Liliana Segre è una senatrice a vita della Repubblica italiana, nata a Milano nel 1930. È una donna elegante, di grande eloquenza, che oggi porta il proprio messaggio in Parlamento e nelle scuole per portare avanti la memoria dei superstiti ai campi di sterminio. In questo libro scritto a quattro mani con il giornalista Enrico Mentana ha raccolto la storia della sua vita e della sua famiglia, dando vita ad un'opera a dir poco preziosa.
Autori: Liliana Segre, Enrico Mentana
Anno della prima edizione: 2015
Casa editrice: Rizzoli
Pagine: 225
Liliana Segre nasce a Milano nel 1930 in una famiglia di origini ebraiche, ma sostanzialmente laica. L'ebraismo non è per lei una vera propria appartenenza, ed anzi da bambina non si rende nemmeno conto di fare parte di tale cultura; cresce con suo padre Alberto, rimasto vedovo quando Liliana aveva solo undici mesi, deciso a dedicare alla amatissima figlia la propria vita.
Alberto è senz'altro una figura chiave in questo libro, in quanto presenza costante nella vita di Liliana anche dopo la separazione ad Auschwitz -dove l'uomo morirà dopo tre mesi. Alberto è un uomo buono, un figlio amorevole e un padre devoto; un uomo che non osa, quando gliene viene offerta l'opportunità, emigrare all'estero. Nonostante in Italia siano state promulgate le leggi razziali, Alberto non se la sente di abbandonare gli anziani genitori, il padre affetto dal morbo di Parkinson, e per ben due volte rifiuta di prendere in considerazione l'emigrazione negli Stati Uniti o in Argentina. Solo più tardi, nel 1944, quando la situazione è ormai insostenibile Alberto cerca con Liliana di attraversare il confine con la Svizzera: ma alla frontiera vengono respinti, e in Italia arrestati. Sarà dal carcere di San Vittore che saranno deportati.
Ho sempre cercato di proteggere mio papà: non mostrandogli la mia disperazione, sforzandomi di sorridere anche quando era difficile farlo, fino all’ultimo saluto che ci siamo scambiati. Era un uomo da proteggere, mio papà.
Separata dal padre, Liliana sopravvivrà, una tra le poche. Sopravvivrà al lavoro in condizioni di schiavitù in una fabbrica di munizioni, alla fame e alle privazioni, alla più totale disumanizzazione ed infine anche alla marcia della morte, essendo appena un'adolescente. Dovrà rinunciare ai suoi affetti più cari, ma anche a tutto ciò che le ricorda la sua tranquilla quotidianità di prima della guerra; in questo libro non ci risparmia lo spaesamento, la crudeltà che subisce, il dolore e la fame.
Venivo da un mondo fatto di persone buone, miti, da una famiglia in cui non si litigava, in cui ci si voleva bene, appartenente a una borghesia quieta. Per questo – anche dopo aver attraversato tutti i passaggi intermedi che avrebbero dovuto prepararmi al peggio – quell’orrore andava oltre la mia capacità di comprensione.
Ma addirittura più difficile sarà per Liliana sopravvivere al reinserimento nella società, in una famiglia che non è più quella che tanto aveva amato -vivrà infatti presso gli zii materni, borghesi e attenti alle apparenze, incapaci di comprendere le sofferenze subite dalla nipote e la sua necessità di colmare un vuoto attraverso il cibo.
La forza per ricominciare la troverà incontrando Alfredo, dal quale avrà tre figli nonostante le avessero detto che non avrebbe potuto: al primo darà il nome di Alberto, suo padre, dando in qualche modo nuovamente vita al suo uomo più amato. Si sentirà una madre a volte scomoda, intrappolata nella propria memoria - incapace di dare voce ai traumi subiti, per moltissimo tempo messi a tacere dentro di sé.
Spesso mi diceva anche: «Il tuo sguardo a volte è terribile, perché tu guardi oltre le cose. Io so a cosa stai pensando in quei momenti. Invece devi stare qui! Sei qui».
A lungo Liliana Segre non ha raccontato nulla della deportazione e del campo di concentramento; poi ha trovato la forza per farlo, ne ha sentito la necessità e lo ha fatto dapprima nel collegio cattolico dove aveva studiato da ragazzina (e dove le era stato richiesto il battesimo) e poi nelle scuole, nei teatri, e oggi addirittura in Parlamento -qui trovate il più recente dei suoi discorsi.
La sua testimonianza è naturalmente anche in questo libro, in questa preziosa autobiografia: dove emerge una Liliana che davvero non mi aspettavo. La donna elegante che tante volte avevo ascoltato parlare con lucida determinazione in questi capitoli è una donna spietata, mai indulgente nemmeno con se stessa; una donna che non ha perdonato nemmeno quelli che ha considerato i propri errori e che mi ha quasi spaventata per la sua durezza.
Ero una formica in un formicaio, ma senza neanche una briciola di pane da trasportare. Anche fra i prigionieri sono sempre stata un paria. Non avevo alcuna qualità utile: non ero furba e parlavo solo in italiano. Mi sarebbe potuta succedere qualunque cosa.
Il suo punto di vista è lontano da ogni retorica, da ogni banalità: non ci consente di adagiarci sui luoghi comuni, di rifugiarci in qualche lieto fine da cartolina, o in un ottimismo che di realistico avrebbe ben poco.
Troppe volte, in nome di una bella finzione, si è banalizzato l’Olocausto. Il sopravvissuto è diventato un cliché in molti dei romanzi che mi capita di leggere: c’è sempre un giovane protagonista con un saggio nonno che si è salvato dai campi di sterminio. O magari il nostro eroe ha nel passato qualche parente vittima delle SS. La Shoah è stata ridotta a un argomento di moda, e questo è orribile.
Proprio questo, la sua voce narrante inconfondibile, tutt'altro che rassicurante, rende "La memoria rende liberi" un testo impossibile da dimenticare: un libro che sconvolge, che disturba e che fa male, e che ricorda quanto sia fondamentale ogni giorno non essere indifferenti, ricordare l'orrore che è stato e non ripeterlo.
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