carri trainati dai cavalli, costretti ad abbandonare le loro case, le fattorie, gli animali. La destinazione sono le coste del Baltico da cui si imbarcheranno per la Germania, ma arrivarci è tutt’altro che semplice a causa dei freddi gelidi, degli attacchi da parte dei soldati, delle malattie e delle provviste che scarseggiano.
Centinaia di migliaia di tedeschi delle regioni orientali non morivano infatti esclusivamente per i massacri dell'Armata Rossa, ma anche perché i generali dell'esercito tedesco eseguivano rigorosamente ogni ordine del Führer. Non solo la popolazione civile non venne evacuata a tempo debito, ma alle colonne dei profughi furono sbarrate le strade principali per mandarle su quelle laterali spesso sterrate, dissestate e impraticabili. E la Wehrmacht non si limitò a riservare a usi militari solo le strade asfaltate. Sequestrò anche le ferrovie.
La mamma di Kurt è fragile, terrorizzata; il nonno è un uomo dal carattere forte, amorevole e determinato, ma anziano; e il piccolo Nikolas come potrà sopravvivere a simili condizioni? Per Kurt Linke quella migrazione forzata è un trauma indelebile, che lo espone a perdite e dolori insostenibili per un bambino di soli nove anni costretto a crescere all’improvviso.
"Non ho fame" risponde brusco il ragazzo. [...] "Piuttosto, Nikolas ha preso il latte?". "Tre volte" mente la donna. "Bene" fa Kurt. Sapendo che lei mente.
Helga e Kurt, nell’estate del 1949, faticano a legare a causa di quel trauma: ma poi, in seguito all’ennesima lite, Kurt finalmente scoperchia il vaso di Pandora dei suoi incubi e racconta ad Helga l’esperienza che lei una volta adulta riporterà in questo libro. “L’usignolo dei Linke” così è un testo dolorosissimo, nel corso del quale è impossibile per il lettore non immedesimarsi in Kurt e nelle sue indicibili sofferenze di bambino, che ci frantumano il cuore in minuscoli pezzettini.
A Kurt rimarrà per sempre impressa nella memoria quella pietra miliare imbiancata a calce che era servita da lapide a nonno Linke. "Dobbiamo andare" sussurra la madre. Kurt trasale, posa un ultimo bacio sulla fronte del nonno, si rialza di scatto e, guardando la madre con un'espressione dura che lei non gli ha mai visto, afferma seccamente: "Dio non esiste, mamma. Altrimenti non ci avrebbe tolto il nonno. Dio non ascolta le nostre preghiere. Non ne dirò mai più una per il resto della mia vita". E si avvia verso il carro senza più voltarsi indietro.
“L’usignolo dei Linke” è una lettura intensa ed emotivamente impegnativa, che non vi consiglio se state attraversando un periodo difficile delle vostre vite. Se però siete interessati ad una pagina di storia del Novecento che non ci raccontano spesso, questo libro è un ottimo modo per venirne a conoscenza, ed è anche uno di quei titoli che mi sento di suggerirvi se state cercando una lettura che sappia toccarvi in profondità.
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