lunedì 7 giugno 2021

Ogni mattina a Jenin

Ci sono romanzi che ti insegnano, e ti scavano dentro, e ti lasciano in lacrime con in mano la tua copia acquistata per due euro all'usato e che ha invece un valore inestimabile, del quale ti accorgi una volta terminata la lettura. Questo è stato per me "Ogni mattina a Jenin".


Titolo: Ogni mattina a Jenin
Autrice: Susan Abulhawa
Anno della prima edizione: 2006
Titolo originale: The Scar of David (poi 2010, Mornings in Jenin)
Casa editrice: Feltrinelli
Traduttrice: Silvia Rota Sperti
Pagine: 390


LA STORIA

Nel villaggio palestinese di 'Ain Hod inizia la storia di una famiglia: inizia con Bassima e con Yeyha e con i loro figli Darwish e Hassan, costretti a lasciare le proprie terre nel 1948, i loro ulivi, e a ricostruirsi un'esistenza da profughi a Jenin. Inizia così una storia palestinese, di massacri ingiustificati, di terre usurpate, di legami infranti, di amori intensi e veri che non hanno speranza contro i proiettili e contro i carri armati.

COSA NE PENSO

"Ogni mattina a Jenin" è meglio di un libro di storia, per certi versi: ripercorre le drammatiche vicende della Palestina occupata, dell'esercito israeliano e dei suoi massacri, attraverso dei personaggi vividi e veri seppure inventati. La protagonista a tutti gli effetti è Amal, terzogenita di Hassan e di Dalia, madre che ha perduto troppo: il suo primogenito Youssef lotterà per la Palestina mettendo costantemente a rischio la propria vita, mentre il suo secondo figlio le è stato portato via proprio nel 1948, appena neonato, ed è cresciuto sotto una falsa identità israeliana, figlio di una vittima dell'Olocausto divenuta sterile, senza che la sua madre biologica potesse saperne nulla. L'autrice per questo elemento si è ispirata al racconto "Ritorno ad Haifa" di Ghassan Kanafani, del quale vi avevo parlato qui.

Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. 

Dopo l'espropriazione del 1948 c'è poi la guerra del 1967, dove Amal e la sua amica Huda imparano cos'è un assedio, in cui sopravvivere in un buco sotto la cucina, con una neonata a morire loro tra le braccia. C'è un padre scomparso, Hassan, sulla cui fine nessuno saprà mai la verità; e c'è un orfanotrofio (realmente esistito, di cui si racconta anche nel film "Miral" che vi consiglio) dove Amal onorerà la promessa fatta al padre di farsi onore negli studi, potendo così emigrare negli Stati Uniti -dove la sua identità di Amy non coinciderà mai con chi è davvero.

Huda piangeva perché mi voleva bene e provava un grande senso di vuoto da quando avevo lasciato Jenin. Io piangevo perché, pur volendole bene a mia volta, sapevo che il mio sentimento non riusciva ad avere la stessa intensità.

La Palestina resta la vera casa di Amal, il suo sé più profondo: e sarà in un campo profughi, questa volta nel Libano dove i palestinesi vivono ammassati, che si innamorerà di Majid, che vedrà nascere sua nipote, figlia del purissimo amore tra Youssef e Fatima, a cui della Palestina sarà dato anche il nome. Ma tutti questi amori saranno distrutti dall'esercito israeliano, dall'inconcepibile massacro di Sabra e Shatila del 1982, dove persero la vita migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato accertato, per via dei cadaveri occultati nelle fosse comuni nell'indifferenza del mondo). 

“Mio padre lo chiamava così. Jeddo Yehya – non l’ho mai conosciuto – aveva l’abitudine di portare lui e ‘Ammu Darwish in spiaggia quando la Palestina era ancora la Palestina.” “Sarà sempre la Palestina” disse Majid sommessamente, quasi con riluttanza.

"Ogni mattina a Jenin" è un romanzo che racconta la Palestina e il dramma delle torture, dei rapimenti arbitrari da parte dell'esercito israeliano -capace di accanirsi anche contro dei bambini armati di sassi, dei campi profughi privi di qualunque tutela sanitaria e ambientale, delle morti senza motivo alcuno. Amal è una protagonista che cerca in qualche modo di sfuggire ai tanti traumi della sua esistenza, alle perdite intollerabili che ha subito, ma dimostra anche come sia impossibile sfuggire a se stessi e alla propria appartenenza ad una terra per la quale è ancora così necessario lottare e restare -come fa la sua amica Huda, pagando per questo un prezzo altissimo nei suoi figli gemelli.

Guardò in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e cioè che la loro storia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei palestinesi. Quegli uomini arrivati dall’Europa non conoscevano né l’hummus né i falafel, ma li proclamarono “piatti tradizionali ebraici”. Rivendicarono le ville di Qatamon come “antiche dimore ebraiche”. Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi che vivevano su quella terra, amandola e coltivandola. Arrivarono da nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come se fossero “antichi manufatti ebraici”. Vennero a Giaffa e trovarono arance grosse come angurie, e dissero: “Guardate! Gli ebrei sono famosi per le loro arance”. Ma quelle arance erano il risultato di secoli e secoli durante i quali i contadini palestinesi avevano perfezionato l’arte di coltivare gli agrumi.

Susan Abulhawa conosce bene ciò di cui scrive: figlia di una famiglia palestinese sfuggita alla Guerra dei Sei Giorni, cresciuta in un orfanotrofio di Gerusalemme e poi emigrata negli Stati Uniti, madre di una figlia femmina come Sara nel suo romanzo, ha molti aspetti in comune con la sua protagonista e la rende una donna assolutamente tridimensionale, per la quale si soffre pagina dopo pagina. Per Amal soffriamo, certo, ma soprattutto per la Palestina ed il suo popolo oppresso, privato delle più elementari libertà, ucciso dai cecchini e dai soldati nella terra che gli appartiene e dalla quale è stato scacciato in nome di decisioni inaccettabili. Sfido chiunque a leggere "Ogni mattina a Jenin" e rimanere indifferente alla causa della Palestina, a non comprenderne il dramma: e questo è a mio parere il maggior pregio del romanzo di Abulhawa, scrittrice dall'innegabile grande talento

"Ogni mattina a Jenin" è quindi un romanzo profondamente politico, calato in un contesto storico e capace di insegnarci una storia della quale leggiamo raramente nei libri: perché la voce che grida più forte è sempre quella del più potente, e chi nasce e cresce in un campo profughi raramente starà dalla parte dei vincitori

È però anche un romanzo familiare di enorme intensità, in cui si intrecciano grandi amori, amicizie lunghe una vita, rapporti fraterni complessi, percorsi di vita che si rincontrano dopo decenni; e se anche non siete interessati alla storia del Medioriente, si tratta comunque di una storia che, sono certa, non dimenticherete facilmente. Per me è stata una delle letture più intense in questa prima metà dell'anno, che mi ha lasciata in lacrime in più di un passaggio, e che mi ha fatto scoprire un'autrice che penso entrerà a far parte delle mie preferenze letterarie. 

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